Secondo Hume, l’identità dell’io non è giustificata da nessuna esperienza, né esiste argomentazione che possa dimostrarla. Se ci atteniamo all’esperienza, infatti, rileviamo solo “fasci di percezioni” mentre, se cerchiamo un’argomentazione logica, dobbiamo riconoscere che l’idea di identità non può coincidere con quella dell’io. L’io infatti è una composizione di relazioni, ma la nozione di relazione non è quella di identità. La sovrapposizione dell’identità all’io avviene quindi solo attraverso un’inferenza extraempirica ed extralogica come la nozione di “persona” che ha caratteri etici, religiosi o pratico-vitali, cioè sempre metaforici rispetto alla “sostanza metafisica” che dovrebbe corrisponderle.Trattato sulla natura umana, Bari, Laterza, 1982, I, pp. 263-266.
Ci sono alcuni filosofi, i quali credono che noi siamo in ogni istante intimamente coscienti di ciò che chiamiamo il nostro io: che noi sentiamo la sua esistenza e la continuità della sua esistenza; e che siamo certi, con un’evidenza che supera ogni dimostrazione, della sua perfetta identità e semplicità. Le sensazioni più forti, le passioni più violente, dicono essi, invece di distrarci da tale coscienza, non fanno che fissarla più intensamente e mostrarci, col piacere e col dolore, quanta sia la loro influenza sull’io. Tentare un’ulteriore prova di ciò sarebbe, per essi, indebolirne l’evidenza: non c’è nessun fatto del quale noi siamo così intimamente coscienti come questo; e se dubitiamo di questo, non resta niente di cui si possa esser sicuri.
Disgraziatamente, tutte queste recise affermazioni sono contrarie all’esperienza stessa da essi invocata: noi non abbiamo nessun’idea dell’io, nel modo che viene qui spiegato. Da quale impressione potrebbe derivare tale idea? […] Ci vuol sempre una qualche impressione per produrre un’idea reale. Ma l’io, o la persona, non è un’impressione: è ciò a cui vengono riferite, per supposizione, le diverse nostre impressioni e idee. Se ci fosse un’impressione che desse origine all’idea dell’io, quest’impressione dovrebbe rimanere invariabilmente la stessa attraverso tutto il corso della nostra vita, poiché si suppone che l’io esista in questo modo.
Invece, non c’è nessuna impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni, si alternano continuamente, e non esistono mai tutti insieme. Non può essere, dunque, da nessuna di queste impressioni, né da alcun’altra, che l’idea dell’io è derivata: per conseguenza, non esiste tale idea. Inoltre, che cosa diventano, secondo questa ipotesi, tutte le
percezioni particola ri ? Esse sono tutte differenti, distinguibili e separabili, e possono esser considerate ed esistere separatamente l’una dall’altra senza bisogno di nulla che ne sostenga l’esistenza.
In che modo, allora, appartengono all’io, e come sono in relazione con questo? Per parte mia, quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso, m’imbatto sempre in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione. Quando per qualche tempo le mie percezioni sono assenti, come nel sonno profondo, resto senza coscienza di me stesso, e si può dire che realmente, durante quel tempo, non esisto. E se tutte le mie percezioni fossero soppresse dalla morte, sì che non potessi più né pensare né sentire, né vedere, né amare, né odiare, e il mio corpo fosse dissolto, io sarei interamente annientato, e non so che cosa si richieda di più per far di me una perfetta non-entità. […].
Noi non siamo altro che fascio collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. I nostri occhi non possono girare nelle loro orbite senza variare le nostre percezioni. Il nostro pensiero è ancora più variabile della nostra vista, e tutti gli altri sensi e facoltà contribuiscono a questo cambiamento; né esiste forse un solo potere dell’anima che resti identico, senza alterazione, un momento. La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni. Né c’è, propriamente, in essa nessuna semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l’inclinazione naturale che abbiamo ad immaginare quella semplicità e identità. E non si fraintenda il paragone del teatro: a costituire la mente non c’è altro che le percezioni successive: noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate, o del materiale di cui è composta.
Che cos’è, dunque, che ci dà così forte inclinazione ad attribuire un’identità a queste percezioni successive, e a noi stessi un invariabile e ininterrotta esistenza attraverso il corso di tutta la vita? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo distinguere fra l’identità personale in quanto riguarda il pensiero o l’immaginazione ed in quanto riguarda le passioni o l’interesse che prendiamo a noi stessi. Qui si parla soltanto della prima, e per spiegarla in modo esauriente dobbiamo approfondirla con l’indagine di quell’identità che attribuiamo anche alle piante e agli animali, essendovi una grande analogia tra essa e quella dell’io ossia della persona.
Noi abbiamo un’idea distinta di un oggetto che rimane invariabile e ininterrotto attraverso una data variazione di tempo: quest’idea noi la chiamiamo d’identità o di medesimezza. Abbiamo anche un’idea distinta di molti e differenti oggetti esistenti successivamente e connessi da una stretta relazione: essa, guardata in fondo, ci dà una così perfetta nozione della diversità come se non ci fosse nessuna relazione fra gli oggetti. Ma, sebbene queste due idee, d’identità e di successione di oggetti in relazione siano in se stesse perfettamente distinte e anche contrarie, è certo, tuttavia, che nel nostro abituale modo di pensare vengono generalmente confuse l’una con l’altra.
L’atto dell’immaginazione, col quale consideriamo un oggetto ininterrotto e invariabile, lo sentiamo quasi identico a quello col quale riflettiamo su una successione di oggetti in relazione; né lo sforzo del pensiero richiesto per quest’ultimo è maggiore che per il primo, perché la relazione facilita il passaggio della mente da un oggetto all’altro e lo rende così piano come se essa contemplasse un oggetto solo e continuo. Questa somiglianza è la causa della confusione e dell’errore, perché ci fa sostituire la nozione d’identità a quella di oggetti in relazione».
Esercitazione
1. Con quale argomento Hume contesta l’esistenza dell’io (come entità reale e sostanziale)?
2. Quali implicazioni etiche ha l’argomento humeano che lega l’autocoscienza alle percezioni?
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