Diogene di Sinope

by gabriella

Credo ch’io potrei vivere tra gli animali,
che sono così placidi e pieni di decoro.
Io li ho osservati tante volte e a lungo;
Non s’affannano, non gemono sulle loro condizioni,
Non stanno svegli al buio, per piangere sopra i loro peccati,
Non m’indignano discutendo i loro doveri verso Dio,
Nessuno è insoddisfatto, nessuno ha la mania infausta di possedere cose,
Nessuno si inginocchia innanzi all’altro, né ai suoi simili vissuti migliaia d’anni fa,
Nessuno è rispettabile tra loro, od infelice,
sulla terra intiera.

Walt Whitman

La storia narra che Alessandro Magno, affascinato dalla possibilità di incontrare il filosofo, celebre per il suo autocontrollo e la sua assoluta indipendenza dalle cose e dal potere, gli chiese quale suo desiderio avrebbe potuto esaudire: Diogene gli chiese di spostarsi perchè gli faceva ombra. Alessandro rimase colpito dall’assoluta indifferenza e dalla mancanza di reverenza di un uomo che lo trattava da pari e ne colse, non senza fastidio, la superiorità: «Se non fossi Alessandro – disse – vorrei essere Diogene». Con questo comportamento verso l’autorità, che il filosofo condivide con molti altri, a partire da Socrate e Platone, Diogene si comporta da parresiastes, dice cioè la verità a costo della vita.

Molti aneddoti su Diogene riportano i suoi comportamenti paragonabili a quelli di un cane, e i suoi elogi alle virtù del cane. Non è noto se Diogene sia stato insultato con l’epiteto “cinico (da kynikos, l’aggettivo derivante da kyon, cane) ed abbia scelto di considerarlo un elogio, o se sia stato lui stesso a sceglierlo per sé.

Diogene riteneva, infatti, che gli esseri umani vivessero in modo artificiale e ipocrita e che dovessero studiare gli atteggiamenti del cane. Oltre a praticare in pubblico le fisiologiche funzioni corporee senza sentirsi a disagio, un cane mangerà di tutto e non si preoccuperà di dove dorme. I cani vivono nel presente senza ansietà, e non si occupano di filosofia astratta. Inoltre, sanno istintivamente chi è amico e chi è nemico. Al contrario degli uomini che o ingannano o sono ingannati, i cani riconoscono la verità.

Diogene* aveva scelto di comportarsi come “critico” pubblico: la sua missione era quella di dimostrare agli antichi Greci che la civiltà è regressiva, e di dimostrare con l’esempio che la saggezza e la felicità appartengono all’uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell’ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione.

Uno degli aspetti più clamorosi della sua filosofia era il suo rifiuto delle normali concezioni sulla decenza. Secondo gli aneddoti, Diogene mangiava in pubblico, viveva in una botte, defecava nel teatro pubblico e non esitava ad insultare apertamente i suoi interlocutori. I suoi ammiratori lo consideravano un uomo devoto alla ragione e di onestà esemplare. Per i suoi detrattori era un folle fastidioso e maleducato.

* sembra che la statua ritragga in realtà Zenone di Elea personaggio, peraltro, non meno eretico di Diogene: cospiratore,  fu arrestato e torturato ma per non rivelare il nome dei compagni si mozzò la lingua con un morso e la sputò in faccia al suo carnefice. A me, però il tribon senz’orlo gettato sulla spalla fa pensare a Diogene..

La propensione canina al filosofare

Una lunga tradizione attribuisce ai cani una spiccata propensione alla filosofia. Lo afferma Giuseppe Pulina, autore di un saggio su Animali e filosofi, recentemente pubblicato nella collana Diogene-filosofia on the road.

Il pensiero può scodinzolare ed emettere guaiti, può vivere di espedienti e pretendere laute ricompense per i servizi che rende. Se una natura non umana può essere attribuita al pensiero, questa può essere quella del cane. Si può, ad esempio, supporre che cani e filosofi vedano il mondo come nessun altro può. In bianco e nero, o senza il contorno cromatico che avvolge e spesso nasconde l’essenza delle cose.
La parentela tra cane e filosofo, nel corso della storia occidentale è stata segnata, in effetti, da momenti di grande intimità. A iniziare proprio dall’autoidentificazione del filosofo cinico con il cane. Cane nel nome (cinico, appunto, dal greco kynikòs, “canino”), ma anche cane nei modi di vivere il rapporto con gli altri (prendersi cura del padrone, assecondarne le richieste, garantire protezione e fedeltà) e con il mondo.

Diogene di Sinope (IV sec. a.C.) e i suoi allievi non videro nel cane il modello di una servile domestichezza, ma un nobile paradigma esistenziale. La scelta entrava in collisione con una lunga tradizione negativa, visto che per gli antichi greci la natura canina si associava strettamente a quella femminile. In questo caso, l’ostilità più o meno dichiarata per un animale, che faceva comunque parte integrante dei convenzionali stili di vita della Grecia arcaica, è una maschera della meno confessabile misoginia che accompagnerà per molto tempo l’immagine della femminilità nella terra di Omero e Socrate.

Proprio in virtù del suo sprezzante anticonformismo, Diogene scelse il cane e non un altro animale. Certo, poteva optare per una pulce, un topo o una gallina. Il fatto è che il cane era in grado di assemblare nella propria indole, così confacente a quella dell’uomo, tanti tratti caratteriali: il senso di dipendenza (il cane commensale che partecipa ai banchetti degli uomini dei cui avanzi si ciba), l’ingordigia e, quindi, un certo parassitismo.
Dotato di un gusto speciale per la provocazione, il filosofo cinico sapeva anche che alla natura del cane non sono estranee la scatofagia e la necrofagia, ovvero il fatto che il cane, voracemente e senza senso di pietà, mangia non solo gli escrementi ma anche i resti dei cadaveri. Poteva bastare perché Diogene lo potesse indicare come modello di una filosofia alternativa, anticonvenzionale, votata al principio autarchico del vivere secondo natura.

L’anticonformismo cinico

Il cane venne scelto dai cinici come bandiera del loro dichiarato anticonformismo. Il cane rifletteva, del resto, l’immagine dell’abietto e del miserabile che conduce un’esistenza grama e fatta di stenti, e tuttavia in grado di non dipendere dagli altri e di vivere, quindi, in un regime di felice autarchia. Non è un caso che Della Porta, autore di un giudizio sprezzante sulla scuola cinica, abbia voluto vedere nel cane soprattutto un essere ´

ingiurioso, adulatore, goloso, crudele, pazzo, iracondo, senza pietà.

L’espressione “vivere come un cane” poteva allora suonare un po’ beffardamente e provocatoriamente come un invito a darsi alla filosofia. Ci sono però dei tratti della natura canina, come l’accondiscendenza e la docilità, che piacciono all’uomo e che il filosofo dimostra di apprezzare. Da Argo, il cane di Ulisse, che, attendendone da tanti anni il ritorno, muore finalmente gratificato e in pace con sé stesso subito dopo avere rivisto sano e salvo il padrone, al fido compagno, appassionato, affettuoso e obbediente, di cui parla Aristotele nelle Ricerche sugli animali (uno dei primi esempi di quella disciplina che più avanti sarà l’etologia comparata), il cane gode di un’elevata considerazione. Anzi, nel cane, stando al filosofo scettico Enesidemo, si dovrebbe celebrare l’espressione più intelligente della vita animale non umana.

Logica del segugio

Ci sarebbe, per giunta, un campo in cui il cane potrebbe dare del filo da torcere all’uomo che filosofeggia: così come rapidamente sa scegliere quale pista battere per inseguire la sua preda, con altrettanta celerità saprebbe anche risolvere complicati casi di logica e utilizzare il quinto sillogismo indimostrabile. La necessità farebbe il cane dialettico, perché di fronte a una scelta che contempla più soluzioni possibili, il cane, ragionando sillogisticamente, saprebbe cosa fare. La fiera è passata o di qui o di qui; ma essa non è passata né di qui né di qui: dunque è passata di qui, argomenterebbe col suo infallibile fiuto (Crisippo).

Anche sant’Ambrogio, richiamandosi a fonti ellenistiche e patristiche, sottolinea come tra i cani ci sia una spiccata propensione per la filosofia. Le deduzioni, che a malapena sanno fare gli uomini dopo aver meditato a lungo su tutti gli ammennicoli della teoria, i cani se le trovano fornite dalla natura, sì che prima scoprono il lato negativo, e successivamente, dopo averlo scartato, trovano la verità. Con soddisfazione Montaigne annota come lo stesso Crisippo,

benché in ogni altra cosa tanto sdegnoso giudice della condizione degli animali quanto nessun altro filosofo, sia stato costretto a riconoscere l’abilità dialettica del cane e a farsene una ragione.

Nella nobile natura del cane, che Cicerone, non diversamente da molti filosofi del Medioevo cristiano, sostiene essere stato creato per soddisfare le necessità dell’uomo, c’è anche la magnanimità. Dal cane l’uomo potrebbe apprendere non solo il talento per la filosofia (e vale la pena di ricordare come Platone vedesse negli occhi del cane la rivelazione dell’anima del filosofo) ma anche l’istinto della gratitudine e la fedeltà. Questa era per sant’Ambrogio la dedizione integrale che si deve a una causa superiore. L’esemplare mansuetudine del cane ha, inoltre, per sant’Ambrogio, un valore didascalico, utile per ricordare all’uomo mancanze e doveri, anche se ciò, per i filosofi cristiani della Patristica e della Scolastica, non autorizzerebbe a fare di questo animale un soggetto morale in piena regola. E l’anima?

Nella disputa si sarebbe potuto inserire anche Voltaire (1694/1778), al quale sicuramente poco interessava certificare la moralità del cane. Scontrandosi frontalmente con la metafisica cartesiana, Voltaire attribuisce al cane anche la natura di una res cogitans (sostanza pensante, vale a dire l’anima). I cani, per Voltaire, pensano, e se pensano devono possedere la facoltà del pensiero, vale a dire l’anima.

Se il pensiero dell’uomo – osserva l’illuminista francese – costituisce l’essenza della sua anima, il pensiero del cane costituisce parimenti l’essenza della sua, e se l’uomo ha sempre delle idee, bisognerebbe proprio che anche gli animali ne avessero sempre.

Certo, tutto sarebbe più semplice se il cane sapesse esternare ciò che di lui soltanto si presume. Per farlo, dovrebbe saper comunicare, usare un codice e farsi comprendere dall’uomo. Operazioni in cui si sarà pure cimentato, ma, se così è stato, sempre con scarsi risultati. I cani, comunque, abbaiano, e questo, per filosofi e scienziati, non è un fatto irrilevante. Charles Darwin (1809-1882) ha sottolineato come il cane, dacché è divenuto domestico, abbia imparato ad abbaiare almeno in tre o quattro modi diversi, lasciandosi profondamente influenzare dalle frequentazioni umane.

Si dice che “can che abbaia non morde” quasi per sottolineare la differenza che corre tra il cane addomesticato, che ha appreso l’arte dell’abbaiare per comunicare con l’uomo, e il cane ancora selvatico, di natura lupesca, che vive separato dall’uomo. Una prova di quanto frequenti siano i luoghi comuni sulle reali intenzioni dei cani si trova in uno dei metaloghi dell’antropologo inglese Gregory Bateson (1904-1980). Un cane abbaia: abbaia più forte a un cane che è molto lontano? La risposta è: tutto considerato, no; un cane abbaia più˘forte a un cane che è vicino. I cani allora mentono? Hanno elaborato, di proposito, una tecnica comunicativa di cui l’uomo non è in grado di comprendere strumenti e significati? La risposta, chiara e assolutoria, si può trovare nelle Ricerche di Wittgenstein (1889-1951). ´Perché un cane non può simulare dolore? Troppo onesto? Rispondere al quesito significherebbe cadere nel tranello.

Il testo è tratto da Animali e filosofi di Giuseppe Pulina, Giunti, Firenze, 2008.

http://www.diogenemagazine.eu/home/index.php?option=com_content&view=article&id=199:il-cane-di-sofia&catid=19:ecologia&Itemid=106

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