1. Confronti incongrui
Qualche giorno fa le agenzie di stampa hanno riportato che, secondo Eurostat, le retribuzioni lorde italiane nel 2009 erano ben al disotto della media Ue a 27. Quintultime, per la precisione, inferiori anche a quelle di Spagna e Grecia. Il ministro Fornero ha colto la palla al balzo per ribadire che le retribuzioni sono basse perché il costo del lavoro è alto. Come da sempre sostiene Confindustria, i lavoratori sarebbero pagati poco a causa di tasse sul lavoro troppo alte. Il governo, invece, si è affrettato a precisare che la tabella Eurostat era stata letta male e che retribuzioni e costo del lavoro italiani sono nella media Ue. Qual è la verità? Alcune precisazioni sono necessarie.
In primo luogo, non è corretto confrontare retribuzioni e costo del lavoro annui. Orari e ore effettivamente lavorate variano da Paese a Paese. È come se al supermercato comparassimo i prezzi di confezioni di tonno di dimensioni diverse, senza impiegare una unità di misura comune, il prezzo in euro al chilo. Per un confronto corretto dobbiamo prendere le retribuzioni orarie.
In secondo luogo, ha senso confrontare le retribuzioni di Paesi con gradi di sviluppo, Pil pro capite[1], e costo della vita molto diversi? Cioè ha senso paragonare l’Italia con la media della Ue a 27, costituita anche da Paesi come Romania, Bulgaria, Estonia, ecc.? Ha molto più senso confrontare l’Italia con la media della Ue a 16 (area euro), e ha ancora più senso, all’interno dell’area euro, confrontare l’Italia con i Paesi con caratteristiche socio-economiche più simili. In terzo luogo, è corretto confrontare i salari complessivi di strutture economiche nazionali, in cui commercio, turismo, costruzioni, manifattura – cioè settori con retribuzioni differenti – pesano in modo diverso?
2. Retribuzioni più basse della media Ue a 16
Per tutte queste ragioni, abbiamo preso in considerazione la retribuzione oraria nella manifattura, che in Italia conta quasi 4,3 milioni di dipendenti, pari al 22,4% del totale (2007).
Ebbene, secondo il Labour cost survey 2008 di Eurostat[2], nella manifattura la retribuzione lorda italiana è di 16,95 euro/ora, ovvero inferiore, di ben 3,58 euro, rispetto alla media della Ue a 16 (l’area-euro), che era di 20,53 euro/ora. Viceversa, la retribuzione oraria italiana era superiore rispetto alla media della Ue a 27 (16,55 euro/ora), ma appena di 40 centesimi. Inoltre, va considerato che quest’ultima media è appiattita verso il basso dalla presenza di Paesi con retribuzioni bassissime di appena, ad esempio in Romania, 2,5 euro/ora. Nella manifattura, l’Italia, per numero di addetti e valore aggiunto prodotto, occupava nel 2008 il secondo posto dopo la Germania, appena prima della Francia. Se, dunque, andiamo a confrontare il nostro Paese con i due Paesi economicamente più simili, Germania e la Francia, il divario diviene ancora maggiore a sfavore delle retribuzioni italiane. Tale divario è replicato anche con gli altri Paesi dell’Europa occidentale, con la sola eccezione di Spagna e Portogallo. La differenza è che il divario dell’Italia con la Spagna (2,10 euro ora) è molto inferiore rispetto a quello dell’Italia con gli altri Paesi occidentali. Infatti, l’Italia è inferiore alla Germania (26,10 euro/ora) di 9,10 euro, alla Francia (22,10 euro/ora) di 5,10 euro, al Belgio (24 euro/ora) di 7 euro, e persino alla “periferica” Irlanda (23,44 euro/ora) di 6,44 euro (Tab.1). Per ultimo non va dimenticato che le retribuzioni considerate riguardano le aziende con oltre 9 dipendenti. Pertanto in Italia, dove le microimprese pesano di più che nel resto dell’Europa occidentale, le retribuzioni dell’intero settore manifatturiero sono, con tutta probabilità, ancora più basse.
3. Un costo del lavoro pure più basso della media Ue a 16
Il costo del lavoro, secondo tutti (o quasi), è nettamente più alto in Italia che in Europa, perché le imposte sul lavoro, come lamenta Confindustria e ripete la Fornero, sono maggiori. In realtà le cose non stanno in questo modo. Che cos’è il costo del lavoro? È la somma delle retribuzioni con le seguenti voci: tredicesima (e altre mensilità aggiuntive), TFR, eventuali straordinari, ferie e permessi maturati, e … contributi sociali. Questi ultimi riguardano i contributi a carico dell’azienda per pensione e assistenza sanitaria del lavoratore. Dove stanno le imposte allora? Da nessuna parte.
Ci sono solo altre parti del salario, quella indiretta (sanità) e differita (pensione), che si aggiungono a quella percepita in busta paga. Eppure Confindustria si ostina a voler considerare imposte i contributi per l’assistenza sanitaria, perché sono compresi nell’Irap. Il quotidiano confindustriale “il Sole24ore”, in un confronto internazionale sulla pressione fiscale sulle imprese, ha aggiunto l’Irap alla imposta sulle società per azioni (Ires), facendo così risultare più alta una pressione fiscale che invece è inferiore a quella di molti Paesi avanzati. Vediamo ora il costo del lavoro italiano in rapporto a quello europeo. Ebbene, anche il costo del lavoro è inferiore a quello della Ue a 16 (area euro), di ben 3,80 euro/ora, essendo 24 euro/ora contro 27,8 euro/ora. Rispetto alla media della Ue a 27 è invece superiore di 2 euro, essendo quest’ultima di 22 euro/ora, sempre per la presenza di Paesi a basso reddito e sviluppo che abbassano la media. Rispetto agli altri Paesi dell’Europa Occidentale e in particolare alla Germania e alla Francia, il cui costo del lavoro è rispettivamente di 33,4 euro/ora e di 33,2 euro/ora, il divario è, come abbiamo visto nelle retribuzioni, sempre largamente a sfavore dell’Italia (Tab.1).
4. Conclusioni. Si fa confusione per ridurre il salario diretto e indiretto
Come giustamente ha fatto rilevare l’Istat, la tabella cui faceva riferimento il lancio d’agenzia comparava impropriamente le retribuzioni lorde italiane del 2006 con quelle della Ue del 2009. Tuttavia, la superficialità giornalistica non sposta di una virgola il dato di fondo, che è l’arretratezza salariale italiana. Infatti, come abbiamo visto, l’Italia presenta non solo retribuzioni inferiori ma anche un costo del lavoro inferiore alla media della Ue a 16, che è la media con cui il confronto è più corretto, e ancora più bassa rispetto a quella dell’Europa Occidentale, che è l’area economica di appartenenza dell’Italia. Le differenze tra retribuzioni orarie, inoltre, sono più ampie di quelle riscontrabili confrontando le retribuzioni annue. Infatti, tra Italia e Eurozona nelle retribuzioni annue c’è una differenza del -16,6%, che nelle retribuzioni orarie si allarga al -21,1%. Con la Germania la differenza si amplia dal -28,2 al -53,7%, e con la Francia dal -16 % al -30,1%[3]. Questo accade perché l’Italia presenta un numero maggiore di ore effettivamente lavorate annue. In Italia queste sono mediamente 1.817 contro le 1.431 della Germania e le 1.553 della Francia (2008)[4]. Orari più lunghi nascondono in parte l’entità dell’arretratezza salariale dell’Italia rispetto agli altri Paesi industrializzati dell’Europa. Questo vuol dire anche che dove le retribuzioni sono più basse si è costretti a lavorare di più.
Altro dato importante è che non ci sono differenze apprezzabili tra retribuzioni e costo del lavoro relativamente al confronto con la media Ue sia a 15 che a 27. Non solo non ha senso dire che le retribuzioni sono basse perché il costo del lavoro è alto, perché non è vero, ma è altresì evidente che si usa questa argomentazione per tagliare ulteriormente il salario. Le presunte tasse da eliminare sono in realtà una parte del salario, cioè i contributi sociali e previdenziali. Insomma, si fa confusione per poter tagliare ulteriormente il salario, con la pretesa magari di volerlo aumentare. Uno degli obiettivi impliciti della attuale controriforma del mercato del lavoro è comprimere anche il salario indiretto, che aveva tenuto sinora relativamente meglio rispetto a quello diretto, come possiamo vedere nella Tab. n.1.
Di solito Confindustria aggiunge nelle sue argomentazioni per il taglio del costo del lavoro che in Italia i salari sono bassi, oltre che per colpa del costo del lavoro troppo alto, anche per colpa della ridotta produttività. In realtà la produttività italiana è bassa proprio perché le retribuzioni e il costo del lavoro sono bassi. Infatti, lì dove c’è abbondanza di forza-lavoro a basso costo le imprese evitano di investire in mezzi tecnici, diminuendo la quota di capitale per addetto, e quindi la produttività del capitale. Non scordiamo che la produttività totale dei fattori si compone di produttività del lavoro e del capitale. Negli ultimi 15 anni non è certo la prima ad essere crollata, grazie a tempi di lavoro più intensi e più lunghi, bensì la seconda.
Il calo della produttività totale dei fattori è stato causato proprio dalle controriforme del mercato del lavoro degli ultimi 15 anni, dal pacchetto Treu alla Legge 30, come hanno dimostrato due studi, uno del Fondo Monetario Internazionale e un altro di economisti dell’Università di Harvard e della Northwestern University[5]. Infatti, la deregolamentazione del mercato del lavoro, unitamente alla maggiore offerta di forza lavoro femminile e immigrata (di base meno pagata), ha aumentato l’offerta totale di lavoro in presenza di domanda stagnante o più ridotta. Come sempre accade quando l’offerta di forza-lavoro è maggiore della domanda, i salari sono diminuiti e le imprese hanno perso la spinta a innovare e ad aumentare la quota di capitale tecnico per addetto, per mantenere alto il margine di profitto, che viene comunque garantito dai bassi salari. È significativo che in Italia e Spagna, dove le controriforme del mercato del lavoro sono state più intense e salari e costo del lavoro sono più bassi, il Margine operativo lordo (Mol) sul fatturato è nettamente più alto che in Germania e Francia (Graf.1). In Italia e Spagna rispettivamente 7,5% e 8,9%, in Germania e Francia, 6,6% e 5,4%[6]. In conclusione, si può affermare che la nuova riforma del mercato del lavoro, introducendo nuova flessibilità in uscita e in entrata, non può che produrre una ulteriore contrazione, nello stesso tempo, di salario e produttività totale.
[1] Il Pil procapite (2010) della Romania è di 11.600 USD, della Bulgaria 13.500 della Polonia 18.800. Quello dell’Italia di 30.500 e quelli di Germania e Francia, rispettivamente 35.700 e 33.100.
[2] Vedi il sito di Eurostat. Eurostat, Statistics – Labour Market – Labour cost survey 2008 – Labour cost, wages and salaries, direct remuneration (Nace Rev. 2).
[3] Per le retribuzioni annue Ue vedi il Sole 24ore 28 febbraio 2012.
[4] Oecd Factbook 2010, “Labour – Employment and Hours worked”. http://www.oecd-ilibrary.org/economics/oecd-factbook_18147364
[5] Hanan Morsy and Silvia Sgherri, After the crisis Assessing the Damage in Italy. IMF Working Paper. Ian Dew-Becker and Rober J. Gordon, The Role of the Labour-Market Changes in the Slowdown of European Productivity Growth, CEPR version, January 14, 2008.
[6] Eurostat, Statistics – Annual detailed enterprise statistics for industry (NACE Rev.2 B-E). Gross operating surplus/turnover (gross operating rate) (%).
Tratto da: http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/perche-il-ministro-sbaglia-su-salari-e-costo-del-lavoro/
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