Come una specie di seconda pelle, che ci avvolge dal primo all’ultimo giorno, l’idioma materno non si può tradurre e non si può tradire. E’ la sola dimora che resta, malgrado la spaesatezza dell’uomo nel mondo: una idea rassicurante. Per gli esuli, innanzi tutto, da Arendt a Améry, da Adorno a Canetti, da Anders a Celan. Ma è davvero così? L’estraneità e l’ostilità con cui la lingua tedesca ha investito gli ebrei dice il contrario. Se è vero che la lingua è matrice della ragione, allora condivide le colpe del nazismo
Non sentirsi a casa propria è per Heidegger, già in Essere e tempo, la peculiarità dell’uomo moderno. Subito dopo la guerra, nella famosa Lettera sull’«umanismo» del 1946, il filosofo tedesco dichiara:
La spaesatezza diviene un destino mondiale.
Ma l’assenza di patria, di Heimat, intesa soprattutto come esilio dalla verità, lascia aperta la domanda sul ritorno. Ci sarà ancora la possibilità, una volta perduto l’antico terreno, di trovarne uno nuovo? Si potrà recuperare l’origine, e la propria terra d’origine? La questione del «ritorno in patria» esplode però alla fine degli anni `40, quando comincia il rientro degli emigrati nei paesi d’origine. Se la patria è la Germania, e gli esuli sono ebrei, la questione diviene conflittuale, ma anche perspicua, e offre lo spunto per una riflessione generale sull’esilio. Nella diaspora ebraica, prima e durante la Shoah, si comincia a vedere prefigurata la condizione umana dell’esilio nell’età della mondializzazione.
Di quanta patria ha bisogno l’uomo?
– si chiede Jean Améry, pseudonimo francese per il tedesco Hans Mayer, nel suo libro Intellettuale a Auschwitz. La risposta che dà è ferma ma, nella sua fermezza, è conservatrice: l’uomo ha bisogno di molta patria, e ne ha tanto più bisogno quanto meno può portarne via con sé. La patria è il luogo d’origine insostituibile: «una nuova patria non esiste». Se l’esilio, sopportato perché temporaneo, è stato ed è – come direbbe Cioran – solo una «Città del Nulla», che cosa resta agli esuli, espatriati, privati dal nazismo della loro origine?
Che cosa resta? Resta la lingua materna? Quel surrogato di patria che si può portare via con sé? La domanda che, in forme diverse, compare in diari, ricordi autobiografici, interviste, articoli giornalistici, saggi filosofici, impegna gli ebrei tedeschi nel dopo esilio. Diviene anzi una sorta di ossessione di quella che Derrida ha chiamato la «psiche ebraico-tedesca». Che cosa resta nell’esilio? E che cosa resta dell’esilio dopo l’esilio?
Resta la lingua materna
– afferma Hannah Arendt con parole certe, scandite in un tedesco perfetto, senza traccia di accento straniero dopo anni d’esilio, nel corso di una famosissima intervista rilasciata nel 1964. L’identificazione con la lingua materna è qui totale. E trapela da due frasi ispirate a un esasperato buon senso:
Ho sempre rifiutato, consapevolmente, di perdere la lingua materna […]. Sempre. Mi dicevo: che cosa ci si può fare? Non è la lingua tedesca ad essere impazzita! E poi, non esistono alternative alla lingua materna.
La testimonianza di Hannah Arendt esprime bene la convinzione a cui l’esule si aggrappa. La propria identità trova un luogo sicuro e ben protetto nel grembo della lingua materna. Chi mai potrebbe espatriarlo da lì? Di tutti i luoghi è il più sicuro, il più familiare, il più intimo. È la sua vera dimora, l’unica, nel tempo dell’erranza.
Ma questa convinzione non è condivisa da tutti. Le vicende dell’esilio, immense quanto singolari, potrebbero dar luogo a una complessa tassonomia che va dagli ebrei tedeschi di lingua tedesca (Adorno, Arendt, Benjamin, Buber, Rosenzweig, Scholem), agli ebrei non tedeschi di lingua tedesca (Canetti, Celan, Kafka), e infine agli ebrei non tedeschi che hanno avuto un rapporto stretto con la lingua tedesca (Levinas). È una tassonomia che, per quanto importante per una riflessione filosofico-linguistica, non è stata ancora né delineata né, tanto meno, sviluppata. Ma perché – si potrebbe chiedere – gli ebrei, perché gli ebrei tedeschi e perché la lingua tedesca?
L’attenzione rivolta alla lingua tedesca non esclude fenomeni analoghi sull’altra riva dell’ebraismo, cioè non solo tra gli ebrei aschenaziti, ma anche tra quelli sefarditi. Tuttavia il rapporto tra la lingua tedesca e i parlanti ebrei, tedeschi e non tedeschi, già teso prima di Auschwitz, dopo si spezza fino a interrompersi. Auschwitz è il nome della frattura, del baratro, della fossa non più colmabile. Chi riuscirà più a parlare quella lingua della madre che è divenuta lingua della morte?
Il rapporto di tensione, che è sempre presente tra lingua e parlante, raggiunge qui il limite estremo e porta alla posizioni più diverse, che vanno dal rifiuto intenzionale alla rimozione più o meno inconscia, dalla ricerca strenua e ostinata della lingua perduta, o quasi perduta, alla identificazione completa e illimitata.
Il caso di Adorno è analogo a quello di Hannah Arendt. Nel discorso pronunciato a Francoforte il 22 settembre del 2001 in occasione del «Premio Adorno» – discorso pubblicato di recente in Italia (Jacques Derrida, Il sogno di Benjamin, Bompiani, 2003) – Derrida ritorna sul tema della lingua materna, già affrontato in saggi precedenti. Was ist Deuscht?, Che cos’è il tedesco? è la domanda rivolta nel 1965 ad Adorno, che senza esitare ammette:
Neppure un istante, durante l’emigrazione, ho rinunciato alla speranza del ritorno.
La motivazione «oggettiva» che nel 1949 lo induce a tornare in Germania è la lingua. Nostalgicamente Adorno si riconosce nei suoni che gli rievocano l’infanzia; ma del tutto inatteso è l’encomio del tedesco e delle sue «affinità elettive con la filosofia». Pur ritrovando nel tedesco la patria filosofica, Adorno si propone tuttavia di dare prova di una «vigilanza instancabile» per sfuggire alle mistificazioni che questa lingua con la sua «eccedenza metafisica» potrebbe favorire. Aggiunge di aver scritto anche per questo Il gergo dell’autenticità. E’ una posizione che, secondo Derrida, potrebbe risultare «esemplare» nell’Europa di oggi, indicando la via per salvare la differenza linguistica, resistendo perciò all’egemonia internazionale di una lingua, senza cedere tuttavia alla «reattività identitaria» e alla «vecchia ideologia sovranitarista».
Diversa da quella di Adorno è la posizione di Levinas per il quale ogni lingua può essere lingua della filosofia, se «l’essenza del linguaggio è amicizia e ospitalità». Levinas si riferisce qui al francese che lo ha accolto divenendo per lui «lingua familiare», come il lituano, il russo, il tedesco, l’ebraico. Tra le posizioni di Adorno e quelle di Hannah Arendt da un canto, e di Levinas dall’altro, si delineano quelle diverse, e difficilmente unificabili, degli ebrei tedeschi in esilio in America, e in altri paesi, o di ritorno in Germania. In molti riecheggia però la preoccupazione espressa da Günter Anders nel volume collettivo Verbannung (Esilio):
Non avevamo ancora imparato l’inglese, il francese, lo spagnolo, e già il nostro tedesco si sgretolava in modo così furtivo che non ci accorgevamo della perdita.
Il tema della perdita della lingua attraversa non solo le poesie, ma anche i pochi importanti scritti di prosa di Paul Celan che nel 1958 confessa:
Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua. La lingua sì, nonostante tutto, rimase non perduta.
Unverloren, non perduta, vuol dire insieme il timore che vada perduta, ma anche lo sforzo per non perderla. E nessuno forse più tragicamente di Celan ha vissuto da ebreo l’esilio nell’unica patria che gli restava, in quella lingua tedesca di cui è stato tra i maggiori poeti dell’ultimo secolo. La questione della lingua tedesca non è dunque di poco conto. Ha anzi un grande rilievo teorico e meriterebbe uno spazio, nel dibattito pubblico, che sinora non ha avuto. Le eccezioni, come quella di Derrida, sono rare. E vale la pena sottolineare che si contano tra i filosofi più che tra i linguisti. Se la questione è stata aggirata, è perché la risposta mette in crisi l’idea diffusa e radicata della lingua materna: il luogo dell’intimità assoluta.
Sin dall’antichità la lingua segna il confine tra un gruppo di parlanti e un altro: noi ci comprendiamo perché parliamo la stessa lingua, sono gli altri a non comprendere perché parlano un’altra lingua, una lingua straniera, anzi una non-lingua. Per i greci gli altri sono barbari, cioè balbuzienti. Anche quando le cose cambiano, quando viene riconosciuta la diversità e la pari dignità delle lingue, e il linguaggio è visto non più come strumento, bensì come organo in cui si declina storicamente la ragione, non cambia il rapporto con la lingua materna. Nasce anzi la metafora della lingua madre. E si intende la lingua che, come la madre, mette al mondo il bambino, cioè gli dischiude e gli articola il mondo. Unica e insostituibile, la lingua materna non si può tradurre e non si può tradire. È una specie di seconda pelle che avvolge chi la parla dalla nascita alla morte. Malgrado la spaesatezza dell’uomo nel mondo, il ritorno all’origine – Heidegger lo ribadisce in un saggio del 1960 Sprache und Heimat (Linguaggio e terra natia) – è consentito dalla lingua materna, l’unica patria, la sola dimora che resta. L’idea è rassicurante. E rassicura in effetti gli esuli – a cominciare da Hannah Arendt, in questo profondamente heideggeriana. L’esilio ne verrebbe attutito.
Ma è davvero così? Davvero l’estraneità non tocca la lingua materna? L’estraneità e l’ostilità con cui la lingua tedesca investe improvvisamente gli ebrei in Germania (e non solo in Germania) dice il contrario. E quello che resta del nazismo, la lingua, non è un residuo, neutro ed esteriore, di un’appartenenza a cui non si vorrebbe rinunciare. La lingua non è uno strumento che possa essere conservato, ripreso e utilizzato dopo qualsiasi evento, anche dopo Auschwitz. Se è matrice della ragione, deve aver avuto parte a quell’evento. Semmai lo ha reso possibile. Così la lingua tedesca non può essere assolta. Perché del nazismo è stata complice, più che complice. E del nazismo si comprenderà ben poco, se si separerà e si escluderà la lingua.
La colpa della lingua tedesca – si pensi alla rigida regolazione con cui nella lingua è stata nascosta la Shoah, quando ad es. nei protocolli di Wannsee si parla di «spostamento a est» – è colpa in senso profondo. Lo mostrano le ricerche che, anche a partire da Primo Levi, sono state avviate sul gergo dei lager e sul linguaggio nell’universo concentrazionario. Ne è un riflesso la difficoltà di nominare lo sterminio – su cui ha scritto Anna V. Sullam-Calimani nel suo I nomi dello sterminio (Einaudi, 2001).
Nella tensione estrema tra la lingua tedesca e gli esuli ebrei affiora con una chiarezza, forse senza precedenti, l’estraneità irriducibile che segna il rapporto del parlante con la propria lingua. A partire di qui va messa in dubbio l’idea di possesso e di proprietà secondo cui la lingua apparterrebbe al parlante e il parlante alla lingua. «Non ho che una lingua e non è la mia, […] è la lingua dell’altro» – scrive Derrida nel libro Le monolinguisme de l’autre ou la prothèse de l’origine del 1996. La lingua che parlo, la mia lingua, non è mia, ma è sempre già dell’altro. A partire, già, dall’altro della madre. Dire «dell’altro», «altrui», non significa dire «straniera», ma «estranea». Il destino di tutti è quello di nascere in una sola lingua-madre, che non si sceglie, come non si sceglie la madre. Ma quella lingua che, pur non avendo scelto, mi attraversa da parte a parte, che è il luogo delle mie sofferenze, delle mie passioni, dei miei desideri, che dà voce ai miei pensieri, alle mie speranze, proprio quel luogo intimo, in cui non potrei non identificarmi, si rivela già sempre estraneo. La lingua materna è me prima di me, prima che io possa dire io. La mia stessa identità, di cui mi approprio attraverso la lingua, mi viene espropriata dalla lingua. La lingua è sempre mia e non mia. Nessuno può dire mia, tua, nostra, per la lingua. La proprietà della lingua si rivela impossibile, perché la lingua interdice la proprietà. La mia, ma anche quella dell’altro.
La lingua è dell’altro solo per la provenienza, perché proviene dall’altro, ma non per la proprietà. Nessuno riesce davvero a imporre l’egemonia colonizzatrice di una lingua – più insidiosa ed efficace di molte altre imprese imperialiste – perché sarà sempre fermato dalla lingua. Sarà la lingua a denunciare di non essere un suo bene. La lingua è di tutti e non è di nessuno. E forse si può dire così: nella lingua ci sono solo esuli, emigranti, profughi, ma non ci sono proprietari. Presa in parola la lingua apre a una politica, un’economia, un’etica, un diritto non ancora scritti, prescrivendo il diritto e i limiti di un nuovo diritto di proprietà.
Ma se non c’è proprietà perduta, perché la lingua è sempre estranea, se non c’è residuo di patria, se non c’è dimora dove fare ritorno, allora non ci sarà neppure ritorno
La spaesatezza non risparmia la lingua e anche questo luogo intimo, il più intimo, ci viene sottratto. Abitare nella lingua sarà allora piuttosto come un migrare nel deserto. L’esilio linguistico degli ebrei tedeschi, nelle sue forme drammatiche ed estreme, ha messo in luce questa alienazione umana originaria e destinale, cioè l’esilio di ogni parlante nella lingua.
Il Manifesto, 26 agosto 2003
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