Dal limite del pensiero al pensiero del limite: il dibattito post-kantiano sulla cosa in sé e la nascita dell’idealismo

by gabriella

 

Immanuel Kant (1724-1804)

Immanuel Kant (1724-1804)

1. La critica al sistema dualistico kantiano

1.1 Il problema della cosa in sé (Ding an sich)
1.2 Dal piano gnoseologico a quello metafisico: l’io creatore fichtiano

 

2. Fichte

 

1. Il problema della cosa in sé (Ding an sich)

Negli ultimi anni della vita di Kant (che muore nel 1804), emergono importanti critiche al suo sistema dualistico e, particolarmente, alla distinzione tra fenomeno e noumeno.

Secondo i suoi critici, il sistema kantiano soffre di una contraddizione di base che consiste nell’aver dichiarato esistente e al tempo stesso inconoscibile, la cosa in sé (Ding an sich).

Già Jacobi, nel suo saggio Sull’idealismo trascendentale (1787) aveva insinuato che se il criticismo è vero si deve ricondurre tutto al soggetto e abolire la cosa in sé, mentre, se è falso, si deve ammettere la cosa in sé tornando al realismo.

Osservando che la cosa in sé non è pensabile, né rappresentabile, Maimon (Salomon ben Joshua) ne aveva invece concluso che il noumeno è un concetto impossibile.

Friedrich Heinrich Jacobi (1743 – 1819)

I critici immediati di Kant si chiedono quindi: se ogni realtà di cui facciamo esperienza esiste come rappresentazione della coscienza, come può venire ammessa l’esistenza di una cosa in sé, cioè di una realtà non pensata e non pensabile, non rappresentata e non rappresentabile? Kant si difenderà notando che il noumeno non è qualcosa, ma un concetto limite, esprimibile solo in negativo, per opposizione al fenomeno.

 

1.2 Dal piano gnoseologico a quello metafisico: l’io creatore fichtiano

Come si vede, fin qui i critici di Kant si mantengono su un piano gnoseologico, sarà invece Fichte a portare la riflessione sul piano metafisico di un io creatore e infinito.

Johan Gottlieb Fichte (1762-1814)

Johan Gottlieb Fichte (1762-1814)

In Kant l’io (l’intelletto) è qualcosa di finito, in quanto non crea la realtà, ma si limita a ordinarla secondo le proprie forme a priori. Per questo sullo sfondo si staglia il concetto di cosa in sé che il filosofo ammette per spiegare la ricettività del conoscere e la presenza di una realtà davanti al soggetto.

Fichte adotta il punto di vista di Jacobi, abolendo il presupposto (contraddittorio) della cosa in sé, cioè di una realtà estranea all’io e spostando il discorso dalla dottrina della conoscenza al piano dell’essere.

L’io diventa in questo modo un’entità creatrice e infinita, fonte di tutto ciò che esiste. Da ciò la tesi idealista che «tutto è spirito».

Lo spirito quindi crea la realtà, in quanto l’uomo rappresenta il fine e la ragion d’essere dell’universo, mentre la natura esiste non come realtà a se stante, ma come momento dialettico necessario alla vita dello spirito, cioè come qualcosa che si oppone al soggetto in quanto realtà fuori di noi, oggetto della nostra conoscenza che permette alla coscienza di delimitare il proprio confine: il soggetto si costituisce infatti tramite l’oggetto, la libertà opera attraverso l’abbattimento dell’ostacolo, l’io si costituisce attraverso il non io.

Mappa

 

2. Johan Gottlieb Fichte [di Domenico Valenza]

Fichte segna di fatto il passaggio dal criticismo all’idealismo. In Kant, l’io è finito perché è limitato dalla cosa in sé, ed è il principio formale del conoscere. In Fichte, l’io è infinito perché tutto esiste nell’Io e per l’Io.

La deduzione di Kant è una deduzione trascendentale, diretta a giustificare la validità delle condizioni della conoscenza. La deduzione di Fichte è una deduzione assoluta o metafisica, perché deve far derivare dall’Io sia il soggetto sia l’oggetto del conoscere. La Dottrina della Scienza ha lo scopo di dedurre da questo principio l’intero mondo del sapere.

Il principio della Dottrina della scienza è l’Io o l’Autocoscienza. Noi possiamo dire che qualcosa esiste solo rapportandolo alla nostra coscienza, ossia facendone un essere-per-noi. A sua volta, la coscienza è tale solo in quanto è coscienza di se medesima, ovvero autocoscienza. In altri termini, la coscienza è il fondamento dell’essere, l’autocoscienza è il fondamento della coscienza [pensiero=essere – l’essere è nel pensiero e per il pensiero].

Il primo principio della deduzione fichtiana è ricavata da una riflessione sulla legge d’identità (A=A), che la filosofia considerava come base del sapere. Fichte rileva che l’esistenza iniziale di A dipende dall’Io che la pone, poiché senza l’identità dell’Io (Io=Io), l’identità logica (A=A) non si giustifica. Il rapporto d’identità è posto dall’Io, ma l’Io non può porre quel rapporto se non pone se stesso. L’Io pone così se stesso come attività autocreatrice e infinita, e principio primo del sapere.

Il secondo principio stabilisce che l’Io pone il non-io. Fichte osserva infatti che non avrebbe senso un Io senza un non-io, un’attività senza un ostacolo. Il terzo principio mostra come l’Io, avendo posto il non-io, si trovi a essere limitato da esso. Con esso perveniamo alla situazione concreta del mondo: L’Io oppone nell’Io ad un io divisibile un non-io divisibile. I tre principi non vanno interpretati in modo cronologico ma logico.

L’Io infinito, più che la sostanza degli io finiti, è la loro meta ideale. L’infinito per l’uomo è un dover-essere, una missione. Per Fichte l’uomo è uno sforzo infinito verso la libertà, una lotta inesauribile contro il limite. Tale compito è una missione mai conclusa perché se l’Io, la cui essenza è lo sforzo (Streben), riuscisse davvero a fagocitare gli ostacoli, cesserebbe di esistere. I tre principi corrispondono alle tre categorie kantiane di qualità: affermazione, negazione e limitazione.

L’Io presenta così una struttura triadica e dialettica articolata nei tre momenti di tesi-antitesi-sintesi. La sintesi, di fatto, non è la semplice ripetizione della tesi mentale, ma la sua riaffermazione, arricchita dal superamento dell’antitesi. La schema triadico simboleggia dunque questo vitale processo. Ogni sintesi segna un momento di tregua che prelude a un nuovo slancio.

Nella prima introduzione alla dottrina della scienza, Fichte illustra i motivi che spingono alla scelta dell’idealismo o del dogmatismo. L’idealismo consiste nel partire dall’Io o dal soggetto per poi spiegare, su questa base, la cosa o l’oggetto. Viceversa il dogmatismo consiste nel partire dall’oggetto per poi spiegare, su questa base, l’io o il soggetto.

La scelta tra le due filosofie deriva da una differenza di inclinazione. Il dogmatismo nega del tutto l’autonomia dell’Io, facendone un prodotto delle cose. Al contrario l’idealismo, facendo dell’Io un’attività autocreatrice, è una dottrina della libertà. A queste due filosofie corrispondono due tipi di umanità. Da un lato vi sono individui per cui tutto è deterministicamente dato e fatalisticamente predisposto. Dall’altro vi sono individui che avendo senso profondo della loro libertà, simpatizzano con l’idealismo, che insegna loro come esser uomini sia sforzo o conquista.

Fichte si proclama realista e idealista insieme: realista perché per conoscenza intende un’azione del non-io sull’io, idealista perché ritiene che il non-io sia un prodotto dell’Io. Il non-io appare sussistente perché esso, pur essendo un prodotto dell’Io, non è parvenza ingannatrice ma realtà. La riappropriazione umana del non-io avviene attraverso una serie di gradi della conoscenza, mediante l’interiorizzazione dell’oggetto, che alla fine si rivela opera del soggetto.

Il primo grado della conoscenza è la sensazione, ossia la registrazione del dato; ad essa segue l’intuizione, che consiste nel coordinamento spazio-temporale del dato. L’intelletto è la categorizzazione della molteplicità spazio-temporale; il giudizio è l’articolazione della sintesi intellettiva. Infine, la ragione è l’astrazione dagli oggetti in generale. Per immaginazione produttiva Fichte intende l’atto in cui l’io pone il non-io.

Secondo Fichte, il motivo per cui l’io pone il non-io è di natura pratica. L’io pone il non-io solo per poter agire:

“Noi esistiamo per agire e il mondo esiste solo come teatro della nostra azione”.

Per Fichte, agire significa imporre al non-io la legge dell’io. Come rilevò Kant, non c’è attività morale senza sforzo; e c’è sforzo là dove c’è un ostacolo da vincere. Tale ostacolo è la materia, il non-io.

Secondo Fichte, il dovere morale può essere realizzato dall’io finito solo insieme agli altri io finiti. Per realizzare questo scopo, si richiede una mobilitazione degli uomini più consapevoli, i dotti. Gli intellettuali non devono essere individui isolati ma persone pubbliche, con responsabilità sociali. Il fine supremo di ogni singolo uomo è dunque il perfezionamento morale di tutto l’uomo.

La deduzione fichtiana, la prima posizione dell’idealismo tedesco:

In questo modo, la riflessione moderna sul limite della conoscenza si rovescia nella riflessione su ciò che pone e pensa questo limite, cioè sul soggetto. Con l’empirismo e il criticismo kantiano, era la conoscenza umana (cioè il soggetto, o pensiero) infatti, a tracciare i propri limiti, a riconoscersi incapace della conoscenza della realtà com’è (in sé), cioè della sostanza (Locke) o del noumeno (Kant).

Ora, l’idealismo punta il dito su questo modo di rappresentarsi il rapporto tra uomo e natura (cioè, tra io e mondo, soggetto e oggetto, pensiero ed essere) evidenziando che il limite conoscitivo individuato nella filosofia moderna è un limite posto dalla filosofia moderna, è cioè un limite che viene pensato dal soggetto (che è tutta la realtà), scambiato per un limite esterno ad esso.

E’ ormai impossibile prestare fede all’attestazione dei sensi che indica la presenza di una realtà fuori di noi, separata e indipendente dal soggetto che la osserva: la realtà finita è invece posta dalla soggettività come realtà esterna allo spirito.

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