Insegnare significa essenzialmente produrre soggettività, dar forma a un individuo, strutturare l’informe imprimendovi un segno. Si tratta infatti di una tecnica di governo degli altri che è in grado di formare anche l’oggetto su cui si esercita. Come tale è anche un sintomo, cioè un segno della condizione patologica in virtù della quale si esercita il dominio. Il modo in cui si insegna rivela, pertanto, i tratti decisivi della società contemporanea, facendo emergere la domanda cruciale: si può insegnare, cioè plasmare, governare in un altro modo? Si può farlo in modo diverso da come si è fatto finora? Uno stralcio della bella introduzione di Che cosa significa insegnare?.
Insegnare (insieme a curare e governare) è, per dirla con Freud, un mestiere impossibile, ma è pur sempre una professione (Beruf) weberianamente politica.
Pier Aldo Rovatti, Soggettivazioni
Insegnare vuol dire, alla lettera, imprimere nella mente, fare un segno (signum) dentro qualcuno, avviare un processo attraverso un linguaggio che scrive, incide l’interiorità psichica e così facendo non solo la apre, ma la crea. L’insegnamento produce soggettività: in termini foucaultiani, è una tecnica di governo degli altri che implica il governo di sé, una forma di potere-sapere che è in grado di formare anche l’oggetto su cui si esercita. Questi due significati (segno e governo) si rimandano l’un l’altro e ne dischiudono un terzo, poiché l’insegnamento non è solo trasmissione di un sapere che ha il potere di incidere e con ciò produrre il (s)oggetto; per chi lo impartisce e per chi lo riceve, esso è anche un sintomo che nel quadro clinico della civiltà contemporanea, compare insieme ad altri come spia di una condizione patologica.
Il sintomo va decifrato: bisogna trovarne il significato. Ma sia l’insegnamento inteso come pratica professionale, sia la stessa figura dell’insegnante (soprattutto come dipendente dello Stato), mostrano oggi in Italia (e non solo) un’enorme insensatezza. Per capire che cosa abbia provocato tale perdita di senso e di cosa essa sia, appunto, il sintomo, condurremo un’analisi ‘a contropelo’ dell’insegnamento come professione e, se insegnanti, compiremo un freddo e crudele esercizio di riflessività. Spesso infatti dimentichiamo che nel termine scuola (greco skolè, latino otium) è nascosto il privilegio di non avere la necessità di svolgere un lavoro manuale, e di avere invece il tempo per potersi dedicare alla conoscenza. Per un lavoratore che viene pagato (poco) non per creare, ma per trasmettere il sapere, la domanda ‘che cosa significa insegnare?’ implica il riflettere su tale privilegio e sulla sua erosione storica, ovvero giungere alla consapevolezza del carattere socialmente situato, distintivo e privilegiato, o non più privilegiato, della propria postura intellettuale e didattica. La critica dello scholastic view s’innesta insomma sul tronco della sua genealogia, ma pochissimi insegnanti sono consapevoli dei meccanismi disciplinari, docimologici, psicologici, sociali e soprattutto economico politici in cui sono presi.
Sebbene la riflessiva volontà di sapere (libido sciendi) abbia qualcosa di nietzscheanamente paradossale – in quanto privilegiata volontà di verità che decide di criticare sia la verità, che la volontà stessa -, è soltanto grazie a lei che l’insegnamento come sintomo diagnostico, come segno di crisi, può significare qualcosa, e venir utilizzato per modificare il nostro e l’altrui processo di soggettivazione. Preso nell’accezione di governo, esso è in grado di insegnare qualcosa persino alla filosofia, di “segnarla’ e con ciò di curarla, perché la obbliga a porsi la domanda sul senso da un punto di vista critico e clinico: come si può governare, incidere, soggettivare, in modo diverso da come lo si è fatto finora?
Ciò equivale a compiere, nel solco di Deleuze e Foucault, uno spostamento politico rispetto all’insegnamento disciplinare della filosofia, o al significato squisitamente filosofico della domanda ‘che cosa significa insegnare?’. E se guardiamo al titolo del corso con cui Heidegger torna in cattedra dopo la seconda guerra mondiale, Che cosa significa pensare?, questo interrogativo se ne trascina dietro un altro: l’insegnamento insegna a pensare? si può insegnare, e dunque apprendere il pensiero? […]
E se guardiamo al titolo del corso con cui Heidegger torna in cattedra dopo la seconda guerra mondiale, Che cosa significa pensare?, questo interrogativo se ne trascina dietro un altro: l’insegnamento insegna a pensare? si può insegnare, e dunque apprendere il pensiero?
[…] invece di fornire ai suoi studenti una definizione del pensiero, o di promettere loro la tecnica necessaria a pensare, sfrutta l’oscillazione semantica del verbo tedesco heissen (‘significare’ e al tempo stesso “imporre’, “ingiungere’, “chiamare’, anche in senso riflessivo) per riformulare così la domanda di partenza: “Che cosa ci ingiunge, che cosa ci chiama a pensare?’. In tal modo il pensiero appare come la risposta a un invito rivoltoci da qualcosa che, nella sua essenza, resta da pensare, e che, da questo epocale punto di vista, richiede un ‘salto’: l’uomo ancora non ha imparato a pensare. Egli ne ha la possibilità, ma questo non gli garantisce di esserne capace, giacché il pensiero, per Heidegger, non è nella disponibilità dell’uomo, ma è la risposta a una chiamata indirizzata all’Esserci (il Dasein) da “ciò che è da pensare” – dall’Essere.
Secondo Heidegger, l’essenza della tecnica moderna è volontà di potenza – ma è anche volontà di verità, secondo il motto baconiano ‘sapere è potere’; ebbene, da questo punto di vista, l’insegnamento come tecnica è pienamente coinvolto nell’essenza del moderno, poiché il docente esercita un potere-sapere sul discente, vuole farlo ed è persino pagato per farlo. Il mestiere d’insegnante, in quanto tecnica, non nasconde affatto l’Essere; piuttosto dissimula le tecniche con cui gli uomini producono e governano se stessi e gli altri: è un’arte di governo dei viventi; alla lettera e in senso hegelo-foucaultiano, l’essenza nascosta se non rimossa dell’insegnamento, il suo Wesen come già-stato, passato che non passa, è anzi la forma più radicale di biopolitica ereditata dal pastorato cristiano: una tecnologia di governo esercitata sul gregge dei piccoli viventi. All’oblio dell’Essere da parte della metafisica dobbiamo quindi sostituire l’oblio del potere esercitato su costoro attraverso il sapere, o meglio il disconoscimento (in termini freudiani: Verleugnung) della funzione tecno-politica dell’insegnamento da parte della pedagogia e della stessa filosofia.
[…] Che cosa o meglio chi ci chiama, ci invita a pensare in quanto piccoli? Non l’Essere ma l’altro, l’insegnante: l’allievo viene chiamato a pensare da colui che Kant chiamava ‘maestro di ragion pura’, il quale sembra l’unico in grado di farlo uscire da uno stato di minorità analogo allo stato di inferiorità dell’uomo, dell’Esserci, rispetto all’Essere. […]
Dobbiamo dunque chiederci da un lato, con Foucault, che cosa ha significato nella civiltà moderna la disciplina come produzione degli individui e piattaforma di lancio della biopolitica, del potere sulla vita – come si sono forgiate le anime lavorando sui corpi, quali sono state le tecniche pedagogiche impiegate per generare socialmente e insieme governare gli individui. D’altra parte, con Bourdieu, dobbiamo stanare la presunta neutralità scientifica della psicopedagogia moderna diffusa in tutti gli ordini di scuola; dobbiamo cioè chiederci cosa significa l’insegnamento come formazione di schemi mentali (habitus) conformi a un certo ordine del discorso, a una certa ideologia, a una certa economia politica, e di conseguenza che cosa significa, o com’è possibile, attribuire all’insegnamento una funzione, un senso, una finalità politica volta alla formazione di schemi diversi da quelli dominanti.
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