Da Kainós, una sociologia della criminalità organizzata di rara finezza volta ad indagare le trasformazioni delle forme di vita criminale nel tardo capitalismo.
1. Le riflessioni che seguono non vogliono essere squisitamente filosofiche, né vagamente sociologiche, e neppure provocatoriamente politiche, ma, in senso foucaultiano, genealogiche. È stato infatti Michel Foucault ad aver fornito, in Sorvegliare e punire (1975), la più acuta ricerca genealogica sull’origine della prigione moderna, ed è nella sua produzione degli anni settanta che possiamo trovare ancor oggi spunti fecondi per analizzare le forme di vita criminali, le ‘vite degli uomini infami’ che proliferano nell’epoca contemporanea1. Tuttavia, per ragioni non solo espositive2, mi servirò inizialmente di una nozione proveniente dalla sociologia di Pierre Bourdieu, applicandola con una certa disinvoltura metodologica al mondo della criminalità organizzata: la nozione di campo.3
Tra le numerose definizioni che Bourdieu ci ha lasciato del concetto di campo, ne ho scelta volutamente una coniata per il campo politico, in quanto risulta assai compatibile sia con l’analisi foucaultiana del nesso sistematico legalità-crimine (capace dunque di indicare l’intimo intreccio tra economia politica e mafia), sia con il funzionamento delle strutture ‘chiuse’ del potere pastorale, siano esse religiose, militari, politiche o para-politiche (ordini, sette, brigate e reparti di un esercito, partiti e ‘famiglie’ mafiose). Secondo il sociologo francese, il campo è infatti un
“microcosmo, ossia un piccolo mondo sociale relativamente autonomo nel mondo sociale più grande. […] Autonomo, secondo l’etimologia, vuol dire che ha una sua propria legge, un suo proprio nomos, che detiene al suo interno il principio e la regola del suo funzionamento. È un universo nel quale sono all’opera criteri di valutazione a lui propri e che non hanno valore nei microcosmi vicini. Un universo obbediente alle proprie leggi, che differiscono da quelle del mondo sociale ordinario. Chi [vi] entra deve operare una trasformazione, una conversione e, anche se quest’ultima non gli appare come tale, anche se egli non ne ha coscienza, gli è tacitamente imposta, in quanto un’eventuale trasgressione comporterebbe scandalo o esclusione”.4
Sembra che la criminalità organizzata risponda perfettamente a questa definizione, e ciò a un livello sia morfologico che dinamico, ma soprattutto simbolico.
In quanto microcosmo, ogni campo raggiunge un certo grado di autonomia rispetto al macrocosmo sociale, ma ne resta anche strutturalmente dipendente: esso non può mai rendersi completamente autonomo, altrimenti imploderebbe o addirittura scomparirebbe dalla scena socio-storica, poiché è legato al mondo sociale circostante da un rapporto di omologia o isomorfismo, cioè di somiglianza strutturale5. In altri termini, ogni campo funziona quando e perché riproduce in piccolo e secondo una determinata prospettiva quello che avviene fuori, nel mondo sociale. La peculiarità del campo malavitoso consiste nel riprodurre in una prospettiva rovesciata, oltre che parassitaria, la macro-struttura della cosiddetta ‘società civile’. Anch’esso, come tutti i campi, possiede quindi i due poli dell’autonomia e dell’eteronomia: pur essendo invisibilmente e capillarmente inserito nella società, possiede un suo codice che tuttavia non vige nel sistema ‘legale’ dello Stato, il quale inoltre lo combatte come estraneo e minaccioso.
Sul piano morfologico e simbolico, dunque, il campo malavitoso esiste in quanto microcosmo ostile al macrocosmo socio-politico. Esso appare come luogo sociale (topos) simbolicamente circoscritto, nonché moralmente separato dalla società civile, un luogo abitato e compreso (cioè fenomenologicamente e sociologicamente dotato di senso: sinnvoll) solo dagli individui ammessi a farvi parte. Soltanto costoro hanno infatti incorporato il codice d’accesso che permette di vivere, agire e lottare all’interno del microcosmo criminale. Ma poiché tale codice, seppur rigido, è radicalmente altro rispetto a quello del macrocosmo ospite, chi entra nell’isomorfismo rovesciato del campo malavitoso deve realizzare (spesso precocemente, visto che l’affiliazione avviene quasi sempre in giovane, se non tenera età) una metánoia, una conversione totale e irreversibile della sua identità sociale, ovvero del suo habitus.6
L’habitus è il risultato dell’incorporazione soggettiva delle situazioni sociali nelle quali ognuno di noi vive, e di tutte le regole specifiche che ne caratterizzano il gioco di campo (ludus); grazie ad essa, l’individuo riesce a giocare, ovvero ad agire in modo oggettivamente adeguato al campo in cui si trova, e di cui è in pari tempo il prodotto soggettivo, riesce cioè ad avere un senso pratico coerente con il gioco sociale in cui è coinvolto. Nel mondo sociale ‘civile’ ognuno di noi può entrare, quindi muoversi (giocare) in diversi campi e sotto-campi che richiedono habitus differenti, o utilizzare un meta-habitus, un’identità trasferibile da un campo all’altro: a meno di non cadere nella patologia (si pensi alle personalità multiple) ognuno di noi può indossare diversi habitus o agire secondo sensi pratici diversi, ovvero secondo identità plurali che risultano tuttavia compatibili tra loro7 – non così nella malavita, o meglio, solo in apparenza.
Se l’habitus è un insieme di disposizioni e di principi generatori di pratiche, un sistema di schemi di percezione del mondo, esistono habitus precocemente acquisiti e virtualmente adattabili ad ogni campo che escludono, o perlomeno tendono a condizionare profondamente l’acquisizione di altri habitus e l’ingresso, o il senso del gioco, in altri campi: sono gli habitus primari8. L’habitus familiare e quello religioso appartengono a questa categoria (non a caso si appoggiano, anche simbolicamente, l’uno all’altro), e ad essi dovremmo aggiungere l’habitus militare quando viene precocemente acquisito. Per la sua esclusività e pervasività l’habitus criminale, in particolare quello mafioso, è analogo a quello familiare e religioso, presentandosi inoltre come para-militare: trasferibile e primario, dura tutta la vita. Ma poiché nella società occidentale moderna il codice mafioso appare strutturalmente rovesciato e incompatibile con quello statale (dal quale invece l’habitus familiare, quello religioso e quello militare traggono, e al quale allo stesso tempo forniscono la loro legittimità simbolica, in una stretta coimplicanza genealogica9), esso impedisce l’ingresso o la permanenza in tutti gli altri campi, se non in forma apparente o, in termini sartriani, grazie a una sorta di malafede10. Chi entra nel campo organizzato della malavita può infatti restare solo superficialmente, ‘tradizionalmente’ legato alla famiglia biologica, all’esercito, alla polizia o alla chiesa, così come deve saper partecipare ai giochi di campo, o di copertura, che gli permettono di agire nel macrocosmo sociale e nei suoi sotto-campi; in realtà si è convertito per sempre a una divinità che non tollera culti precedenti o paralleli se non nella forma parassitaria del ‘doppio gioco’11. In altre parole, in quanto mette irreversibilmente fuori gioco (quindi fuori senso: sinnlos) l’habitus familiare, religioso o militare, in quanto tende a parassitarli, anche affettivamente, dall’interno, nascondendosi dietro una superficiale adesione ai loro valori, l’habitus mafioso è un habitus destinale.12
Sul piano dinamico, tuttavia, il campo malavitoso presenta caratteristiche analoghe a quelle di tutti gli altri campi. Secondo Bourdieu, i campi sono spazi sociali in cui, hegelianamente, ognuno lotta per raggiungere una posizione privilegiata13, cioè per ottenere un riconoscimento simbolico da parte di coloro che condividono con lui il medesimo investimento e coinvolgimento nel gioco, la medesima illusio – il medesimo habitus. Questo riconoscimento primario rappresenta una vera e propria giustificazione ad esistere, poiché il senso della nostra identità è completamente sociale: l’essere umano non può formarsi psichicamente senza incorporare un habitus e senza appartenere a un campo.
Se il valore sociale di un individuo si misura dal modo più o meno rispettoso con cui viene identificato, considerato, riconosciuto dagli altri membri del campo a cui appartiene, gli attori di ogni campo si muovono ed operano secondo specifici rapporti di forza differenziali e gerarchici – in termini foucaultiani, secondo specifiche relazioni di potere o, nei termini di Bourdieu, attraverso giochi di legittimazione simbolica reciproca, ma asimmetrica. Il campo evolve, muta nel tempo, in ragione delle lotte che vi si svolgono e che modificano il volume e la struttura del capitale14 richiesto per agirvi, così come cambiano le traiettorie sociali e gli habitus dei suoi componenti.
Quando si entra in un campo, il riconoscimento primario arriva dai membri del campo percepiti come superiori, da coloro cioè che sono già legittimati ad agire perché possiedono una quota elevata di capitale simbolico spendibile in quel determinato campo; ciò non esclude la possibilità, una volta entrati, di lottare per ottenere un riconoscimento pari, o addirittura superiore a quello di coloro che ci hanno legittimati ad entrare; ma, a differenza di ciò che accade nella società civile, nel campo del crimine organizzato la lotta per la superiorità (che equivale sia alla disponibilità illimitata di beni materiali che al potere di dare la morte15) costituisce l’unico senso, o posta in gioco della lotta stessa; nella malavita la lotta è, hegelianamente, una lotta a morte, una lotta fisico-simbolica per il riconoscimento nella quale però il servo, in quanto lavoratore, non può mai diventare il signore del signore, ma resta sempre fuori del gioco in cui ne va dell’onore – dunque totalmente privo di capitale simbolico. Ancora una volta il conflitto avviene in forma rovesciata rispetto a ciò che si verifica nel macrocosmo sociale: il riconoscimento mafioso del valore e della posizione di un individuo (onore) è inversamente proporzionale al riconoscimento del suo valore e della sua posizione nella società civile. Soltanto chi non lavora, chi disprezza l’identità servile ma possiede il denaro, può assumere, nell’ordine rovesciato del discorso malavitoso, il rango e l’identità del padrone – cioè conservare ed imporre il suo onore.
Ciò non esclude, ma anzi paradossalmente rafforza la relazione strutturale della malavita organizzata con il capitalismo, che nei primi secoli della modernità ha costruito sull’habitus del lavoro la sua capacità di dominare il mondo. Se infatti l’habitus è la capacità di agire adeguatamente in un campo, e il capitale è ciò che permette di muoversi e lottare all’interno di uno o più campi, la malavita organizzata sottomette completamente alla sua logica identitaria sia il capitale culturale che quello sociale, facendo coincidere senza residui il capitale economico e quello simbolico. Nella prospettiva malavitosa, nell’habitus mafioso, la traiettoria di un individuo sembra (non solo simbolicamente) precipitare verso un unico punto di fuga: il denaro come potere assoluto, o se si vuole, in termini batalleani rovesciati, come negatività senza impiego16. In tal modo l’economia simbolica della malavita organizzata assegna al denaro un potere destinale, che non rinvia ad altro che a se stesso, e, in ultima analisi, alla morte.17
2. Alla luce di queste prime considerazioni di ordine sociologico, si possono ora formulare delle ipotesi relative all’origine, alle trasformazioni e all’attuale configurazione assunta dal plesso simbolico potere-denaro-destino-morte, cercando di rispondere così a due interrogativi, uno squisitamente genealogico e l’altro, per così dire, esistenziale, che ruotano intorno all’esperienza del tempo nel mondo criminale.
a) Se la malavita organizzata si è strutturata come campo nel XIX secolo, che è lo stesso in cui nasce la prigione, se è comparsa come sottoprodotto economico del carcerario analizzato da Foucault, come appare oggi questa struttura prosperata all’interno del sistema statualità-crimine, quali sono state le sue metamorfosi? Secondo una prima ipotesi, la malavita organizzata sta attuando oggi un rapido rovesciamento, che consiste nel trasformare il carcerario, inclusa la delinquenza comune che lo popola, in un suo sottoprodotto, attraverso una rapida colonizzazione economica dell’istanza punitiva o campo che legittimava il potere carcerario, e cioè il politico – che a sua volta ha già ridotto lo stato, con tutto il suo ordine simbolico, nei termini della pura governance. In tale rovesciamento il potere giudiziario, da cui era derivato il carcerario, viene a sua volta espropriato della sua originaria componente etica e sottomesso alla logica economico-amministrativa della governance.
b) Se l’habitus malavitoso è frutto di una socializzazione primaria irreversibile, che tende a innestarsi in modo parassitario su altre forme di socializzazione primaria (ad esempio su quella familiare), in che modo e perché ogni membro (anche e soprattutto un capo) della malavita organizzata vive come soggetto un assoggettamento destinale al potere? In altri termini, come funziona il tempo sociale, e insieme de-socializzato, nella vita e nella soggettività del mafioso? Nella seconda ipotesi, l’esperienza temporale del soggetto affiliato a una famiglia criminale assomiglia alla temporalità specifica del sistema Inc. nella prima topica freudiana: un tempo immodificabile, in cui non c’è né passato né presente, ma tutti gli eventi e i significanti sono presi in un’eternità tanto necessaria quanto distruttiva; in altri termini, il tempo del codice (del linguaggio) che conferisce al mafioso il suo potere è strutturato come un eterno inconscio anti-metamorfico, in cui domina il destino sotto forma di pulsione di morte (Todestrieb), oscuro centro gravitazionale capace di fagocitare tutte le altre spinte pulsionali.
Tuttavia – ed è questa la terza ipotesi – esiste forse un livello al quale questi due problemi (l’uno sistemico, oggettivo e vettoriale, l’altro esistenziale, soggettivo e circolare) si intersecano, un livello che sembra inscritto nell’attuale esperienza economica del tempo e temporale del denaro. Si tratta infatti di un’esperienza paradossale che rende eterna e insieme ripartisce, impone, cioè trasforma letteralmente in destino la volatilità del denaro; mentre questo, di rimando, trasforma in qualcosa di terribilmente effimero il potere (che poi è il destino come tremendum et fascinans: come sacralizzazione del profano) del criminale.
3. La radice di entrambi i suaccennati problemi potrebbe trovarsi nella doppia dimensione temporale (storica ed esistenziale) della disciplina. Perciò, per approfondire le tre ipotesi, cercherò di utilizzare il dispositivo genealogico di Foucault.
In quanto “anatomia politica del dettaglio” che covava già in sé la biopolitica, la disciplina moderna ha lavorato innanzitutto sulla superficie corporea dei viventi, è stata un’azione primaria svolta sul corpo per renderlo docile ed efficiente: prima che correzionali, le tecniche disciplinari sono tecniche pedagogiche che producono identità (habitus) addestrando il corpo degli uomini fin da quando sono bambini. Ciò è avvenuto ed avviene anche nel mondo della malavita, spesso in una forma mutuale che la scuola ha ormai abbandonato (ad esempio attraverso l’addestramento all’uso delle armi) e che invece mantiene nell’esercito una forma alquanto perversa (spesso sfociante nel cosiddetto nonnismo): i grandi insegnano più o meno sadicamente ai piccoli mentre i padri sono in galera, dove, a loro volta, si addestrano – mantengono il corpo in esercizio.
Esattamente come nell’esercito, nel campo malavitoso è necessario plasmare minuziosamente il corpo per renderlo abile e così assoggettare la psiche: la velocità nell’obbedire a un ordine e nel caricare un fucile, insieme alla capacità di resistere (o di mentire) e alla precisione della mira, possono salvare la vita; persino l’individualità apparente del criminale, la sua (in)sostituibilità, è analoga all’inquadramento del soldato nella macchina militare. Il corpo dei detenuti palestrati che attendono la libertà nelle carceri è lo strumento della criminalizzazione della loro anima, della sua totale sottomissione all’ordine mafioso, che diviene spesso leggibile, all’esterno, attraverso il tatuaggio (non a caso proibito nell’esercito).18
Dopo la riforma carceraria di fine settecento, che sostituisce al “giardino delle leggi” l’architettura del Panopticon, il segreto della coercizione diventa segreto dell’affiliazione e della formazione dell’habitus mafioso, nonché della costruzione relazionale del suo potere all’interno della ‘famiglia’ vissuta, in termini tattici, come resistenza al potere di sorvegliare e punire. E poiché famiglia e chiesa realizzano forme di socializzazione primaria, ossia forniscono il primo originario livello della realtà sociale come costruzione19, si tratta di una famiglia biologico-criminale la cui simbologia – ad esempio nei riti di sangue – ricalca quella religiosa.20
Da tale punto di vista, la mafia è una gemmazione paradossale e pastorale della disciplina carceraria ottocentesca, la quale, costituitasi all’ombra dei tre poteri tradizionali dello stato moderno come una sorta di quarto potere, nutre e coltiva dentro di sé un parassita o doppio rovesciato – appunto il crimine organizzato come quinto potere21. Ecco perché, secondo Foucault, la delinquenza è la vendetta della prigione contro la giustizia22, ma – aggiungerei – anche contro la stessa disciplina del carcerario, nel senso che è la sua trasformazione in destino. Questa trasformazione è resa possibile proprio dalla struttura parassitaria del campo malavitoso, il quale muta nel tempo (è storicamente, economicamente metamorfico), ma dal punto di vista dei soggetti (cioè dal punto di vista esistenziale, che coincide con quello che potremmo definire l’inconscio criminale, il sistema Inc. della malavita) rimane sempre uguale a se stesso.
Come già accennato, nella malavita organizzata non è possibile nessuna conversione, nessun mutamento di paradigma o passaggio da un codice a un altro: l’unica metánoia permessa è appunto quella, distruttiva e totalitaria, che consiste nel diventare mafiosi. In quanto mafioso l’uomo non può cambiare, non può dismettere il suo habitus: la disciplina lo ha formato irreversibilmente come criminale. Questo spiega, da un lato, perché ogni tentativo di cambiare vita non può che fallire, dall’altro perché il carcerario non può mai correggere, ma solo riprodurre la criminalità, e perché anche fuori del carcere il mafioso tende a riprodurlo (si pensi ai bunker della latitanza). L’unica vita possibile è quella vissuta all’ombra della legge criminale, che è una sorta di anti-legge codificatasi a sua volta nel segreto del carcerario, come suo sottoprodotto vendicativo.
La stessa dinamica riproduttiva emerge se consideriamo il modo in cui il tempo viene impiegato come “moneta carceraria”. Secondo Foucault, nelle istituzioni disciplinari il capitalismo moderno ha costruito l’interiorità, l’anima dell’individuo: ha fabbricato, ad un livello di profondità che possiamo considerare in nuce biopolitico, l’identità del lavoratore (der Arbeiter), il cui corpo docile è in grado di fornire un profitto, un ‘utile’, sia a chi lo ha addestrato che alla società intera. È per questo motivo che l’ideologia carceraria prevede che il detenuto lavori (o addirittura studi) in vista del suo rilascio. L’obiettivo apparente è la riqualificazione morale del criminale, la costruzione della sua nuova soggettività (dunque, una metánoia); in realtà, tutti i detenuti debbono lavorare in carcere – anche i condannati a morte (proprio come tutti gli internati lavoravano nei lager nazisti in attesa della morte): poiché il tempo è denaro, lo stato intende ottenere dal loro corpo il massimo del profitto. Tuttavia nel campo malavitoso che va a costituirsi come potere resistenziale rispetto a quello di sorvegliare e punire, il lavoro è disonorevole, e viene quindi capovolto in chiave tattico-strategica: per non diventare un tempo morto, o meglio, per non lasciare che trasformi fisicamente e psichicamente il detenuto in un morto (in uno zombie o un musulmano simile a quelli che vagavano nei lager nazisti), il tempo in carcere serve a mantenersi in forma per il rilascio o a coltivare relazioni utili quando si tornerà ‘fuori’, nel mondo. La contabilità monetaria del tempo è al centro dell’esperienza del detenuto, in quanto egli è un homo oeconomicus: la sua economia temporale è perciò parallela, ma rovesciata rispetto a quella che vorrebbe imporgli (o fa finta di imporgli) il potere statale. Sul piano esistenziale, per non dire psicologico, questo tempo “omogeneo e vuoto” (per usare un’espressione di Walter Benjamin) della detenzione dev’essere necessariamente ritualizzato, riempito, dotato di scansioni e obiettivi raggiungibili, pena la pazzia o il suicidio.
4. Nata nel chiuso della coercizione, ma nel secolo della massima espansione dell’economia industriale, la criminalità organizzata è sin dalla sua origine un prodotto del capitalismo moderno, nel senso che è la trasposizione nel campo del crimine della struttura e della mentalità capitalistica vòlta al guadagno. In quanto segna la fine del banditismo, ma non del sistema simbolico feudale, la mafia italiana (inclusa la camorra) è a sua volta un calco del capitalismo, che però espelle dal suo habitus il lavoro – non solo perché, soprattutto nell’Italia meridionale, eredita il costume degli hidalgos spagnoli, che consideravano il lavoro una servitù e un disonore, ma anche perché al detenuto viene imposto di lavorare in carcere: umiliato dalla disciplina, il mafioso non intende produrre, ma guadagnare sulla produzione altrui. Sul piano identitario, questa volontà di guadagno fa sistema con l’impossibilità di essere normale, di essere cioè un ‘onesto lavoratore’ – non solo perché l’ex detenuto è quasi sempre condannato socialmente alla disoccupazione, ad essere cioè emarginato dal mercato del lavoro, ma anche perché il mafioso che comincia a lavorare tradisce il suo campo di appartenenza, o meglio, a causa del carattere servile del lavoro, è destinato a morire come uomo d’onore.
Esattamente come per l’imprenditore (che non lavora, ma fa lavorare gli altri), l’imperativo parassitario ma sistematico della camorrìa (la tangente, così chiamata anche dai mafiosi siciliani che estorcono il pizzo) è quello del massimo profitto, ma senza il lavoro – soprattutto nei centri urbani o nei mercati urbano-rurali, dove accanto alla microeconomia artigiana si è imposto, o meglio è stato subìto dalla popolazione, il lavoro alienante della rivoluzione industriale23. In tal senso la mafia italiana rappresenta sia la versione furba, latina, dell’odio distruttivo per il lavoro in fabbrica che nel mondo anglosassone sfociò nel luddismo, sia l’alternativa paradossalmente più razionale, perché sistematica e durevole (in termini weberiani: zweckrational), alla violenza episodica del crimine contro la proprietà.24
Siamo con ciò risospinti verso il problema del tempo, che s’incrocia con la peculiare storicità del crimine organizzato. Nella mafia che potremmo definire classica, anteriore alla seconda guerra mondiale, il tempo vuoto sottratto al lavoro viene comunque ‘temporalizzato’, cioè impiegato in modo cumulativo e costruttivo, non tanto e non solo perché attraverso l’addestramento all’uso delle armi si lavora nel dettaglio, fin nell’inconscio, il corpo del criminale come quello del detenuto, del soldato e dell’operaio, ma anche perché il profitto malavitoso è il frutto di una particolare disciplina o ritualizzazione della violenza come attività continua, reticolare e collettiva, reiterata e radicata nel territorio: è un anti-lavoro che del lavoro in fabbrica o in carcere sembra avere lo stesso carattere ripetitivo e destinale, persino la stessa combinazione di sorveglianza e punizione. In quanto doppioni parassitari dell’economia legale il racket della prostituzione, il controllo sul gioco d’azzardo, le tangenti sulle attività commerciali e infine il traffico di droga sono forme di guadagno stabili, che richiedono l’esercizio di una minaccia costante e persuasiva25. In altre parole, la mafia si configura come un’istituzione pseudo-disciplinare capace di funzionare e soprattutto di durare quanto una nazione – non a caso in Italia lo stato unitario e la mafia hanno pressappoco la stessa età, e si può ben dire che l’organizzazione strutturale dell’uno implica l’anti-organizzazione strutturale dell’altra.26
5. Cercherei ora di posare sul presente lo sguardo genealogico grazie al quale Foucault ha messo in luce la complicità segreta del crimine con la moderna economia politica.
Nell’ottocento, insieme alla prigione come la conosciamo ancora oggi, nasce un unico sistema legalità-delinquenza, in cui il delinquente viene prodotto dalla legge, viene letteralmente ‘creato’ in carcere attraverso la disciplina, e per restare delinquente a vita; se infatti vi fosse correzione completa, il carcerario non esisterebbe più: lo scacco della correzione è funzionale al sistema.27
Da esso cadono fuori gli illegalismi popolari non organizzati ma politicamente pericolosi: la libertà ‘anarchica’ ed eslege dei banditi viene lentamente ma inesorabilmente inferiorizzata come selvaggia, mentre il denaro funge da medio temporale e collante simbolico del meccanismo di produzione degli individui: esso è l’elemento fluido, l’olio lubrificante e insieme la struttura solida, l’impalcatura logica del sistema legge-crimine. Da un lato infatti, esattamente come il soldato, l’operaio o il dipendente dello stato, anche il delinquente in nome del dio denaro è disposto ad accettare l’autorità del mafioso: ad essere sorvegliato e punito anche nel campo malavitoso. D’altra parte, a livello economico politico il crimine paga in due sensi: 1) dalla macchina dello stato germoglia un potere-sapere, appunto quello di sorvegliare e punire, che ha dei costi ma anche dei profitti, ad esempio in termini di posti di lavoro (polizia, personale giudiziario, carcerario, ecc.), o in termini biopolitici (conoscenza e gestione della popolazione attraverso quella che Foucault chiamava ‘funzione psy)’; 2) queste stesse strutture producono nel novecento, in modo per così dire circolarmente vizioso, la connivenza dello stato con i profitti parassitari della malavita. Sul lungo periodo, all’economia politica, soprattutto nella sua forma neo-liberale, conviene che vi sia delinquenza: la lotta al crimine è un affare colossale sia in termini effettivamente repressivi sia in termini fintamente repressivi, che preludono alla collusione sistematica con il campo malavitoso – ad esempio attraverso la corruzione della polizia.28
Si tratta di un processo lungo e articolato, che Foucault ha profeticamente connesso con la nascita della biopolitica e con la potenza soggettivante del capitalismo maturo. Se fino all’inizio del novecento, con l’aiuto del potere psichiatrico29, la borghesia ha considerato il delinquente un degenerato, e se attraverso la mutua delazione o la precarizzazione della loro esistenza il potere giudiziario ha marginalizzato i malavitosi che provenivano dal sottoproletariato urbano (una classe sociale ‘popolare’ che doveva essere resa politicamente innocua30), negli anni sessanta e soprattutto settanta del secolo scorso la rivolta politica contro lo stato borghese è stata ideologicamente inferiorizzata ad hoc come ‘criminale’: il sovversivo, in particolare se proveniente dalla classe operaia, doveva essere strategicamente equiparato al delinquente comune31. Infine a partire dagli anni ottanta, con il cosiddetto riflusso e le profonde metamorfosi culturali cui è andata incontro la struttura classista della società occidentale, e soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino, il sistema legge-delinquenza, ormai esteso a livello globale, ha cominciato a funzionare in modo del tutto nuovo.
In primo luogo, e non solo in Italia, si è assistito ad una sorta di normalizzazione sociale (nonché simbolica) del crimine, che, mettendo fuori gioco l’equazione mafia = popolo, ha consentito alla malavita organizzata di entrare nella società borghese in modo ‘pulito’ e culturalmente mimetico: è nata la mafia dei colletti bianchi, e con essa un campo malavitoso potenzialmente in grado di parassitare per intero il campo politico – regole del gioco incluse. A metà anni settanta, Foucault aveva già capito che l’illegalismo dei gruppi economicamente e politicamente dominanti è molto più pericoloso del piccolo illegalismo, poiché la sua posta in gioco è il potere-sapere come rete relazionale coestensiva all’intera società. In Italia, il presunto patto stato-mafia dei primi anni novanta potrebbe essere letto come conseguenza tattico-strategica dell’illegalismo clientelare, ormai sistematico, quasi amministrativo, praticato dai gruppi dominanti: un patto stipulato nella logica della governance che ha trasformato una parte consistente della classe politica (oggi non a caso percepita come casta mafiosa) nella sede ‘legale’ (in senso schmittiano) dell’illegalismo.32
In secondo luogo, nel nuovo sistema economico politico para-malavitoso il denaro ha cominciato ad agire con una funzione anti-disciplinare, ma comunque necessaria e impositiva: destinale. Nella società borghese ottocentesca, delinquenti e carceri erano funzionali al sistema in virtù di un reciproco disconoscimento di questa stessa funzionalità, che veniva appunto tradotta in ‘destino’: il destino di essere criminale o poliziotto, il destino dell’habitus malavitoso che si rispecchiava, talvolta fino a confondervisi, in quello del difensore della legge. Il denaro fungeva sia da posta in gioco che da medio temporale di questa doppia destinalità, perché lo si accumulava in un tempo apparentemente “omogeneo e vuoto”, apparentemente ‘eterno’, ed esperito soggettivamente come tale sia dal detenuto che dal personale dell’apparato correttivo. Anche oggi il denaro costituisce la posta in gioco del sistema legge-delinquenza, ma con una significativa inversione temporale: con una prevalenza della sua esplosiva istantaneità e dunque della sua nullità, della sua forza inflazionistica e nichilistica, sulla vettorialità dell’accumulazione. È come se il profitto malavitoso fosse stato capace di amplificare le conseguenze degli accordi di Bretton Woods del 1944 (che segnavano la fine del tallone aureo), facendo saltare ben prima dell’attuale crisi la corrispondenza tra economia reale ed economia virtuale (finanziaria).
In modo analogo e in terzo luogo, se il carcerario è stato essenzialmente, fino a qualche decennio fa, un sistema di sottrazione, gestione e ripartizione del tempo del detenuto, se vi era cioè una durata disciplinare e sensata (sinnvoll) della detenzione sia nella prospettiva malavitosa che in quella, apparentemente etica, del potere giudiziario, assistiamo oggi a una sorta di esplosione sociale ed organizzativa del carcerario come conseguenza di una paralisi altrettanto organizzativa della macchina giuridico-penale33. Nonostante tutte le proteste e le indignazioni in nome dei diritti umani, nei paesi occidentali e in particolare in Italia le carceri (proprio come le antiche galere) sono divenute depositi sovraffollati di esseri umani: più che di delinquenti addestrati, si tratta ormai di meri corpi pigiati in una cella, spesso tossicodipendenti o sieropositivi, i quali agli occhi dell’opinione pubblica sono il fastidioso sotto-prodotto di un sistema economico a sua volta malato, che non manda mai in carcere coloro che gestiscono i grandi illegalismi.
In un siffatto clima di rovesciamento, il sistema disciplinare (non solo penitenziario, ma anche scolastico, militare, religioso, ecc.) versa ormai in una crisi profonda, mentre i guadagni realizzati dal capitalismo finanziario, o permessi dalla sua colonizzazione parassitaria da parte degli illegalismi dominanti, sono diventati enormi e istantanei (ma anche istantaneamente evanescenti) rispetto a quelli su cui si era costruita, nel tempo e sul territorio, la malavita ‘classica’ che faceva sistema con lo stato nazione. Completamente de-territorializzata, la criminalità organizzata investe oggi in borsa come una multinazionale e ri-capitalizza come una banca, mentre i profitti dei manager industriali (ad esempio di Sergio Marchionne, a.d. della Fiat) non sono molto diversi da (cioè inferiori a) quelli di un boss mafioso.
La cifra temporale di questa nuova esperienza soggettiva, ma anche oggettiva del guadagno e del crimine è il presente, un presente onirico, surreale, per non dire inconscio. Oggi la classica formula marxiana D-M-D’, in cui il lavoro dell’operaio costituiva la base materiale del profitto parassitario del capitalista e del malavitoso, sembra sostituita da una sorta di formula magica che si potrebbe trascrivere con Inc. ← C = Dⁿ: nel sistema inconscio prodotto dal capitalismo, l’infinitizzazione istantanea del denaro coincide con la nullificazione speculare della merce e del lavoratore, cioè con la forclusione storico-sociale del lavoro come principio di realtà e fonte reale della ricchezza – anche di quella mafiosa.
Fino a qualche decennio fa, il guadagno era il frutto della disciplina e della ripetizione di atti legali o illegali volti a controllare durevolmente ed economicamente un territorio (lavoro di fabbrica, riscossione del pizzo, ecc.), mentre oggi tende ad essere sia scollegato dall’azione che istantaneo, e vuol essere quindi istantaneamente spendibile. Al turbo-capitalismo di questo godimento travestito da desiderio delle merci, che coincide con il dilagare dell’inconscio nella società dei consumi34, si affianca perciò il turbo-crimine: non solo il malavitoso non può avere famiglia, né vivere sempre in uno stesso posto (più o meno nascosto); deve anche avere molte donne, molte auto, uccidere, drogarsi e spostarsi continuamente35. E mentre lo sfondo storico che lo ha prodotto tende ad eternizzarsi, mentre cioè il capitalismo tende a destoricizzare se stesso come struttura dei rapporti di produzione che ha ormai sussunto, oltre alla realtà sociale, anche la vita psichica degli individui36, nel campo malavitoso il denaro istantaneamente guadagnato si sgancia definitivamente dalla produzione per assumere i caratteri di una destinale e ottusa pulsione di morte.37
7. Nel sistema legge-crimine, che ha originato il campo malavitoso, il fattore tempo si è dunque radicalmente modificato sia a livello soggettivo, psichico, che a livello oggettivo, strutturale, in virtù di un’intensificazione istantanea del profitto: in termini hegeliani, nella società occidentale tardo-moderna l’economia politica ha assunto una forma immediata, priva di mediazione dialettica. È per questo che carcere e delinquenza appaiono ormai disgiunti, non fanno più sistema, mentre la delinquenza organizzata ha colonizzato il politico grazie ad un rovesciamento dei rapporti di forza del tutto inappariscente, appunto perché a-dialettico. È ora l’illegalismo politico che controlla il potere giudiziario (anche nel senso che gli avvocati dei mafiosi fanno parte del campo politico), non il carcerario che produce l’illegalismo. E se la malavita organizzata è nata come prodotto ‘triste’ del potere-sapere disciplinare esercitato in un carcerario istituzionalizzato, oggi il potere-sapere dell’istituzione appare funzionale a una malavita trasformata in miraggio di vita ‘felice’ solo perché immediatamente, non durevolmente ricca.
Leggere il postmoderno attraverso questa sorta di lente della istantaneità del profitto criminale, significa abbandonare tutti i moralismi legati all’analisi critica dell’economia politica: se il capitalismo ha prodotto la delinquenza organizzata come suo doppio funzionalmente inferiore, è storicamente inevitabile che sia questa a impadronirsi del capitalismo, poiché la cifra comune a entrambi è il denaro guadagnato senza lavorare. Il lavoro (non solo quello del detenuto) cade completamente fuori da questo nuovo sistema: qualunque forma di attività, anche quella cognitiva, sembra surclassata o asservita a una forma di frenetica inattività, criminalmente organizzata ma lecita, necessariamente legalizzata. L’intera vita sociale appare ormai prona a una modalità di lucro immediato ed esponenziale, nonché terribilmente ludico, che in Italia si realizza non solo nei clan camorristici, ma anche in borsa o nei Punti Snai dove si scommette su calcio e cavalli, nei Bingo o nei videopoker. In tutti questi (non)luoghi, da gestione disciplinare del denaro il tempo diventa infatti il teatro infantile, afasico e apatico, della sua dilapidazione: in quanto vieta l’accumulo e impedisce la temporalizzazione il gioco, che è anche e soprattutto il gioco-del-crimine, l’investimento illusorio e immaginario nel campo criminale, incatena gli individui, vecchi e giovani, a una meccanica ripetizione, li inchioda a un eterno e coattivo presente che rispecchia il destino volatile, la mortifera nullità del denaro. Ormai completamente dissociato dal lavoro, cioè dalla realtà delle relazioni sociali, il denaro ritorna tuttavia nel reale come anticipazione incontrollata e assolutamente indecisa della morte38: esso è la vita solo apparentemente felice, il destino malavitoso e perciò mortale del capitalismo.
Non potendo in questa sede analizzare la corrispondenza tra il registro fenomenologico della sociologia del crimine organizzato e quello reale, storico-politico, con particolare riferimento alla camorra39, vorrei soffermarmi, per concludere, su una recente pellicola che illumina come poche altre l’oscurità destinale della malavita nel tardo capitalismo.
Una vita tranquilla è un film del 2010 diretto da Claudio Cupellini, tratto da un soggetto che nel 2001 aveva vinto il Premio Solinas e interpretato, tra gli altri, da Toni Servillo, il quale insieme al regista (nonché sceneggiatore con Filippo Gravino e Guido Iuculano) è stato candidato al Nastro d’argento, poi premiato come miglior attore al Festival del cinema di Roma dello stesso anno40. Tuttavia l’opera non mi interessa dal punto di vista artistico, quanto piuttosto come vicenda esemplare e universale, in senso aristotelico: oltre alla superiorità paradigmatica del plot rispetto alla particolarità dei fatti reali, presenta infatti una struttura tipicamente tragica, con tanto di cecità iniziale, metabolè e catastrofe finale.
È la storia di Rosario Russo (alias Antonio De Martino, camorrista pluriomicida forse pentito e fuggito dall’Italia per non essere ammazzato), un meridionale che da quindici anni vive sotto falso nome in un piccolo centro nei pressi di Francoforte, dove ha aperto un hotel con annesso ristorante, ha sposato una tedesca, Renate, e da lei ha avuto un figlio, Mathias, che ormai ha nove anni.
Dalle scene iniziali capiamo che Rosario, in Germania, ha ricostruito se stesso attraverso il lavoro e la disciplina: dopo una dura gavetta ad Amburgo, ha imparato a cucinare in modo decente (il che per i tedeschi è sufficiente per considerarlo un ottimo chef), a comportarsi come una persona rispettabile, persino a giocare con suo figlio; ha insomma saputo gestire abilmente il fattore tempo, trovando anche un modo ‘costruttivo’ di scaricare la violenza legata al suo habitus precedente (ma intrasferibile) e allargare così il perimetro della sua nuova attività: infila chiodi negli alberi che circondano il suo locale per farli ammalare e cadere, dato che la legge teutonica vieta di abbatterli.
Un giorno arrivano al ristorante Diego e Edoardo, due giovani napoletani che si presentano come vecchi amici di Rosario. In realtà sono stati mandati da alcuni boss ad assassinare un industriale tedesco che sta per stipulare un contratto per lo smaltimento di rifiuti tossici provenienti dalla Campania (togliendo così ‘lavoro’ alla camorra); Diego, che è in realtà figlio di Rosario/Antonio, e che soffre ancora per l’abbandono, avvenuto quando era piccolo, decide comunque di passare dal padre per farsi ospitare (questa circostanza, insieme ad altre, è stata rilevata come una forma di incongruenza nella trama, poiché il figlio non avrebbe dovuto/potuto sapere dove risiedeva il padre, o avrebbe dovuto saperlo morto). Rosario, che a sua volta non sa dell’affiliazione camorristica del figlio e ignora il motivo della sua visita, lo riconosce immediatamente e lo accoglie con benevolenza, cercando di mostrargli il senso, anche economico, della sua nuova vita: costretto a mettere in comunicazione due mondi che erano destinati a restare separati, il padre vorrebbe che il figlio comprendesse che lui ora è un uomo onesto, e ne fosse addirittura contento.
Tuttavia sia la nuova famiglia tedesca che Edoardo, l’amico di Diego, per motivi diversi non debbono sapere della parentela esistente tra i due. Per evitare che Antonio De Martino venga localizzato da coloro che ha tradito quindici anni prima, essa deve rimanere nascosta soprattutto al giovane camorrista che accompagna Diego, e che si rivela ben presto più feroce che furbo. Quando infatti Rosario segue Diego per capire le ragioni del suo viaggio in Germania, e scopre che il figlio sta per commettere un omicidio su commissione, la sua apparizione paralizza il ragazzo, mentre Edoardo non esita a freddare in sua vece la vittima designata.
A questo punto, ovvero dopo la violenta metabolè esperita da Rosario, che finalmente vede ciò che prima la lontananza e poi l’affetto per entrambi i figli – il piccolo Mathias e il rancoroso Diego – gli avevano impedito di vedere, e cioè la delinquenza destinale del maggiore (che ha seguito le orme paterne) capace di distruggere l’illusoria innocenza da cui è nato il minore, si innesca la concatenazione tragica degli eventi. Rosario, ridivenuto Antonio, cerca di fare il padre: invita il figlio a lasciare immediatamente la Germania, ma viene appunto riconosciuto da Edoardo come Antonio De Martino, ed è costretto a ucciderlo.
Diego lo aiuta a far sparire il cadavere dell’amico, ma ormai rabbioso rifiuta la proposta del padre, che gli offre un altro modo di seguire le sue orme – una ‘vita tranquilla’ all’estero con una nuova identità – e realizza invece una vera e propria nemesi: rapisce Mathias (con cui a prima vista lega, ma che per lui resta l’odiato fratello di secondo letto), e ricatta il padre costringendolo a uno scambio, che Rosario accetta – la sua vita per quella del bambino. L’appuntamento-agguato è fissato in un autogrill vicino a Teano, tra Lazio e Campania (anche questa circostanza è stata considerata come un difetto diegetico), dove due killer della camorra, avvertiti dallo stesso Diego, aspettano per fare la pelle ad Antonio De Martino – l’infame che è fuggito all’estero quindici anni prima e che ha appena eliminato il figlio di un boss.
Nella sparatoria, Diego cerca in extremis di salvare il padre, ma rimane ucciso, mentre Rosario riesce a fuggire con il piccolo Mathias. Dopo averlo lasciato dalla madre, sulla porta di casa, fugge di nuovo. L’ultima, tristissima inquadratura lo mostra in una brumosa alba tedesca trasformato (o meglio degradato) in operaio, con un altro nome, la testa appoggiata al sedile di un autobus diretto a Heidelberg.
Oltre alle sfasature nella trama, la critica ha subito rintracciato nel film l’elemento destinale:
“Vicenda cupa e pessimistica incentrata sull’ineluttabilità del destino, sull’impossibilità del riscatto e sulla forza invincibile del legame individuale con ciò da cui si proviene, Una vita tranquilla è allo stesso tempo il ritratto di un soggetto con una doppia identità e quello di un ambiente (le famiglie camorristiche) che sembra autoalimentarsi tragicamente di generazione in generazione. Figli che seguono le orme dei padri, mentre questi ultimi hanno già deciso autonomamente di tagliare i ponti con il crimine, la violenza, la morte. Quella disegnata da Cupellini e dai suoi co-sceneggiatori è una parabola amara che non trova alcuna conclusione; quando sembra che il personaggio centrale sia riuscito a trovare nella clandestinità e nella fuga la sua dimensione, ecco che diviene nuovamente necessario nascondersi e fuggire.” (M. G. De Bonis, Cultframe, novembre 2010)
In effetti la struttura tragica del film, che coagula nella maschera di Toni Servillo, compensa la mediocre recitazione dei due giovani Marco D’Amore e Giuseppe Di Leva, ma soprattutto neutralizza il rischio di cadere nei due stereotipi che di solito caratterizzano queste pellicole di genere: da un lato la condanna moralistica, dall’altro l’esaltazione estetica della camorra. Nel film di Cupellini non c’è né l’una, né l’altra, ma piuttosto una sorta di sublimazione cinematografica di uno studio psico-sociologico sull’identità destinale del malavitoso. La nuova, tranquilla vita di Rosario Russo è infatti un’illusione (in-lusio) ma anche, nel senso di Bourdieu, un gioco pericoloso in un campo proibito: una volta che sei stato costruito socialmente, economicamente e persino affettivamente come criminale, una volta che ti sei riprodotto all’ombra del sistema pseudo-familiare della criminalità organizzata, non puoi ricostruirti come uomo, marito, padre ‘onesto’; non sei padrone di te stesso o del denaro che guadagni, perché non puoi essere lavoratore, ma soltanto servo. Per Antonio De Martino qualunque tentativo disciplinare di entrare in diversi ruoli sociali (imparando a cucinare e aprendo un ristorante, amando e sposando una donna, avendo da lei un figlio, persino cercando di recuperare il rapporto col figlio grande) è destinato a fallire. Il camorrista non-morto è perseguitato dalla sua vecchia identità come se fosse in galera, perché è lo stesso habitus criminale a essere per lui una prigione. Gli affetti familiari vengono inoltre sottomessi al codice dell’occhio per occhio, dente per dente: Diego tradisce il padre, ma poiché alla fine lo salva, muore; per sopravvivere, il padre a cui hanno appena ammazzato il figlio che aveva abbandonato è costretto a lavorare come un detenuto, e deve morire ai nuovi affetti per preservarli: deve perdere la nuova identità faticosamente guadagnata e lasciare la famiglia tedesca, proprio come aveva lasciato la vecchia. Può soltanto mandar loro del denaro, e sperare che la camorra non li trovi e li uccida per vendicare la morte di Edoardo.
Il maggior pregio del film consiste dunque nel mostrare come l’ossessione del guadagno immediato della nuova criminalità organizzata (la stessa che spinge Diego e Edoardo all’omicidio) e la sfera del destino (il passato camorrista di Rosario) si sovrappongano senza residui. Questa sovrapposizione inconscia, che spazza via la disciplina del padre e la vita del figlio, che impedisce ogni rapporto tra le generazioni, si rivela, o meglio entra violentemente nella coscienza del protagonista (investendo di riflesso quella dello spettatore), in almeno due momenti della vicenda: quando Rosario, tornato Antonio, uccide Edoardo, e quando, sempre come Antonio, vede morire il figlio Diego. In entrambe le circostanze, egli fa esperienza della nullità del tempo trascorso, della nullità del denaro guadagnato onestamente di fronte alla morte, ma anche della nullità del suo legame con il figlio, di fronte al denaro che coincide con la morte. Il denaro funziona come la maledizione temporale del camorrista contemporaneo, che inchioda le vite dei padri e quelle dei figli. Se i primi, come tutti gli italiani che trovano lavoro all’estero, sono destinati a servire l’economia di un altro paese, i giovani criminali globali fingono di restare ‘in famiglia’ solo per rifiutare ogni costruzione/costrizione disciplinare del lavoro; in realtà essi corrono, più o meno inconsciamente, verso il nulla: il denaro è l’oggetto-segno della loro nuova, ma eterna pulsione di morte.
Note
1 Cfr. M. Foucault, La vita degli uomini infami, Il Mulino, Bologna 2009; Id., Archivio Foucault 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, Feltrinelli, Milano 1997.
2 Il motivo per cui, nonostante l’apparente distanza teorica, è possibile avvicinare Foucault e Bourdieu, è stato da me affrontato in un saggio di qualche anno fa, Il senso del giudizio. Bourdieu e la genealogia del diritto, in Sotto giudizio, annuario n. 5 della rivista Kainos, Punto Rosso, Milano 2010, pp. 84-118.
3 Nella vastissima produzione di Bourdieu non ho trovato saggi esplicitamente dedicati al campo criminale; esistono invece alcuni articoli dedicati al campo giuridico, pubblicati negli anni ’80 nella rivista da lui fondata Actes de la recherche en sciences sociales. Uno di questi è stato tradotto in italiano da G. Brindisi: cfr. P. Bourdieu, I giuristi, custodi dell’ipocrisia collettiva; in Sotto giudizio, annuario n. 5 della rivista Kainos, Punto Rosso, Milano 2010, pp. 34-39; cfr. anche G Brindisi, La sociologia del campo giuridico di Pierre Bourdieu, ivi, pp. 9-33.
4 P. Bourdieu, Propos sur le champ politique, Lyon, 2000, p. 52. Citato in Id., Sul concetto di campo in sociologia, a cura di M. Cerulo, Armando, Roma 2010.
5 Cfr. M. Cerulo, Introduzione a P. Bourdieu, Sul concetto di campo in sociologia, cit., pp. 22-24.
6 La sociologia dei campi si occupa dell’insieme delle disposizioni che gli individui manifestano tramite la completa interiorizzazione psicofisica del tipo di regole valide in un determinato campo, che Bourdieu ha chiamato habitus (traduzione latina dell’hexis aristotelica: un costume acquisito, che però l’individuo indossa come una disposizione naturale). L’habitus mobilita schemi pratici derivati dall’incorporazione: è il risultato dell’introiezione completa, perché corporea, delle strutture sociali, che diventano così di riflesso strutture mentali individuali, inintenzionali e inconsce, di classificazione (cioè di organizzazione e valutazione) del mondo sociale, nonché criteri di azione nel mondo medesimo (prasseologia). Come struttura strutturata e strutturante, cioè come apriori storico e principio organizzatore di pratiche e di rappresentazioni, l’habitus crea disposizioni durature e trasferibili, in grado di farci orientare e agire nel mondo.
7 Un esempio significativo può essere quello dello sport: in una partita di calcio tutti, anche gli spettatori, fanno e addirittura sentono ciò che ci si aspetta in quel determinato campo e secondo quelle determinate regole, tutti cioè manifestano l’habitus sportivo come senso simbolico e pratico del mondo. Finita la partita, però, ognuno torna alla sua identità sociale di provenienza: persino i giocatori, lavorativamente nonché fisicamente coinvolti, tornano al loro habitus ‘privato’.
8 O anche frutto della socializzazione primaria: cfr. P. Berger – T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 2002.
9 Su ciò cfr. P. Bourdieu, Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna 2009.
10 Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1991, Parte I, cap. 2.
11 È forse questo il motivo per cui nelle crime stories c’è spesso un poliziotto infiltrato nella malavita che potrebbe allo stesso tempo essere un criminale infiltrato nella polizia, con un voluto effetto di indecidibilità.
12 Il concetto di destino dev’essere qui sciolto nei doppi significati dei termini greci ananke = necessità ma anche violenza, e moira = porzione, parte spettante ma anche ciò che viene impartito da una potenza superiore.
13 “La tensione fra le posizioni, costitutiva della struttura del campo, ne determina anche il mutamento attraverso le lotte in nome di poste che sono esse stesse il prodotto di una lotta” (P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 47).
14 La sociologia di Bourdieu individua quattro tipi di capitale, tra loro convertibili: il capitale economico, il capitale culturale, il capitale sociale (inteso come rete di relazioni) e il capitale simbolico, che risulta sia dalla somma dei primi tre, che dal modo in cui l’individuo li utilizza per muoversi in un determinato campo, ovvero dalla legittimazione simbolica – dal riconoscimento più o meno gerarchico – che essi permettono di ottenere.
15 Quello della criminalità organizzata è forse l’unico ordinamento o codice che si regge sulla inabolibilità della pena capitale, di cui anzi ciascuno degli affiliati accetta la certezza.
16 In Bataille il concetto ‘mortale’ di dépense e quello di parte maledetta dischiudono una prospettiva simbolica altra, più profonda rispetto all’economia ristretta del capitalismo moderno, mentre la criminalità organizzata funziona come campo negativo – come parte maledetta della società ‘servile’ – solo nell’orizzonte dell’economia capitalistica, di cui si limita a parassitare la struttura sistemica e gli elementi simbolici. Cfr. G. Bataille, Il dispendio, Armando, Roma 1997 e Id., La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
17 Una figura criminale (e pulsionale) paradigmatica per la coincidenza di destino, denaro e morte, potrebbe essere quella di Tony Montana Scarface, alias Al Pacino, protagonista dell’omonimo film di Brian De Palma del 1983, non a caso venerata nell’universo simbolico della camorra.
18 Non posso qui dilungarmi sull’analogia economica tra membro dell’esercito e affiliato a un clan malavitoso, ma si rifletta sul fatto che nello stato di guerra (guerra tra stati o guerra criminale: non sono affatto l’eccezione) entrambi sono letteralmente dei soldati, vengono cioè pagati non per produrre, ma per uccidere.
19 Cfr. P. Berger – T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, cit.
20 Mentre la mafia siciliana, essenzialmente rurale, comincia ad organizzarsi dopo l’unità d’Italia, la camorra, essenzialmente urbana, affonda le sue radici nel seicento spagnolo per nascere ufficialmente a Napoli nel 1820, nella Chiesa di Santa Caterina a Formiello (nei pressi di Porta Capuana), come “Bella Società Riformata”. Nella dimensione familiar-religiosa in cui, a partire dal XIX secolo, si è verificata nel nostro Paese l’affiliazione alla mafia e alla camorra di ampi segmenti delle classi popolari (urbani per la seconda e rurali per la prima), lo stato viene realmente ed economicamente ‘dopo’, quindi è il nemico, come dimostra anche il nesso, nell’Italia postunitaria, tra la coscrizione obbligatoria, il prelievo fiscale e il brigantaggio. Almeno fino agli anni cinquanta del secolo scorso, la violenza è stata ammessa solo se ritualmente codificata e rivolta contro l’istituzione statale; ancora oggi, la ribellione e/o delazione nei confronti della struttura mafiosa e/o camorristica è considerata tradimento, e viene punita con la morte: la sua impensabilità, come aveva ben compreso Giovanni Falcone, viene messa seriamente in crisi solo dal fenomeno del pentitismo.
21 Per parafrasare sia il titolo italiano del capolavoro di Orson Welles, Citizen Kane, che quello della pellicola di Sidney Lumet del 1976 dedicata alla televisione, Quinto potere (titolo originale: Network).
22 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 280.
23 Fin dalle origini, la riproduzione sociale e territoriale della camorra napoletana non avviene solo attraverso l’organizzazione della violenza travestita da protezione (la cosiddetta ‘tassa sulla tranquillità’), ma anche grazie ad una particolare imprenditorialità fiscale, condensata nel detto secondo cui i camorristi (non molto diversamente dai governi) cacciavano l’oro dai pidocchi: prendevano i soldi dai poveri. Cfr. G. Di Fiore, La camorra. Storie e documenti, Utet, Torino 2006.
24 Il semplice crimine organizzato in bande (si pensi a quella della Uno bianca, alla banda della Magliana o a quella di René Vallanzasca) può durare al massimo qualche lustro, mentre la camorra (insieme alla yakuza e alla mafia cinese) dura da due secoli.
25 Cfr. M. Horkheimer, Le espressioni del racket e lo spirito, in questo stesso numero di Kainos, sezione Disvelamenti, traduzione dal tedesco di G. Baptist e introduzione di V. Cuomo.
26 Un simile isomorfismo storico viene solo superficialmente messo in questione dall’elemento sentimentale e pseudo-romantico della malavita che si pretende anti-capitalistica perché anti-statalistica. Più che il mito stantìo del camorrista di quartiere (il ‘guappo’), che con il suo abbigliamento vistoso pretendeva di avere il controllo sulla, ed esibiva il contenimento ritualizzato della violenza (ad esempio autorizzando lo sfregio e non il delitto d’onore), non deve fuorviare la figura (peraltro fallimentare) di Raffaele Cutolo, che ha voluto dare alla Nuova Camorra Organizzata (NCO) una patina di ‘nobiltà’ e delle forme vagamente anarco-ribellistiche, nonché pastorali, attraverso una presunta sovrana redistribuzione del guadagno illecito perfettamente compatibile con la simulazione ‘destinale’ della follia carceraria, che nascondeva un’astutissima ragione economica. Cfr. G. Marrazzo, Il camorrista. Vita segreta di don Raffaele Cutolo, Pironti, Napoli 2005.
27 Ecco perché l’ergastolo rivela la natura disperatamente monetaria del tempo carcerario: come individuo pericoloso che ha contratto con lo stato un debito infinito (un debito destinale, ovvero coestensivo alla sua stessa vita), il detenuto (checché ne pensino le anime belle) non è reinseribile nella società borghese.
28 Cfr. un’altra pellicola esemplare tratta da una storia vera: Serpico (1973, sempre di Sidney Lumet), anch’essa magistralmente interpretata da Al Pacino.
29 Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-74, Feltrinelli, Milano 2004.
30 Ci si può chiedere fino a che punto un film poetico e ‘politico’ come Accattone di Pier Paolo Pasolini (1961) abbia involontariamente contribuito a questa neutralizzazione. Si tratta anche in questo caso di una vicenda destinale: dopo aver tentato invano, spinto dall’amore per Stella (che doveva diventare la sua prostituta), di guadagnarsi da vivere con un lavoro onesto, ‘Accattone’ torna a rubare, e, inseguito dalla polizia, muore in un incidente.
31 E ciò ben al di là degli effettivi intrecci tra delinquenza comune e terrorismo (emersi in Italia soprattutto durante il caso Moro): si pensi al modo in cui venivano descritti dai media della Germania Ovest i membri della RAF.
32 Il culmine di questa pratica clientelare tradotta in gioco politico è stato forse raggiunto con l’approvazione dell’attuale legge elettorale (il cosiddetto ‘porcellum’ di Calderoli) nel 2005.
33 Sull’espansione, anche economica, del carcerario sia in Italia che soprattutto negli Stati Uniti, attraverso la diffusione della social insecurity nella popolazione americana ed europea, cfr.aut aut n. 346, 2010, Lo stato penale globale, a cura di M. Gelardi, con una introduzione di A. Dal Lago, Il Saggiatore, Milano 2011.
34 Su ciò cfr. invece M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica piscoanalitica, Cortina, Milano 2010.
35 Pur essendo un esempio di crimine organizzato, e a livello industriale, la camorra è anche una forma di violenza dis-organizzata, non solo perché in essa è completamente caduto il (presunto) tabù dell’omicidio, ma perché al suo vertice non esiste, come nella mafia, una cupola riconosciuta da tutti i sottocapi in grado di tirare le fila dell’organizzazione (lo stesso Cutolo, elaborando vecchi riti d’accesso, provò a creare una tale cupola, ma fu sconfitto dalla Nuova famiglia: cfr. sempre G. Marrazzo, Il camorrista. Vita segreta di don Raffaele Cutolo, cit.). Il campo camorristico si è quindi sviluppato negli ultimi decenni come una specie di anarchia orizzontale caratterizzata da sanguinose e periodiche guerre interne, che, rifiutando il verticalismo gerarchico della mafia, integra anche la delinquenza comune e cresce in modo quasi virale: una rete imprenditoriale onnivora, un ‘sistema’ acefalo (Saviano) i cui sottocapi sono spesso donne (a partire dalle ‘storiche’ Pupetta Maresca o Rosetta Cutolo) o ventenni destinati a morire giovani. Costoro rappresentano insomma il perfetto complemento criminale e destinale di Cutolo, che sta passando quasi tutta la sua vita in carcere.
36 Mi riferisco al famoso Capitolo VI inedito del I librodel Capitale, Risultati del processo di produzione immediato, in cui Marx introduce la categoria di sussunzione del lavoro al capitale, distinguendo tra sussunzione formale (che si applica cioè ad un’organizzazione del lavoro già esistente, pre-capitalistica) e sussunzione reale, che determina, in senso kantiano più che hegeliano, l’organizzazione e i ritmi della produzione: cfr. K. Marx Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 125 e sg.
37 Si pensi al traffico e allo smaltimento dei rifiuti tossici (provenienti dal Nord Italia e dal Nord Europa) in Campania, da parte della camorra e delle frange politiche con essa conniventi. A coloro che lo gestiscono, l’euforia dell’enorme guadagno immediato ha impedito e impedisce di comprendere la portata temporale di ciò che hanno innescato: l’inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’aria che in forma di epidemia tumorale può colpire gli stessi camorristi e, in futuro, i loro figli – si tratta di una completa ignoranza e mancanza di controllo del fattore tempo.
38 Il denaro infatti non permette al Dasein (l’Esserci) la decisione anticipatrice che Heidegger legava all’essere-per-la-morte, ma fa piuttosto oscuramente coincidere la dimensione comunitaria, storica (Geschick) e quella meramente individuale (Schicksal) del destino, che Heidegger tendeva a distinguere: cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1969, pp. 550 e sg.
39 Cfr. E. Ciconte, F. Forgione, I. Sales, Atlante delle mafie, vol. I: storia, economia, società, cultura, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.
40 L’attore casertano era reduce da altre due superbe prove in altrettante atipiche crime stories italiane: il giallo La ragazza del lago di Andrea Molajoli (2007) e il lancinante Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino (2004), oltre al celebratissimo Gomorra di Matteo Garrone (2008).
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