Da Kainos due riflessioni dedicate alla forma che il disagio psichico assume nel tardo capitalismo: quella della stupidità. I testi delineano una crisi del processo di soggettivazione (o costruzione del sé) che impedisce agli individui di entrare in relazione significativa con se stessi e con il mondo. Se il secolo della psicanalisi è stato quello della nevrosi, il nostro tempo è quello della psicosi, un disturbo che, bloccando il passaggio dall’immaginario al simbolico, impedisce l’accesso a sé, alla comprensione del significato, alla lettura della realtà.
Recensioni di Elena de Conciliis, Pensami stupido! La filosofia come terapia dell’idiozia, Mimesi, 2008; e Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicanalitica, Raffaello Cortina, 2010.
Eleonora del Conciliis su Pensami stupido!
Pensare è comparare: nella cultura occidentale, l’intelligenza filosofica ha potuto esercitare il suo fascino ed affermarsi come lussuosa forma di superiorità individuale, solo attraverso un continuo ma inconfessabile confronto con il suo più debole termine di paragone: la stupidità [un richiamo, in effetti, esplicito in molti passaggi filosofici, in Eraclito, ad esempio, uno dei primi a parlare di “idiotismo” nel senso greco di “chiuso nel proprio particolare, privato”, o in Aristotele che nel De anima e nelle etiche spiega come si diventi uomini – cioè come si diventa ciò che si é -, sviluppando l’anima sensibile e l’anima razionale. Nota mia]. Quest’oggetto necessario, benchè nascosto, disprezzato o addirittura temuto dal pensiero, ha tuttavia una vita storica: se ne può fare la genealogia. Perciò il compito della filosofia, una volta denunciata senza ipocrisie la propria impura origine comparativa, consiste nel comprendere le trasformazioni epocali, le nuove metamorfosi della stupidità: se da un lato essa appare sempre più diffusa nella popolazione dell’Occidente come una specie di demenza senile, dall’altro ha assunto i tratti consumistici, mediocri e volgari dell’infantilismo di massa. Pericolosamente sottovalutati sia dalla politica che dagli ambienti accademici, oggi questi caratteri morbosi rischiano di colonizzare – di inebetire – proprio quelle forme di superiorità intellettuale che nel moderno li hanno usati come termine di confronto per la loro egemonia: il potere e la cultura. Di fronte a tale inquietante contaminazione, che sembra indicare una regressione involutiva di homo sapiens, soltanto la filosofia, pur trovandosi anch’essa assediata dalla stupidità, può forse giocare il ruolo, tutto femminile, di critica del potere e della cultura, diventando così un’ironica terapia dell’idiozia.
Con questo primo percorso intendo inaugurare sul neonato portale di Kainos un nuovo spazio di ricerca e di dialogo con i lettori e gli studiosi che vorranno intervenire, dedicato alle forme che nell’Occidente moderno (ma non solo) ha assunto e sta assumendo il processo di soggettivazione, definito anche, in sede antropologica, ‘processo di ominazione’ (cfr. sprt. L. Bolk, Il problema dell’ominazione, DeriveApprodi, Roma 2006), ed inteso come il processo in virtù del quale ogni cucciolo di uomo, uscendo dalla sua muta animalità ed entrando nel linguaggio, ossia compiendo ontogeneticamente il salto dalla natura alla cultura, diventa soggetto, singolarità, individuo con un volto unico ed inconfondibile, con una propria identità più o meno stabile, pur se scomponibile e riconducibile a fattori genetici, ambientali, sociali, ecc.
L’interesse per questo tema, che si snoda a cavallo tra filosofia e storia dei sistemi di pensiero (ciò che Michel Foucault insegnava al Collège de France), antropologia ed etnologia, sociologia e psicologia o psicoanalisi, deriva dall’esigenza di offrire ai lettori di Kainos una mappatura adeguata ed esauriente, sebbene non specialistica, dei numerosi livelli di senso che ha dischiuso e dischiude il divenire-individui nella nostra civiltà, ovvero, in particolare, nell’Occidente moderno e post-moderno: nessuno di noi, tantomeno il filosofo e lo studioso, può esimersi dalla fatica di diventare-soggetto, correndo tutti i rischi che questo irreversibile percorso comporta, poichè esso finisce col coincidere con ciò che comunemente chiamiamo ‘vita’, nella sua irripetibile unicità. La dimensione affettiva, psico-sociale della soggettivazione, che esamineremo insieme, è stata tuttavia sovrastata, nella scelta di un primo nucleo di problemi da discutere, dagli altrettanto numerosi segnali che il presente ci offre, relativi ad un’inquietante de-soggettivazione dell’uomo occidentale, ad un suo più o meno palese indebolimento psichico ed esistenziale, che si accompagna sempre all’insorgenza ormai epidemica di forme psicotiche di comportamento (essendo stata la nevrosi una forma di disagio tipica, piuttosto, dei due secoli passati), e ad una ormai macroscopica incapacità di temporalizzare la propria individualità (cfr. su ciò sprt. i testi di Z. Bauman: Il disagio della postmodernità, La società individualizzata, Modernità liquida, Amore liquido, Vite di scarto, ecc.), cioè, in termini assai banali, di darle un senso; in termini lacaniani, di farla accedere dal registro semi-afasico dell’immaginario a quello, linguisticamente strutturato e dunque propriamente soggettivo, del simbolico. Ho tradotto tale emergenza del pensiero, che già Deleuze aveva da par suo segnalato in Differenza e ripetizione (dove parlava con seria ironia di “genitalità del pensiero”), con la sigla formal-trascendentale di stupidità, che però qui assumerà anche un altro risvolto semantico-processuale, quello di istupidimento.
I termini del problema
Se infatti andiamo a dare uno sguardo ai testi (v. bibliografia, infra) che sia i secoli trascorsi quanto gli ultimi decenni hanno prodotto sul complesso fenomeno della stupidità (nella sua elastica ed equivoca relazione con l’idiozia, l’imbecillità, la demenza, la follia, ecc.), ci accorgeremo che esistono in merito due diverse, sebbene non opposte direttrici di pensiero:
1) la strada propriamente filosofica (in particolare strutturalista o post-strutturalista), che considera la stupidità un fenomeno trascendentale, dunque come il rovescio-limite dell’intelligenza umana, ed è stata tracciata, oltre che dallo stesso Deleuze e da alcuni grandi scrittori del XIX secolo (che hanno descritto la stupidità ‘colta’, ad es. quella di Bouvard e Pécuchet o dell’idiota di Dostoevskij), sopratttutto da psicologi e decostruzionisti;
2) la strada sociologico-processuale, che è quella che io stessa ho cercato di percorrere sulle orme di ben più illustri predecessori (da Musil ad Adorno a Enzensberger), per la quale invece la stupidità, come prodotto di specifiche relazioni di potere-sapere, dunque come fenomeno sociale e genealogico, inquieta la filosofia proprio perchè ha un indice storico-politico e subisce delle significative mutazioni epocali.
La tesi che porterò avanti nella nostra discussione on line è dunque la seguente: non solo la stupidità contemporanea, prodotta dal tardo capitalismo, dalla cosiddetta postmodernità, è qualcosa di completamente nuovo rispetto a quella osservata da Flaubert e dallo stesso Marx, o a quella santificata da Dostoevskij ne L’idiota; ma, nella sua pervasività occulta, essa costituisce per la prima volta una seria minaccia per l’intelligenza occidentale, e forse addirittura tout court per l’intelletto umano1.
Di questa seconda declinazione del fenomeno, da molti descritto come patetico rimpicciolimento e/o mediocrizzazione della soggettività, costituisce una testimonianza lucida (e ben più autorevole della mia) un passo tratto da un tardo scritto di Jean Baudrillard, recentemente pubblicato in Italia (L’agonia del potere, Mimesis, Milano 2009, pp. 40-41), che potrebbe fungere da provocatorio esergo al nostro percorso:
La banalità è il vero porno di oggi. La stupidità dei reality, espressione di se stessi come ultima forma della confessione di cui parlava Foucault, […] corrisponde al diritto (e al desiderio) imprescrittibile di non essere Nulla e di essere guardati in quanto tali. Ci sono due maniere di scomparire: o si esige di non essere visti (è la problematica attuale del diritto all’immagine), o si cade nell’esisbizionismo delirante della propria nullità.
La nostra civiltà dell’immagine, caratterizzata da un patologico dominio (o, che è lo stesso, da una ossessiva tutela) dell’immaginario che sbarra l’accesso al simbolico, mostra una nuova tendenza alla superfluità del pensiero, quindi all’atrofia della soggettivazione come referente processuale del pensiero stesso: per Baudrillard, nella digitalizzazione artificiale del pensiero, come dell’immagine, c’è qualcosa che “rende manifesta tanto la perfezione di entrambe come la loro assoluta negazione. […] Congiura perfetta del reale (considerato come la malattia infantile dell’intelligenza giunta al suo stadio supremo, quello dell’intelligenza artificiale), congiura perfetta dell’immagine (considerata come la malattia infantile della rappresentazione).” (L’agonia del potere, p. 45)
Il reale, criminalmente perfezionato, ovvero iper-realizzato sia dalle immagini che dall’intelligenza informatica, perde la sua stessa perdibilità strutturale, ossia, sempre per usare dei termini lacaniani, la possibilità di essere barrato dal significante, e facendo regredire il parlante ad uno stadio anteriore a quello dello specchio, lo fa scivolare verso una fase letteralmente in-fantile, pre- o infra-linguistica, che, come tale, è facile preda dell’idiozia e/o della schizofrenia. Del resto lo stesso Baudrillard, nel suo capolavoro Lo scambio simbolico e la morte (1976, trad. it. Feltrinelli, Milano 2002, p. 150), aveva profetizzato che le nostre società, di solito considerate nevrotiche (per cui il moderno ha pagato la Kultur e la soggettivazione con il disagio: è l’ipotesi freudiana), sono ormai sul punto di diventare psicotiche, cioè di perdere l’accesso al simbolico (per cui l’ingresso/regresso nel postmoderno coinciderebbe con l’avvento di una nuova forma di stupidità). Resta da capire in quale misura la demenza incipiente sia il frutto di un’atrofia e/o di un’ipertrofia dell’intelligenza occidentale; se cioè le forme psicotiche di de-soggettivazione che si esibiscono e/o si nascondono nella nostra società mediatica (in tv, in internet, nelle aule parlamentari, nelle università, ecc.), siano prodotte, come mi azzardo ad ipotizzare, tanto dall’intensificazione estrema, cioè dall’eccesso di intelletto individualizzato (ipertrofia come cretinismo intellettuale, estenuazione), quanto dalla debordante auto-rappresentazione di individui ormai scaricati dalla cultura, o meglio mai plasmati dal registro del simbolico (atrofia come cretinismo dell’ignoranza, abbrutimento). In entrambi i casi, si tratta di fenomeni psico-sociali che oscillano significativamente e pericolosamente tra la stupidità e la schizofrenia: la prima funge da fondale, è il rumore di fondo della postmodernità; la seconda esplode nei comportamenti, è il grido che lacera il cicaleccio mediatico, quando ad esempio un individuo borderline manifesta all’improvviso il suo vuoto interiore, la sua insensatezza, la sua destrutturazione simbolica, il suo silenzioso delirio.
Fare sociologia della filosofia
Secondo Pascal (uno dei primi ad interessarsi alla bêtise indotta dal divertissement), la vera filosofia si prende gioco della filosofia. Allo stesso modo, per assumere un atteggiamento idoneo ad indagare il fenomeno della stupidità, è necessario prendere le distanze dalla serietà del discorso speculativo, guardandolo da una prospettiva esterna, altra, che potrebbe essere quella sociologica, e simulando la stupidità stessa, in primo luogo quella filosofica. Nella prospettiva deleuziana, infatti, nessuno può decostruire la filosofia, e la stupidità che in essa si nasconde, meglio del filosofo; tranne, si potrebbe aggiungere, il sociologo, ma a patto che sia anche filosofo.
Per stanare la stupidità nascosta nel pensiero bisogna, in altri termini, fare sociologia della filosofia; ciò permette, da un lato, di smettere di considerare il discorso filosofico in modo auto-referenziale, dall’altro di osservare nella società contemporanea le linee di sviluppo già presenti che tendono a ridicolizzare, e dunque a rendere superflua la filosofia, facendoci di fatto entrare in un’epoca post-filosofica.
C’è un film ‘demenziale’ del 2006, Idiocracy (diretto dal regista televisivo Mike Judge e malamente interpretato dall’eroe di Lost, Luke Wilson), che mi sembra particolarmente adatto ad illustrare il carattere irriverente della sociologia nei confronti della filosofia. Vi si descrive infatti, con grande abbondanza di rinvii alla situazione attuale, la possibile involuzione dell’intelligenza umana nei prossimi tre o quattro secoli: non si tratta di una narrazione fantascientifica, bensì di una narrazione fanta-sociologica, poichè viene semplicemente sviluppato il nostro presente.
I due protagonisti, il militare Joe e la squillo Rita, vengono scelti come cavie per un esperimento top secret del governo americano e ibernati. Intanto gli individui più intelligenti del pianeta smettono di riprodursi (si ricordi che già oggi negli Usa esistono associazioni childrenfree, i cui membri non fanno figli ed escludono i bambini da ogni loro attività), si blocca ogni residua parvenza di selezione naturale e nel giro di poche generazioni il Q.I. degli umani prolifici precipita verso il basso. Quando i due si risvegliano, nel 2505, la popolazione terrestre appare ormai composta esclusivamente da individui che oggi definiremmo ritardati, incapaci di ogni problem solving e terribilmente infantili. Appare cioè realizzata la tendenza che, nel film (purtroppo non nella realtà), viene consapevolmente indicata come già operante al momento in cui i vertici statunitensi decidono di sperimentare l’ibernazione (destinata agli individui migliori) su cavie prive di ogni qualità: il graduale istupidimento del genere umano. Il militare mediocre (scelto proprio per la sua mediocrità) e la prostituta (scelta per un capriccio del militare deputato all’individuazione del ‘soggetto’) si trovano così catapultati in un mondo dove la stupidità quotidiana della ordinary people è portata alle estreme conseguenze: il linguaggio si è imbarbarito al punto tale che anche il professore più togato o il più raffinato degli intellettuali si esprimono a colpi di parolacce e in gergo da strada, la televisione trasmette solo pubblicità e programmi con protagoniste donne molto poco vestite e umorismo di bassa lega, i computer sono estremamente mal programmati e commettono errori su errori, lo smaltimento dei rifiuti semplicemente non esiste e la gente vive in mezzo a montagne di pattume…
In questo scenario tanto apocalittico quanto esilarante (e terribilmente familiare), il Q.I. di Joe e Rita, peraltro esposti ad ogni sorta di disavventura dell’intelligenza, risulta incredibilmente alto; dopo aver tentato la fuga, i due vengono catturati e, scortati dalla polizia, portati alla presenza del Presidente degli Stati Uniti Camacho, campione di wrestling ed ex pornostar. Costui chiede a Joe, in quanto uomo più intelligente del mondo, di risolvere il tremendo problema della siccità e della carenza di cibo, che affligge la popolazione americana. Le colture infatti non vengono irrigate con acqua (usata solo per lo scarico dei cessi), ma con una bevanda energetica simile al Gatorade. Dopo vari, infruttuosi tentativi di argomentare razionalmente, Joe decide di convincere i ministri del fatto che lui è in grado di parlare con le piante, le quali gli hanno detto che preferiscono bere acqua e non Gatorade. Il licenziamento dei lavoratori della multinazionale che produce la bevanda e la lentezza della ri-fertilizzazione del terreno spingono però i vertici Usa a condannare Joe alla riabilitazione (cioè ad essere fatto a pezzi in diretta da macchine circensi in stile Mad Max). Egli viene salvato dalle immagini inviate in tv da Rita, che mostrano i primi germogli crescere nei campi irrigati. Joe viene così proclamato salvatore della patria nonché vicepresidente degli Stati Uniti, col compito di risolvere gli altri problemi che affliggono il mondo. Di lì a poco viene eletto Presidente.
* * *
Idiocracy dimostra in forma omeopatica, ovvero con la volgarità del kitsch, una vecchia tesi storicistica, quella della irresiduale reversibilità dell’umano che fa pendant con la sua straordinaria plasticità: se tutto è storia, anche l’intelligenza può morire, e la cosa farebbe a sua volta morire dal ridere.
A volerlo leggere ironicamente, senza presunzioni narcisistiche relative alla superiorità di homo sapiens sulle altre specie del pianeta, il presente mostra molti segni di imminente scomparsa dell’intelligenza individuale. La stupidità si fa avanti come forma collettiva, intemporalizzante ed autocompiaciuta di esistenza dell’Occidente nella sua virale (globale) invasione del pianeta, o meglio di indefinita sopravvivenza della società dei consumi, nella quale proprio l’individuo rende manifesto e dominante ciò che oggi sembra soltanto insinuarsi come un segreto rifiuto: la rinuncia alla fatica della soggettivazione – l’indebolimento della volontà di costruzione dell’intelligenza soggettiva a favore di godimenti immediati, supporti pseudo-culturali e protesi esterne di un io immaginario (cioè tecnologia del divertimento, turismo predatorio, destinalità del capitalismo, relazioni usa-e-getta, insomma tutto ciò che Zygmunt Bauman chiama, non senza un certo moralismo, ‘modernità liquida’). L’esaltazione in-finita (cioè letteralmente non finita, bulimica, destrutturata e dstrutturante) dell’individualismo ne sarebbe, in tal senso, l’inquietante promessa di morte; e la morte anoressica del soggetto (non dell’uomo foucaultiano, che invece continua ad esistere, appunto, ad infinitum) sarebbe il compimento rovesciato, ma già percepibile, dell’individualismo occidentale, a favore della stupidità tirannica dell’oggetto (la Cosa lacaniana).
Ancora una volta, è Baudrillard a cogliere la potenza ironica e fatale della stupidità, nella sua forma involuta e infantile, promossa e quindi prodotta dalla materna e meccanica (infernale) oblatività del capitalismo occidentale:
il sociale diventa mostruoso e obeso, si dilata, diventa avvolgente e protettivo, un corpo mammario, cellulare, ghiandolare, che un tempo si inorgogliva dei suoi eroi, e oggi si àncora ai suoi handicappati, ai suoi tarati, ai suoi degenerati, ai suoi debilitati, ai suoi asociali, in una gigantesca azienda di maternità terapeutica. (Le strategie fatali, trad. it. Studio Editoriale, Milano 2007, p. 53).
É stato invece Slavoj Žižek (cfr. Il godimento come fattore politico, Cortina, Milano 2000) a mostrare come l’ingiunzione infantilizzante di cui vive il consumatore (godi!), segni la fine dell’ordine simbolico dominato dall’intelligenza.
La stupidità postmoderna, in quanto immediata (realmente post-simbolica e immaginariamente rappresentata) forma di accesso al godimento, appare insomma simile ad una fatale patologia regressiva del sociale, inindagata da Freud (cfr. soprattutto Psicologia delle masse e analisi dell’Io) in quanto posta al di là delle nevrosi soggettive dell’Occidente moderno, quindi un morbo non curabile con una diagnostica e tantomeno con una terapia marxiana che mutui le sue categorie da Freud o da Lacan (come tenta di fare lo stesso Žižek). L’implosione dell’intelligenza occidentale sembra piuttosto preannunciare il sorriso dei filosofi orientali, un sorriso quasi ebete senza (più) soggettivazione come ultimo, catatonico stadio della filosofia.
In quanto ha colonizzato l’intero pianeta, Oriente compreso, il capitalismo ha ora più bisogno della stupidità; per sopravvivere alla sua stessa stupidità esso necessita di una nuova forma di idiozia che gli permetta di obbedire e far obbedire all’infinito all’ingiunzione economica di godimento; ma, con un perverso circolo vizioso, il capitalismo è in crisi proprio a causa della stupidità con cui gestisce le risorse finite di tale ingiunzione, sostenuta ad es. dall’immaginaria infinità del capitale finanziario.
In una prospettiva psico-politica, infine, l’attuale morbo della stupidità appare come il rovescio pericolosamente fascista del capitalismo: grottesco ibrido di vecchiaia e puerilità, di ingenuità infantile e demenza senile, esso contamina come una metastasi linguistica il moralismo laido ed ipocrita delle categorie ‘adulte’ con cui ancora ci sforziamo di strutturare la realtà; decomponendo il linguaggio, come fa il tempo con il ritratto nascosto di Dorian Gray, la stupidità costituisce lo specchio in cui il soggetto occidentale evita di guardarsi.
Per il dibattito
É chiaro che una posizione diagnostica di questo tipo fa scattare automaticamente quello che Pierre Bourdieu chiamerebbe ‘razzismo dell’intelligenza’: colui (o peggio colei) che, simile ad una vox clamans nel deserto, annuncia la morte dell’intelligenza (un po’ come l’uomo folle della nietzscheana Gaia scienza annunciava quella di Dio), viene immediatamente accusato di essere …stupido. Sempre per usare una terminologia cara a Bourdieu, il campo accademico, che legittima se stesso come campo d’interesse al gioco dell’intelligenza, quindi legittima tout court l’intelligenza ad essere ciò esso definisce come tale (secondo la circolarità della sociodicea dei valori), escluderà una tale posizione come presuntuosamente intelligente, perchè (mi si perdoni il gioco di parole) prende una posizione non prevista dal partage ufficiale intelligenza/stupidità. E soprattutto perchè non fornisce ricette ‘terapeutiche’ allo scardinamento dello stesso partage come relazione archetipa di potere-sapere, cioè non prevede la pars construens richiesta dall’accademia politically correct.
Il ‘campo’ dell’intelligenza presuppone la stupidità (nel senso che la sua costruzione è favorita dalla stupidità dei più), ma al tempo stesso la produce come ‘habitus’. Quello che gli riesce insopportabile da pensare, è la vendetta della stupidità come ‘habitus’ che produce a sua volta un nuovo ‘campo’, in cui l’intelligenza non ha più alcun valore, né sociale, né culturale, né politico. Se insomma la stupidità è un morbo, la terapia sta nel fatto che non c’è una terapia. Qualora infatti si indicasse una terapia, essa sarebbe consigliata paternalisticamente da coloro che, presumendo di sfuggire al morbo, ne sono in realtà i maggiori propagatori. La denuncia del millenario governo pastorale della stupidità richiede invece l’indicazione dell’emergenza irredimibile di nuove forme di demenza sociale, che non possono più essere controllate dalla tradizionale divisione della società in furbi e sciocchi, in potenti e assoggettati.
Bibliografia minima sul tema
I ‘classici’
Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, a cura di E. Garin, Serra e Riva, Milano 1984
Jean Paul, Elogio della stupidità, a cura di G. Leuzzi, Shakespeare & Company, Milano 1995
G. Flaubert, Bouvard et Pécuchet, in Id., Romanzi, racconti e teatro, Mursia , Milano 1962
Id., Dizionario dei luoghi comuni, Rizzoli, Milano 1996
F. Dostoevskij, L’idiota, Feltrinelli, Milano 1998
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, La gaia scienza, L’Anticristo (in qualunque edizione)
R. Musil, Sulla stupidità e altri scritti, a cura di R. Olmi, Mondadori, Milano 1997
P. Valery, Monsieur Teste, Studio Editoriale, Milano 1994
M. Horkheimer – T.W. Adorno, Sulla genesi della stupidità e altri scritti, La scuola di Pitagora, Napoli 2008
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino, Bologna 1971, con un’introduzione di M. Foucault (Theatrum Philosophicum), nuova ed. Cortina, Milano 1997
I contributi più recenti
AA.VV., De la bêtise et de les bêtes, numero speciale di Les temps de la réflexion, a cura di J.-B. Pontalis, Gallimard, Paris 1988 (con un testo, tra gli altri, di J.-L. Nancy)
G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 1997
AA.VV., Stupidi e idioti. Undici variazioni sul tema, a cura di F.C. Papparo e V. Frescura, Sossella, Roma 2000
D. Tarizzo, Homo insipiens. La filosofia e la sfida dell’idiozia, Franco Angeli, Milano 2004
C. M. Cipolla, Allegro ma non troppo. Le leggi fondamentali della stupidità umana, Il Mulino, Bologna 2007
P. Paolicchi, Il fattore I. Per una teoria dell’imbecillità, Felici Editore, Pisa 2007
La bêtise, une invention moderne, n. 466 di «Le magazine littéraire», Juillet-Aout 2007 (su Diderot, Flaubert, Richter, Feydeau, Musil, Deleuze, Aron, Bernhard, Goscinny)
G. Livraghi, Il potere della stupidità, Monti & Ambrosini, 2008 (disponibile anche on line)
E. de Conciliis, Pensami, stupido! La filosofia come terapia dell’idiozia, Mimesis, Milano 2008
A. Ronell, Stupidity, Utet, Torino 2009
Nota
1Per una sintetica esposizione, mi permetto di utilizzare la quarta del volume da me dedicato al problema:
Eleonora del Conciliis, Recensione a Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicanalitica “Pensare è comparare: nella cultura occidentale, l’intelligenza filosofica ha potuto esercitare il suo fascino ed affermarsi come lussuosa forma di superiorità individuale, solo attraverso un continuo ma inconfessabile confronto con il suo più debole termine di paragone: la stupidità. Quest’oggetto necessario, benchè nascosto, disprezzato o addirittura temuto dal pensiero, ha tuttavia una vita storica: se ne può fare la genealogia. Perciò il compito della filosofia, una volta denunciata senza ipocrisie la propria impura origine comparativa, consiste nel comprendere le trasformazioni epocali, le nuove metamorfosi della stupidità: se da un lato essa appare sempre più diffusa nella popolazione dell’Occidente come una specie di demenza senile, dall’altro ha assunto i tratti consumistici, mediocri e volgari dell’infantilismo di massa.Pericolosamente sottovalutati sia dalla politica che dagli ambienti accademici, oggi questi caratteri morbosi rischiano di colonizzare – di inebetire – proprio quelle forme di superiorità intellettuale che nel moderno li hanno usati come termine di confronto per la loro egemonia: il potere e la cultura.
Di fronte a tale inquietante contaminazione, che sembra indicare una regressione involutiva di homo sapiens, soltanto la filosofia, pur trovandosi anch’essa assediata dalla stupidità, può forse giocare il ruolo, tutto femminile, di critica del potere e della cultura, diventando così un’ironica terapia dell’idiozia”.(quarta di copertina di E. de Conciliis, Pensami, stupido! la filosofia come terapia dell’idiozia, Mimesis, Milano 2008).1. Non è esagerato affermare che, con questo suo nuovo libro, Massimo Recalcati (che abbiamo già avuto l’onore di ospitare nel settimo numero e poi nel terzo annuario della rivista Kainos dedicato al tema Fame/sazietà) tenti di formulare un’interpretazione complessiva, e filosoficamente assai interessante, del cosiddetto postmoderno o dell’ipermodernità – com’egli preferisce definire il nostro presente per indicarne il carattere convulso, “smarrito” e compulsivo verso il godimento d’oggetto. Si tratta di un testo in cui il riferimento, magistralmente esposto, alla pratica clinica, costituisce il pungolo imprescindibile e non solo il pretesto per un ripensamento radicale della teoria freudiana delle pulsioni e di quella lacaniana dell’inconscio come linguaggio e luogo del desiderio dell’Altro: lasciandosi inquietare dall’emergenza di inedite forme di disagio (non solo quelle che cura ormai da decenni, ovvero la bulimia e l’anoressia, ma anche altre sempre più epidemiche, come gli attacchi di panico, la depressione e gli stati-limite), ovvero dai nuovi sintomi psicotici che la società contemporanea produce in individui ormai disancorati – in termini lacaniani – da qualunque struttura significante in grado di tenere insieme Legge e desiderio, l’autore cerca di capire cosa stia diventando la psicoanalisi nell’epoca dell’evaporazione del Padre e nel vuoto lasciato dalla mancata soggettivazione compiuta in suo Nome (su ciò cfr. pp. 36 e sg.).
Nel deserto clinico di una nuova incapacità di accesso al simbolico, Recalcati disegna con preoccupazione uno scenario pulsionale che potremmo definire post-lacaniano e post-freudiano, ma non rinuncia ad utilizzare tutti gli spunti e le intuizioni che Lacan (egli stesso, in un certo senso, ‘padre ipnotico’ per i suoi allievi, cfr. p. 311) gli offre per descrivere il suo aldilà socio-politico (ad esempio incardinando la deriva psicotica del presente a ciò che Lacan chiamava “discorso del capitalista”, cfr. pp. 27-52), e soprattutto continua ad attribuire a Freud il merito di aver toccato, con la pulsione di morte, il nervo scoperto della civilizzazione (Kultur), il non-senso, per non dire l’ottusa béance da cui emerge ed a cui tende la fragile psichicità umana nel suo carattere oscuramente egoico e perciò anti-relazionale ed anti-erotico.Dal punto di vista teorico, il libro oscilla tra, da un lato, una ferma volontà di conservare l’impianto concettuale freudo-lacaniano, e con esso lo stile terapeutico (nonchè etico-politico) della talking-cure analitica, oggi massicciamente insidiata non solo dall’abuso di psicofarmaci ma anche da terapie, prima fra tutte quella cognitivo-comportamentale, più veloci e concorrenziali perchè più rispondenti alle esigenze prestazionali della società ipermoderna, e dall’altro lato la necessità di adattare la psicoanalisi a forme di de-soggettivazione che minano alla base i due pilastri fondamentali della teoria: il desiderio e l’inconscio.
Il titolo del volume di Recalcati indica infatti coraggiosamente, e senz’alcun paludamento ‘di scuola’, qual è la posta in gioco per coloro che, pur rimanedo fedeli a Freud e Lacan, non sono resi ciechi da questa fedeltà ma vedono con chiarezza il rischio di supefluità epocale corso oggi dalla psicoanalisi: se la società contemporanea, soffocando l’individuo nei gadget (realizzando cioè una gadgettizzazione della vita e con essa una regressione cinico-narcististica della soggettività: cfr. l’ironica epigrafe lacaniana e pp. 33 e sg.), fa il vuoto intorno al processo di soggettivazione ‘classico’, basato sull’articolazione dei tre registri (simbolico, immaginario e reale) e mostra l’obsolescenza della clinica della nevrosi (ancora borghesemente legata alla rimozione del desiderio imposto dalla Legge del Padre), se soprattutto viene meno la domanda di cura come domanda di sapere e/o di senso sulla propria sofferenza, allora la psicoanalisi sembra perdere il territorio su cui esercitare il proprio residuo potere della parola, la propria residua presa sulla realtà, trovandosi di fronte allo svaporamento socio-culturale, più che del Padre edipico, delle due irrinunciabili invenzioni teoriche su cui Freud ha costruito l’intera economia dell’apparato psichico: 1) il desiderio, inteso non tanto come energia pulsionale inconscia (rivalutata da Deleuze nel ’68 in chiave anti-freudiana) quanto come singolarità irriducibilmente differenziata capace di innescare la soggettivazione rispetto all’Altro, e 2) l’inconscio, inteso non tanto come “strapotere dell’Es”, magma o serbatoio pulsionale, quanto piuttosto come risultato del meccanismo di rimozione e a sua volta luogo del desiderio dell’Altro, in una soggettivazione linguisticamente strutturata.
L’uomo senza inconscio, la nuova figura ipermoderna che emerge dal difficile trattamento di anoressie, bulimie, attacchi di panico, depressioni, stati borderline e “identificazioni solide” a massa (cioè conformismo gregario tipico di quello che Recalcati giustamente definisce “totalitarismo postideologico”: il nostro attuale totalitarismo soft),è la figura di un individuo – non di un soggetto – che non ha più alcun interesse alla cura analitica (definita non a caso da un paziente dell’autore “aria fritta”, cfr. p. 146) come lento processo di auto-esplorazione (secondo il motto freudiano Wo Es war, soll Ich werden), un individuo che non rivolge all’Altro nessuna domanda di senso sulla propria sofferenza, ma, come acutamente rileva lo stesso Recalcati, satura proprio col sintomo psicotico la mancanza di articolazione linguistica della domanda, il cronico e mortifero senso di vuoto che traduce l’assenza di un processo di soggettivazione, dunque l’inesistenza, o meglio la nuova insensatezza del desiderio inconscio.
Questo individuo, a giudizio di chi scrive fondamentalmente stupido, è il protagonista di quelle che la Kestemberg chiama ‘psicosi fredde’ (cfr. E. Kestemberg, La psychose froide, Paris 2001), nelle quali cioè non vi è un dispendioso e temerario delirio che (come accadeva al Presidente Schreber) isola dalla realtà sociale, ma un comportamento coattivo che aderisce perfettamente all’imperativo ottuso di godimento che questa realtà impone: il comando ‘Godi!’ (su ciò cfr. anche l’altro lacaniano, innominato da Recalcati ma a mio avviso spettralmente presente nel suo discorso: S. Žižek, Il godimento come fattore politico, Milano 2000) innerva sia la condotta mortale dell’anoressico-bulimica, sia la sex addiction del borderline, sia la dipendenza euforica del cocainomane, sia, infine, la strategia furbesca del leader che non incarna più il Padre, nemmeno nella sua caricaturale e paranoica versione totalitaria (Hitler e Stalin), ma rispecchia ormai senza residui la stessa ottusità e inconsistenza psichica dell’elettore-consumatore.
Il riguardo etico per il paziente, la deontologia del clinico, la comprensibile preoccupazione di dover realizzare una politica sociale dell’analisi in grado di frenare l’emorragia dell’utenza che fugge (stupidamente, appunto) verso forme di terapia usa-e-getta – cioè verso una gadgettizzazione della cura di cui il sociologo Alessandro Dal Lago ha di recente fotograto lo scimmiottamento filosofico nella moda del counseling: cfr. A. Dal Lago, Il business del pensiero, Roma 2007 – impediscono forse a Recalcati di sferrare fino in fondo il suo attacco critico alla società ipermoderna, traendo tutte le conseguenze implicite nella sua lucidissima diagnosi relativa allo svaporamento dell’inconscio desiderante; prelevando alcune tracce da un testo che appare malinconicamente legato al desiderio di “difendere il soggetto dell’inconscio” (cfr. 275), proverò quindi in queste pagine a porre allo stesso Recalcati alcune questioni teoriche e politiche che il libro suscita ma lascia inevase, se è vero che una recensione non ha solo il compito di invitare alla lettura (cosa che raccomandiamo soprattutto in virtù dello straordinario background speculativo adoperato dall’autore), ma anche lo scopo di dialogare a distanza con chi, scrivendo, obbliga il lettore a ragionare su ciò che vive, svegliandolo kantianamente da ogni sonno dogmatico, e benjaminianamente da ogni spettacolo onirico o fantasmagoria della merce.2.
Nell’Introduzione, Recalcati riconosce con Lacan lo statuto non ontologico e non garantito dell’inconscio (cfr. p. IX), ma per attribuirgli, sempre con Lacan, uno statuto “etico” e non per consegnarlo alla sua radicale consistenza storica, restituendo così quest’invenzione teorica di Freud alla sua genealogia processuale, ovvero legando l’inconscio esclusivamente alla civiltà occidentale come suo prodotto specifico, e per di più caratteristico di una specifica classe sociale, la borghesia – l’unica in grado di ripiegarsi su di sè per formulare allo psicoanalista, che in termini nietzscheano-foucaultiani rappresenta una moderna figura pastorale, la domanda di sapere sulla propria sofferenza psichica. Nel constatare con allarme una possibile “estinzione del soggetto dell’inconscio” (ibidem), dunque dello psiconanalista come Altro sacerdotale, destinatario di tale soggetto nel medio del setting, che sempre in termini foucaultiani rappresenta una variante della confessione cristiana (per tutto ciò cfr. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano 1993), Recalcati ipotizza che tale estinzione possa essere solo un’eclissi temporanea, e non il risultato inevitabile dello stesso processo genealogico che ha visto la comparsa del soggetto dell’analisi, proprio grazie al partage conscio/inconscio (non dissimile dal partage cartesiano ragione/follia istituito dalla filosofia moderna come pratica paranoica di separazione dall’Altro).
Se l’inconscio, pur essendo parte di una struttura significante, non è l’Essere, esso non esiste al di qua o al di sotto della sua produzione economico-linguistica, ma si configura soltanto come contenuto rimosso, luogo metaforico o risposta ad un’interrogazione di senso relativa ad un ben determinato periodo storico e ad una ben determinata organizzazione psico-sociale: il capitalismo moderno, così com’è stato descritto da Marx, Weber e ovviamente dal Freud del Disagio della civiltà. In questa ottica, anche i tre registri lacaniani non sono affatto eterni, ma rispondono ad un preciso funzionamento psichico, che attribuiva la sovranità disciplinare sull’individuo al simbolico e al linguaggio – in una parola, alla cultura – in cui rendeva possibile articolare la domanda-offerta di senso.Con il tramonto del pastorato psicoanalitico, l’“individualismo atomizzato” (p. XI), compulsivo e cinico-narcisistico della società ipermoderna, che rende vetusto o addirittura liquida il meccanismo della rimozione (oggi nessuno sembra rimuovere più nulla: l’ipervisibilità mediatica coincide con l’assenza di qualunque censura psichica), mostra con inequivocabile chiarezza la superfluità di un livello inconscio da indicare come terminus ad quem al di sotto della volatilizzazione dell’esperienza e dell’accelerazione maniacale del tempo (cfr. p. XII), caratteristiche della nuova clinica della psicosi e dell’anti-amore (cfr. XIII). In questa clinica completamente desertificata e priva di identità soggettive ‘forti’, con cui Recalcati fa i conti nella sua pratica terapeutica soprattutto attraverso l’enorme difficoltà di stabilire il transfert (cfr. pp. 285 e sg.), l’inconscio non svolge più alcuna funzione “sovversiva”, ma soltanto una mortifera, direi ironica funzione “dissipativa” (cfr. su ciò pp. 292-94): il già diagnosticato indebolimento patologico del vecchio soggetto borghese lascia il posto a individualità apatiche (molto peggio che depresse), non più animate dal presunto “indistruttibile” (p. 5) desiderio nevrotico, ma dominate da nuove forme di psicosi più o meno compatibili con la struttura sociale del turbo-capitalismo; sono queste individualità, che oscillano tra la liquida “sregolatezza pulsionale” del borderline (agito coattivamente da un “Es senza inconscio”, p. XV) e la s(t)olida “iperidentificazione conformistica” o “normotetica” del nuovo gregge plasmato da un altro grande pastorato, quello mediatico (formato da tanti piccoli “Io senza inconscio”, ibidem), ad essere le nuove, inconsapevoli vittime della pulsione di morte.
L’unico, letterale in-conscio che questi individui mostrano di possedere è quello dell’ignoranza su di sè e sulle cause remote della sofferenza che infliggono, oltre che a se stessi, a coloro che li circondano.È per questo che, nelle pagine di Recalcati, il fantasma di Freud ritorna più attuale che mai ad illuminare il fondo oscuro e melmoso della storia: laddove la merce ha colonizzato il desiderio, demitizzandolo con la sua iper-realtà e trasformandolo in squallido, ripetitivo godimento d’oggetto (col quale va indicato non solo il partner non-umano asessuato, sia esso droga o computer, ma anche il partner umano serializzato, ridotto a catena metonimica di un significante inesistente), laddove l’impoverimento del linguaggio ha ridicolizzato ma non abolito la forma vuota dell’istanza edipica (che Recalcati giustamente stigmatizza come “rigurgito” dei vari fondamentalismi teo-con), laddove la scelta anoressico-bulimica alza di fronte all’Altro il muro osceno del corpo magro (icona cadaverica del presente), l’opacità del Todestrieb sembra essere l’unica risposta terribilmente ironica, benchè olofrastica e monadica, che questi individui-mai-stati-soggettiripetono all’infinito all’indirizzo dello psicoanalista, il quale però cerca con tutti i mezzi linguistici a sua disposizione di arginare il “collasso del simbolico” (p. 16), di riavviare la soggettivazione e di rimettere in moto il processo o la costruzione di un apparato psichico sufficientemente ‘sensato’, non più attraverso la vecchia “ortopedia disciplinare dell’Io” (cfr. XVI), ma almeno grazie alla “testimonianza” di un Altro che funga da interlocutore etico del paziente (su ciò cfr. le vibranti pagine 42-44).
Ora, la questione è la seguente: siamo sicuri che sia possibile opporre, a questa deriva storica e psicotica della soggettivazione che lo stesso Recalcati definisce “mutazione antropologica” (p. 6), una batteria concettuale etico-terapeutica plasmata in un’epoca di grande vigore psichico del soggetto, quando cioè la nevrosi costituiva ancora un ragionevole prezzo libidico pagato alla società civile, e questa, ancora lungi dal configurarsi come un ipermercato subculturale delle pseudo-identità, offriva a coloro che effettuavano il sacrificio pulsionale (=la sublimazione) dei potenti e affascinanti percorsi di soggettivazione politici, culturali, esistenziali, ecc.? Il carattere sempre più marcusianamente desublimato e bionianamente infra-temporale (cfr. pp. 7-9) dell’individuo contemporaneo, dell’afasico uomo senza inconscio e quindi senza pensiero, non impone forse di ri-disegnarne l’apparato psichico con categorie più povere, dunque più adeguate alla miseria della realtà? Ad esempio, l’espressione “clinica del vuoto” (cfr. pp. 11 e sg e M. Recalcati, Clinica del vuoto: anoressie, dipendenze e psicosi, Milano 2002), con cui Recalcati ha così efficacemente etichettato la propria recente pratica analitica, insistendo sulla presenza, nei pazienti, dei gesti complementari ed elementari (infantilmente narcisistici) dell’odio e della difesa, presuppone che ci sia ancora una domanda di cura indirizzabile verso il sapere e non verso il consumo di farmaci, cioè verso la guarigione immediata come semplice scomparsa del disturbo, e soprattutto che tale domanda sia recepita da una clinica dell’ascolto e non del profitto. Recalcati in altre parole non sembra ipotizzare che la mutazione antropologica, proprio in quanto frutto di una “metamorfosi sociale” (p. 12) possa investire alla lunga anche il terapeuta, oltre che il paziente. Allo stesso modo il fondo psicotico dei nuovi sintomi, proprio in quanto ‘fondo’ microfisico e non forma conclamata, macrofenomeno, non è affatto relegato o ristretto ad una minoranza malata, ma tende ad investire epidemicamente l’intera società e quindi a penetrare in maniera subdola in tutti i settori della medesima: politica, cultura, sapere accademico, ecc.
Il mutismo compiaciuto dei pazienti postmoderni (non solo la falsa euforia delle anoressiche e dei borderline, ma anche la triste “alopecia della parola” nascosta nella somatizzazione – su cui cfr. le belle pp. 263-273 –, la desolazione dei depressi e l’angoscia di coloro che vengono presi dal panico) sembra fare segno verso un irreversibile sprofondamento del simbolico, e con esso della stessa traducibilità della sofferenza psichica in un linguaggio condiviso e condivisibile, un linguaggio duale oltre che plurale, cioè affettivamente oltre che politicamente strutturato. La paura di godere e di soffrire dell’altro e con l’altro (l’altro reale, non il filtro significante del desiderio dell’Altro) isola questi individui in un godimento tanto solipsistico quanto mortifero, ma soprattutto li espone ad una nuova forma di fragilità psichica ormai ben visibile negli adolescenti (chi scrive insegna da tredici anni), che tende a lambire con sempre maggiore pervasività anche il mondo degli adulti, in conseguenza della precarizzazione e della ‘liquidità’ descritte da Zygmunt Bauman: l’esperienza del legame (non dell’amore, che lacanianamente resta un ideale inautentico e una sorta di narcisismo mascherato: su ciò cfr. il famoso Seminario VII) è vissuta come un’esperienza di soffocamento e di limitazione della libertà personale (libertà, si diceva, di godimento compulsivo dell’oggetto serializzato in catena metonimica), al punto che ogni forma di temporalizzazione che ecceda il consumo immediato dell’altro – in termini kierkergaardiani: ogni scelta – si rovescia per l’individuo in una fonte di frustrazione e di insoddisfazione.
Non si comprende come, in tale situazione, l’analista possa far risorgere nell’individuo la potenza soggettivante del senso, più che del desiderio, come possa inoculargli in forma dolcemente terapeutica (e non processuale, pedagogica, politica) la forza necessaria ad esistere autonomamente come essere finito e mortale, senza porsi sotto l’ombrello di un qualunque pastorato, cristallizzandosi nella comoda nicchia di una identificazione gregaria.3. Il problema della crisi, o meglio della estenuazione postmoderna del processo di soggettivazione come indebolimento-inebetimento epocale dell’umano, non è, a giudizio di chi scrive, un problema terapeutico, etico-psicoanalitico, traducibile in termini di eclissi del desiderio ed estinzione dell’inconscio, ma un problema socio-politico che investe, in termini foucaultiani, l’esercizio del potere-sapere in forme pastorali inedite e mediocrizzate. L’opportuno riferimento di Recalcati alla biopolitica (in particolare ai corsi foucaultiani al Collège de France nei quali la difesa ossessiva della vita – cioè il paradigma di immunizzazione teorizzato di recente anche da R. Esposito – viene indicata come virus d’appoggio della pulsione di morte) dev’essere dunque orientato verso una comprensione del lato ottusamente irredimibile della ‘popolazione’, ossia della massa di individui che, proprio in quanto individualmente socializzati, godono nel non soggettivarsi, rivolgendo una mediocre domanda di cura ad un’élite medica che finisce col colludere con la loro stessa fragilità psichica.In altre, più nietzscheane parole, la psicoanalisi, coi suoi tempi lunghi e con la sua dura, virile insistenza sull’impossibilità di una guarigione, appartiene ad una dimensione ancora aristocraticamente borghese della soggettivazione moderna, laddove il post- o ipermoderno sembra aver inaugurato una dimensione grottescamente ebete e volgare del godimento d’oggetto: il conservatore Lacan e l’intellettuale Adorno (come ricorda l’autore, fu lui ad intuire, in Minima moralia, l’idiozia della “monade di godimento”: cfr. pp. 200-201) concordavano nel considerare terribilmente kitsch il volto ‘popolare’ assunto dal capitalismo dopo la seconda guerra mondiale e il boom economico.
Ecco perchè allo psicoanalista non resta che deplorare, con un certo moralismo, “l’ideologia ipermoderna del benessere” (cfr. pp. 53 e sg.); egli non può che registrare l’incapacità, da parte dell’individuo ipermoderno, di dare “valore alla parola” (cfr. pp. 146 e sg.), cioè di assumere responsabilmente e criticamente (intelligentemente) la propria differenza singolare – il proprio desiderio di esistere come unico, der Einzelne –, ripiegando su sintomi psicotici socialmente governabili ed economicamente profittevoli (si pensi ai giganteschi guadagni dell’industra farmaceutica grazie all’abuso dei medicinali prescritti e consumati come gadget psichici). Questa incapacità sempre più diffusa di storicizzare se stessi – i propri legami, la propria sessualità, ecc. –, cioè di gestire il tempo, non è politicamente neutra, ma funzionale ad un’organizzazione infantile ed infantilizzante della società, in cui persino la pulsione di morte entra, ad esempio come spettacolo, nel meccanismo inanalizzabile del godimento.In una simile situazione psicotica di insufficienza mentale (“debilità” la chiamava Lacan coniando il concetto di “olofrase”, cfr. cit. a p. 150) degli (im)pazienti, bisognerebbe forse smettere di mitizzare le possibilità resistenziali del desiderio e di avere per loro quella vecchia, amorevole preoccupazione del supposto-sapere, che porta appunto narcisisticamente a supporre un soggetto nascosto, e in attesa, nel vuoto linguistico del sintomo; l’impossibilità, da parte di questi individui naiv o new age (cfr. p. 322), di rimanere soggettivamente fedeli al proprio desiderio, deriva dal fatto che non c’è più in essi alcun desiderio. Si tratta di ‘persone’ che non hanno in sè alcuna soggettivazione virtuale, ma soltanto la superficiale, falsa, vile ed edonistica stupidità della maschera (su ciò cfr. le splendide pagine 177-191).
Non è dunque condivisibile l’ottimismo di Recalcati sulla possibilità etica di “produrre il soggetto”, di “ricostruire un soggetto dell’inconscio” (cfr. nota 26 a pp. 216-217) là dove non c’è mai stato: se il desiderio è stato, come del resto l’inconscio, un prodotto culturale della modernità e un correlato linguistico dell’analisi, non si vede come possa ri-prodursi in condizioni storiche di afasia psichica. Forse l’unico compito proponibile non è etico-terapeutico, cioè ripiegato sul passato, o su chi appare già devastato dalla stupidità del postmoderno, ma pedagogico-politico, cioè rivolto ad un futuro costruibile: invece di vagheggiare una nuova “alleanza del soggetto con il proprio desiderio” (p. 234), quasi rimpiangendo la vecchia clinica della nevrosi, bisognerebbe piuttosto assumere fino in fondo il carattere sacerdotale della psicoanalisi e quello altrettanto pastorale dell’iper-consumo. Se la pulsione di morte sembra aver colonizzato l’Occidente come finale ironico, nichilistico della soggettivazione, come versione grottesca e oscena della mortalità che ha sostituito la versione paranoico-delirante prodotta dai totalitarismi, non resta che lavorare con il linguaggio per produrre, a lungo termine, una nuova cultura e, grazie ad essa, individui non più assoggettati e castrati, cioè totalmente svincolati del vecchio binomio Legge-desiderio: forse al di là del pastorato non c’è il desiderio, o l’inconscio, o il Nome del Padre, e neppure la foucaultiana cura di sè (versione comunque aristocratica del soggetto), ma qualcuno che, parlando e morendo in un reale depurato da ogni ottusa tirannide d’oggetto (la Cosa-madre ovvero, per chi scrive, il mostro teorico del lacanismo), saprà fare a meno di tutti questi (ancora troppo umani perchè troppo maschili) fantasmi dell’Altro.
Radiorai 3: Edoardo Camurri commenta un articolo di New Scientist, “Fenomenologia della stupidità”: perché persone intelligenti prendono decisioni stupide? C’è un rapporto tra la crisi economica e la stupidità? Si, è la stupidità funzionale, la stupidità è funzionale al funzionamento della nostra società.
Esercitazione
1. In che cosa consiste il processo di soggettivazione o di “ominazione”, inteso come il diventare uomo del “cucciolo di uomo”?
2. Come spiega l’autrice il fatto che la società contemporanea evidenzi forme sempre più virulente di de-soggettivazione e in che cosa consistono?
3. In cosa la stupidità prodotta dal tardo capitalismo è completamente nuova rispetto al passato?
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