Una critica filosofico-linguistica delle derive politically correct che stanno banalizzando il femminismo e la lingua italiana. La propongo notando come l’autrice si dolga per la violenza linguistica al “maschile inclusivo”, tacendo però sull’inaridimento formale del femminismo [di cui qui] questione, a mio avviso, molto più urgente. Tratto da Micromega.
Da Presidente della Camera, Laura Boldrini ha promosso la gender equality nel linguaggio e l’uso della forma femminile per le professioni e gli incarichi istituzionali ricoperti ormai sempre più spesso da donne.
Nel luglio 2014, auspice proprio Boldrini, è stato presentato alla Camera Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano della linguista Cecilia Robustelli (consulente dell’Accademia della Crusca), una guida all’uso non sessista della lingua italiana. L’italiano corrente, vi si legge, non ha ancora preso atto della presenza delle donne nei ruoli apicali e usa ancora il maschile attribuendogli una falsa neutralità, oggi invece «la parità dei diritti passa per il riconoscimento – anche attraverso l’uso della lingua! – della differenza di genere». Via libera dunque a ministra, assessora, sindaca, architetta, ingegnera, avvocata, medica, revisora dei conti, titoli che tanta resistenza incontrano tra i parlanti italiani (mentre non a caso, scrive Robustelli, i nomi che indicano lavori comuni e più modesti, come commessa, impiegata, maestra, operaia, parrucchiera, si sono imposti senza fatica). (…)
Se però vogliamo essere il più possibile laici e obiettivi, non è sempre vero che il linguaggio corrente si rifiuti di accordare al femminile i titoli e i ruoli apicali: direttrice, deputata, senatrice, imprenditrice sono sostantivi ampiamente accettati e transitati nell’uso corrente, contrariamente a quanto afferma Robustelli: su Google, ad esempio, ci sono 3.360 ricorrenze circa della “senatrice Elena Cattaneo” contro le circa 680 della stessa col titolo di “senatore”; e la “deputata Paola Taverna” ricorre 150 volte, mentre solo 4 in veste di “deputato”. Nessun risultato, infine, per “l’imprenditore Lella Golfo”, che compare solo come “imprenditrice”. E allora, se è vero che la lingua italiana è ostaggio dell’androcentrismo, come mai dinanzi a queste femminilizzazioni del ruolo il sessismo linguistico si ritrae? Non sarà che forse gli stiamo addossando anche le colpe che non ha? A decidere della lingua e del genere grammaticale non è sempre e solo il sessismo italiota ma anche l’orecchio collettivo, una sorta di filtro fonetico che si è formato per un deposito storico di rimandi, associazioni mentali, suggestioni in base ai quali certi neologismi vengono accolti e altri vengono lasciati cadere. (…)
L’orecchio popolare ha i suoi pudori e le sue remore, le sue preferenze e idiosincrasie che possono risultare decisive per l’uso della lingua (nel 1946 il termine referendum si impose al posto di referendo, vicino a reverendo, nel timore di favorire la DC). Dalle libere associazioni che le parole formano nella nostra mente nascono autocensure e pruderie, ma anche motti di spirito, calembour e persino i capricci linguistici delle avanguardie letterarie; e questa spontaneità della parola, difettosa ma anche ingegnosa e creativa, non si può irreggimentare ope legis con le Raccomandazioni o le Guide del femminismo cruscante, che per quanto vengano presentate come miti “suggerimenti”, “proposte” o “alternative” non autoritarie e non imposte dall’alto, di fatto diventano coercitive eccome nel momento in cui qualche capo-ufficio legislativo se ne serva coi suoi sottoposti come regole per la redazione di testi ufficiali, o qualche insegnante le utilizzi come paradigma per correggere gli orali e gli scritti dei suoi studenti.
In attesa che l’uso e il dibattito sulla femminilizzazione dei nomi di ruolo operino una scrematura tra le pedanterie inutili e le simmetrie praticabili, io, nel mio piccolo, un codice di comportamento linguistico me lo sono dato. E l’ho fatto pensando che il genere femminile è solo una delle mie appartenenze e nemmeno la principale, ma semmai solo un punto di partenza, la fase di startup di un percorso autobiografico che ha incrociato identità diverse e più forti di quella del gender. E siccome la desinenza in -a ci riconoscerà pure in quanto donne, ma non dice nulla di noi come individui e combinazioni irripetibili di identità multiple e/o consecutive, ho deciso di usarla q.b., solo quando non entra in conflitto con la lingua che amo, che ha le sue ragioni, non solo grammaticali, e alla quale appartengo più fortemente che ad un astratto “genere”. Dunque la mia lingua si fletterà alla gender equality, ma non tanto da far sì che il ghenos disponga interamente di lei, trasformandola in un idioma artificiale, pianificato a tavolino come una sorta di esperanto.
Ben vengano dunque, nel mio vocabolario personale, gli agentivi in -trice, come la senatrice, l’imprenditrice ecc. (…) Ma la questora, la difensora e la recensora non posso fare a meno di immaginarmele bardate di zinale in un sonetto del Belli, tra la sora Mitirda, la sartora scartata e la mamma uscellatora. Quindi, out. Espunte dal mio vocabolario ed esiliate, assieme alla mammellata architetta, nel gabinetto degli orrori (…)
Purtroppo, però, il problema non si esaurisce qui. La questione grammaticale del cosiddetto “maschile inclusivo” è ancora più spinosa. E rischia davvero di infilare il burqa alla spontaneità e alla funzionalità del linguaggio nell’intento di sfilarlo alla desinenza in -a.
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