Durkheim, Education et sociologie, 1922. Traduzione mia dall’originale francese (a cui si riferisce la numerazione di pagina). Qui l’edizione italiana.
La società si trova […] ad ogni nuova generazione, in presenza di una tavola pressoché rasa, sulla quale deve costruire con sforzi rinnovati. Occorre che, mediante gli accorgimenti più rapidi, all’essere egoista ed asociale che viene al mondo ne venga sovrapposto un altro, capace di condurre una vita morale e sociale. Ecco qual è l’opera dell’educazione: e se ne scorge tutta la grandezza. Essa non si limita a sviluppare l’organismo individuale nella direzione indicata dalla sua natura, a rendere apparenti dei poteri nascosti che non domandavano che di manifestarsi. Essa crea nell’uomo un essere nuovo.
Émile Durkheim, Corsi sull’educazione, 1902-1911
Con i suoi corsi alla Sorbona sull’educazione, Durkheim inaugura il peculiare sguardo sociologico sul fenomeno educativo.
La sua riflessione muove, in primo luogo, dalla critica alla concezione individualistica dell’educazione che, da Stuart Mill a Kant, la interpreta come l’azione di sviluppare il potenziale individuale e di portare l’individuo alla piena umanizzazione:
Come il sociologo ricorda,
«[per Stuart Mill l’educazione comprende] tutto ciò che facciamo per noi stessi e tutto quello che gli altri fanno per noi allo scopo di avvicinarci alla perfezione della nostra natura, [mentre per Kant] lo scopo dell’educazione è di sviluppare in ogni individuo tutta la perfezione di cui è capace» [p. 4]. «Fino a non molto tempo fa, i pedagogisti moderni erano pressoché unanimemente d’accordo nel vedere nell’educazione una cosa eminentemente individuale e per fare della pedagogia, di conseguenza, un corollario immediato e diretto della sola psicologia.
Per Kant, come per Mill, per Herbart come per Spencer, l’educazione avrebbe prima di tutto per oggetto di realizzare in ogni individuo, portandolo al più alto punto di perfezione possibile, gli attributi costitutivi della specie umana in generale. Si poneva come autoevidente che vi fosse un’educazione e una sola che, ad esclusione di tutte le altre, si confà indifferentemente ad ogni uomo, quali che siano le condizioni storiche e sociali da cui dipendono, ed è questo ideale astratto e unico che i teorici dell’educazione si proponevano di determinare.
Si ammetteva che ci fosse una natura umana, le cui forme e proprietà erano determinabili una volta per tutte e che il problema pedagogico consistesse nel ricercare in quale modo l’azione educativa debba esercitarsi su una natura umana così definita. Forse, nessuno ha mai pensato che l’uomo sia immediatamente, da quando entra nella vita, tutto ciò che può e deve essere. E’ troppo evidente che l’essere umano non si costituisce che progressivamente, nel corso di un lento divenire che comincia alla nascita e termina solo con la maturità.
Ma si supponeva che questo divenire non facesse che attualizzare delle potenzialità, che mettere a punto delle energie latenti che esistevano, preformate, nell’organismo fisico e mentale del ragazzo. L’educatore non avrebbe dunque niente di essenziale da aggiungere all’opera della natura. Non creerebbe niente di nuovo» [pp. 32-33].
Non meno critico è nei confronti delle concezioni utilitaristiche dell’educazione:
«Ancora meno soddisfacente è la definizione utilitaristica secondo la quale l’educazione avrebbe per scopo di “fare dell’individuo uno strumento di felicità per se stesso e per i suoi simili” (James Mill), perché la felicità è una cosa eminentemente soggettiva che ognuno apprezza a suo modo. Una tal formula lascia dunque indeterminato lo scopo dell’educazione e per conseguenza, l’educazione stessa poiché l’abbandona all’arbitrio individuale» [p. 5].
«Tutte queste definizioni sono criticabili perché partono dal postulato che vi sia un’educazione ideale, perfetta, vera indistintamente per tutti gli uomini, ed è questa educazione universale e unica che i teorici si sforzano di definire. Ma se si considera la storia, non vi si trova niente che confermi una simile ipotesi. L’educazione è cambiata secondo i tempi e secondo i paesi. Nelle città greche e latine l’educazione formava l’individuo a sottomettersi ciecamente alla collettività, a diventare una cosa della società. Oggi si sforza di farne una personalità autonoma.
Ad Atene si cercava di formare degli spiriti delicati, smaliziati, sottili, misurati e armonici, capaci di godere il bello e le gioie della speculazione pura; a Roma si voleva prima di tutto che i ragazzi diventassero uomini d’azione, appassionati della gloria militare, indifferenti alle lettere e alle arti. Nel Medio Evo l’educazione era prima di tutto cristiana; nel Rinascimento prende un carattere più laico e più letterario; oggi la scienza tende a prendere il posto che l’arte vi occupava prima» [p.5].
«Non soltanto è la società che ha elevato un certo tipo umano alla dignità di modello che l’educatore deve sforzarsi di riprodurre, ma è ancora lei che lo costruisce e lo costruisce seguendo i suoi bisogni. Perché è un errore pensare che questo sia dato tutto intero nella costituzione naturale dell’uomo e che non ci sia che da scoprirlo con una osservazione metodica, salvo abbellirla in seguito con l’immaginazione e portando con il pensiero tutti gli aspetti che vi si trovano al più alto sviluppo. L’uomo che l’educazione deve realizzare in noi, non è l’uomo come la natura l’ha fatto, ma come la società vuole che sia; ed essa lo vuole tale a come lo reclama la sua economia interna» [p. 35].
[…] l’educazione in uso in una società determinata e considerata ad un momento determinato della sua evoluzione è un insieme di pratiche, di maniere di fare, di usi, che costituiscono dei fatti perfettamente definiti e che hanno la stessa realtà degli altri fatti sociali. Non sono, come si è creduto per lungo tempo, delle combinazioni più o meno arbitrarie ed artificiali, che non devono la loro esistenza che all’influenza capricciosa di volontà sempre contingenti. Esse, al contrario, costituiscono delle vere istituzioni sociali. Non vi è essere umano che possa far sì che una società abbia, ad un determinato momento, un altro sistema educativo che quello che è implicito nella sua struttura, alla stessa maniera nella quale è impossibile ad un organismo vivente di avere altri organi ed altre funzioni che quelli che sono impliciti nella sua costituzione.
L’educazione, dunque, non è un fenomeno universale, ma storico, che cambia col mutare della società. Svincolarsi dai condizionamenti sociali ed educare secondo principi personali non sarebbe inoltre affatto vantaggioso:
«[…] ogni società, considerata in un momento determinato del suo sviluppo, ha un sistema d’educazione che si impone agli individui con una forza generalmente irresistibile. E’ vano credere che noi possiamo allevare i nostri figli come vogliamo. Ci sono costumi ai quali siamo tenuti a conformarci: se vi deroghiamo troppo fortemente, essi si vendicheranno sui nostri figli. Questi, una volta adulti, non saranno in grado di vivere in mezzo ai loro contemporanei, coi quali non sono in armonia.
Che siano stati allevati con idee troppo arcaiche o troppo innovative, non importa, nell’un caso come nell’altro, non erano adatte al tempo e, di conseguenza, non li hanno messi nelle condizioni di vita normale. C’è dunque, in ogni momento, un tipo d’educazione regolatore da cui non possiamo allontanarci troppo senza urtare contro vive resistenze che contengono le velleità dei dissidenti. Ora, i costumi e le idee che determinano questo ideale regolatore non li abbiamo fatti noi, individualmente. Essi sono il prodotto della vita in comune e ne esprimono le necessità. Essi sono anche, per la gran parte, l’opera di generazioni anteriori. Tutto il passato dell’umanità ha contribuito a fare questo insieme di massime che dirigono l’educazione di oggi. Tutta la nostra storia vi ha lasciato delle tracce e perfino le storie dei popoli che ci hanno preceduto. E’ in questo modo che gli organismi superiori prtano in loro come l’eco di tutta l’evoluzione biologica di cui sono il compimento. Quando si studia storicamente il modo in cui si sono formati e sviluppati i sistemi di educazione, ci si accorge che essi dipendono dalla religione, dall’organizzazione politica, dal grado di sviluppo delle scienze, dallo stato dell’industria etc. Se li si distacca da tutte queste cause storiche, diventano incomprensibili. Come, può pretendere, quindi, l’individuo di ricostruire con il solo sforzo della sua riflessione privata, ciò che non è opera del pensiero individuale? Non è davanti ad una tabula rasa sulla quale può edificare ciò che vuole, ma a delle realtà esistenti che egli non può né creare, né distruggere, né trasformare di sua volontà» [p. 6].
«[…] ogni società si forma un certo ideale d’uomo, di ciò che deve essere sia dal punto di vista intellettuale, che fisico e morale […] questo ideale è, in certa misura, lo stesso per tutti i cittadini […] a partire da un certo punto si differenzia seguendo gli ambienti particolari che ogni società comprende al suo interno. E’ questo ideale, allo stesso tempo uno e diverso, che è il polo dell’educazione. Esso ha dunque per funzione di suscitare nei ragazzi un certo numero di stati fisici e mentali che 1) la società alla quale appartiene considera imprescindibili in ciascuno dei suoi membri; 2) che il gruppo sociale particolare (casta, classe, famiglia, professione) consideri ugualmente come immancabili in tutti coloro che la formano.
Così è la società nel suo insieme e qualche ambiente sociale particolare che determinano questo ideale che l’educazione realizza. La società non può vivere senza che esista tra i suoi membri una sufficiente omogeneità: l’educazione perpetua e rinforza questa omogeneità fissando in anticipo nell’anima del bambino le similitudini essenziali che la vita collettiva reclama. D’altro lato, però, senza una certa diversità, nessuna cooperazione sarebbe possibile: l’educazione assicura la persistenza di questa diversità necessaria, diversificandosi essa stessa e specializzandosi […]. L’educazione non è dunque per la società che il mezzo attraverso cui essa prepara nel cuore dei ragazzi le condizioni essenziali della propria esistenza. Vedremo più avanti come l’individuo stesso abbia interesse a sottomettersi a questa esigenza» [pp. 8-9].
«[…] l‘educazione consiste in una socializzazione sistematica della giovane generazione. In ognuno di noi, si può dire, esistono due esseri che possono essere separati solo per astrazione e non cessano nondimeno di restare distinti. Uno è fatto di tutti gli stati mentali che si rapportano solo a noi stessi e agli avvenimenti della nostra vita personale: è ciò che potremmo chiamare l’essere individuale. L’altro è un sistema di idee, di sentimenti e di abitudini che non esprimono in noi la nostra personalità, ma il gruppo o i gruppi differenti di cui facciamo parte: sono tali le credenze religiose, le credenze e le pratiche morali, le tradizioni nazionali o professionali, le opinioni collettive di ogni tipo. Il loro insieme forma l’essere sociale. Costituire un tale essere in ciascuno di noi, questo è il fine dell’educazione. […] Bisogna che nel modo più rapido, all’essere egoista e asociale che è appena nato, essa ne aggiunga un altro, capace di condurre una vita sociale e morale. Ecco qual è l’opera dell’educazione» [p. 10].
Chiamato a scegliere tra Locke e Rousseau, Durkheim si sente senza dubbio più vicino a Locke:
«Qualche volta si è opposta la libertà all’autorità, come se questi due fattori del’educazione si contraddissero e si limitassero l’un l’altro. Ma questa opposizione è fittizia. In realtà, questi due termini si implicano invece di escludersi. La libertà è figlia dell’autorità bene intesa. Perché essere liberi non significa fare ciò che ci pare, ma essere padroni di sé, agire secondo ragione e fare il proprio dovere. Ora, è proprio per dotare il ragazzo di questo controllo di sé che l’autorità del maestro deve essere impiegata. L’autorità del maestro non è che un aspetto dell’autorità del dovere e della ragione. Il ragazzo deve dunque essere esercitato a riconoscerla nella parola dell’educatore e a subirne l’ascendente ; è a questa condizione che egli saprà più tardi ritrovarla nella sua coscienza e sottomervisi» (p. 18).
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