Mario Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di dieci anni fa

by gabriella
di Emilio Carnevali
Contro la stupidità anche gli dèi sono impotenti
John M. Keynes
Nella copiosa letteratura sulla crisi fiorita negli ultimi tempi il libro di Mario Pianta – “Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa” – ha il merito di collocarsi su un angolo visuale di più ampio raggio: quali sono le cause profonde del declino italiano? Perché su di noi la crisi ha avuto conseguenze peggiori che negli altri paesi europei? Come uscirne?
La precipitosa caduta dai “cieli azzurri” berlusconiani della quale il nostro Paese è stato recentemente protagonista ha lasciato dietro di sé una scia. Le sue origini si perdono nella fantasmagoria del “nuovo miracolo italiano” promesso all’inizio del millennio dall’“imprenditore prestato alla politica” (ed evocato anche dall’allora governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio). Il suo ultimo tratto, però, è ancora ben visibile ad occhio nudo e può essere a sua volta suddiviso in segmenti più piccoli, come gradini di una discesa sempre più rapida e rovinosa: dalla negazione più risoluta della crisi siamo passati all’ormai famoso «fattore psicologico» tirato in ballo per dare ragione della vendetta che l’economia reale si stava prendendo sugli slogan politico-pubblicitari. Quando poi non è stato più possibile negare l’evidenza è cominciato il mantra della crisi che c’è, «ma noi ce la stiamo cavando meglio di tutti gli altri»; oppure della crisi che c’è, «ma il governo ha risposto senza mettere le mani nelle tasche degli italiani».Ora che quella parabola si è conclusa, almeno da un punto di vista politico, ora che volenti o nolenti siamo costretti ad un freddissimo bagno di realismo, è necessario equipaggiarsi con analisi crude, talvolta perfino angoscianti, ma sincere. E quindi utili. Una di queste è contenuta nell’ultimo libro di Mario Pianta, docente di Politica economica all’Università di Urbino e fra i fondatori della campagna “Sbilanciamoci!”, intitolato Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa. Il volume, appena pubblicato da Laterza (pp. 176, 12 euro), ha il merito di collocarsi su un angolo visuale di più ampio raggio rispetto alla copiosa letteratura sulla crisi economica fiorita negli ultimi tempi. L’Italia non ha solo reagito peggio degli altri Paesi europei nel tratto più acuto della crisi (-5,5% di flessione del Pil nel 2009 a fronte di una media nell’area euro del -4,3%); non solo affronta prospettive di recessione peggiori degli altri per il 2012 (-2,2% contro il -0,5% dell’area euro secondo le previsioni del Fmi). Ma il suo vero, gigantesco, problema consiste nel modo con il quale è entrata nella crisi, cioè nei difetti strutturali che caratterizzavano il nostro sistema produttivo ben prima che la tempesta dei mutui subprime cominciasse a soffiare da oltreoceano.

Veniamo infatti da quello che molti economisti hanno chiamato il “decennio perduto”, ovvero da una lunga fase di stagnazione dopo il 2000 con un tasso di crescita medio di appena lo 0,3% contro l’1,1% di Germania e Francia (e anche nel decennio precedente non è che le nostre performance fossero roboanti, dato che già facevamo registrare una crescita molto bassa – tasso medio dell’1,6% – molto al di sotto del resto dell’Europa). Questo sempre più rapido declino – che concretamente si traduce in meno ricchezza prodotta ma anche, conseguentemente, in minore occupazione (soprattutto per i giovani), minore sostenibilità del nostro enorme debito pubblico, minori risorse per la sanità, l’istruzione, i servizi sociali, ecc. – ha inoltre accompagnato la regressione sociale di una comunità nazionale sempre più diseguale, dove la polarizzazione dei redditi e dei patrimoni è cresciuta – questa sì – con ritmi assai sostenuti (da qui il riferimento ai “nove su dieci” che in questo decennio hanno visto peggiorare sensibilmente le proprie condizioni materiali mentre il decimo ai vertici della piramide diventava ancora più ricco).

Che cosa c’è dunque alla base del nostro declino? Innanzitutto c’è un dato, un numero impietoso: fra il 2000 e il 2009 la produttività in Italia è diminuita in media dello 0.5% l’anno; questo è il vero “miracolo” di cui siamo stati protagonisti, dal momento che si tratta di un fenomeno – come spiega Pianta – che «non ha eguali nella storia italiana passata, né in quella di altri paesi europei» (nello stesso periodo in Germania la produttività è cresciuta del 3,3% l’anno).

E quali sono i fattori capaci di spiegare un dato così sorprendente? Pianta ne individua ed analizza sostanzialmente quattro, che accenneremo in modo estremamente sintetico:

1. Una struttura produttiva debole, dominata da settori in cui risulta relativamente scarso l’impiego di conoscenza e tecnologie (cioè di lavoro qualificato e capitali). Tanto nei servizi quanto nell’industria siamo rimasti posizionati sui segmenti “tradizionali” (il commercio da una parte e l’alimentare, il tessile, le calzature, il legno, i prodotti in metallo, dall’altra)

2. Imprese troppo piccole.L’84% delle 510 imprese italiane ha meno di 9 addetti e un altro 15% ne ha tra i 10 e i 49. Insomma, il nostro tessuto produttivo è caratterizzato da una miriade di piccole imprese, con spalle spesso troppo strette e gracili per competere a livello globale e per effettuare gli investimenti che si richiedono nei settori più avanzati (anche i tanto celebrati distretti mostrano chiari segnali di affaticamento).3. Imprese più povere e padroni più ricchi. Questo è un altro dei “paradossi italiani” sui quali si concentra Pianta, ovvero la «coesistenza di alti profitti e bassi investimenti». In Italia, infatti, il rapporto fra profitti lordi delle imprese non finanziarie e il valore aggiunto è fra i più alti d’Europa. Il problema è che questi profitti non vengono reinvestiti (ad esempio per finanziare la ricerca o comprare nuovi macchinari) e i capitali escono dalle aziende prendendo la strada della speculazione immobiliare e finanziaria, magari in qualche paradiso fiscale.4. Scarsa innovazione. È una diretta conseguenza degli altri tre punti. Alla bassa propensione all’innovazione da parte dei privati (secondo l’Istat nel 2008 solo il 30% delle imprese italiane ha introdotto una innovazione di prodotto o di processo, mentre la media dell’Europa a 15 sfiora il 40%), si somma la bassissima attenzione delle autorità pubbliche agli investimenti in ricerca e sviluppo. Nel 2009 il nostro Paese ha dedicato a questa voce di spesa (pubblica e privata) l’1,26% del Pil, contro la media dell’Europa a 27 dell’1,9%, per non parlare delle irraggiungibili Germania (2,8%) e Finlandia (3,9%).

Diversamente rispetto al passato, inoltre, questi fattori di sofferenza dell’economia italiana non possono essere controbilanciati da politiche dei cambi in grado di rilanciare la competitività. L’adozione dell’euro ha reso impossibile il ricorso alla svalutazione della moneta nazionale e a livello continentale non ci sono strumenti che permettono di intervenire sugli squilibri nei conti con l’estero dei singoli Paesi (tanto di quelli in deficit come l’Italia, quanto di quelli in surplus come la Germania). È in questo perverso meccanismo che va rintracciata anche l’origine della crisi dei debiti sovrani che ha recentemente travolto la “periferia europea” e dalla quale non si riesce a venire fuori (vedi le ultime impennate dello spread fra titoli italiani e tedeschi: dopo alcune settimane di relativa calma ha nuovamente sfondato quota 400, con buona pace dei vari decreti “Salva Italia”, “Cresci Italia”, ecc.).

Ma i non lusinghieri record del nostro Paese non sono finiti. Abbiamo visto che nell’ultimo decennio la torta del reddito non è cresciuta. Come è stato accennato all’inizio, occorre aggiungere che le sue fette sono state tagliate in modo ancor più diseguale: l’accrescimento della disuguaglianza, fenomeno comune a quasi tutti i paesi europei, è stato da noi particolarmente pronunciato. Pianta cita moltissimi studi e statistiche a riguardo. Fra i tanti dati rimane impresso quello relativo allo 0,1% degli italiani più ricchi (38 mila persone): il loro reddito è pari a quello complessivo del 10% più povero della popolazione, costituito da 3 milioni e 800 mila persone. Se dal reddito si passa alla ricchezza (cioè allo stock dei patrimoni e non ai flussi annuali di reddito da lavoro o da capitale) quella posseduta da uno solo di questi super-ricchi è pari alla ricchezza detenuta da 300.000 italiani “poveri”. «Non è l’Inghilterra di Dickens, né l’America della Grande Depressione», commenta Pianta. «È l’Italia di oggi». [per approfondire, si veda l‘Indice della diseguaglianza mondiale]

L’ultima parte del libro è dedicata alle “proposte per una alternativa”. Il piano è articolato lungo due direttive. Secondo Pianta è necessario rilanciare le politiche industriali e per l’innovazione, che nella lunga stagione dell’egemonia liberista sono state considerate veri e propri tabù, mentre ogni programmazione dello sviluppo era affidata all’autoregolamentazione delle forze del mercato; contestualmente va attuata una “grande redistribuzione” della ricchezza al fine di ridurre la disuguaglianza e rilanciare i consumi e la domanda interna spostando il carico fiscale dal lavoro alle rendite e ai grandi patrimoni.

Su tutto questo pesano tuttavia le incognite di un destino che allo stato attuale non è solo nelle nostre mani. L’austerity imposta a tutta l’Europa dalla Germania di Angela Merkel non solo sta facendo sprofondare l’intero continente in una drammatica recessione, ma rischia di compromettere anche la timida ripresa che si sta affacciando negli Stati Uniti di Barack Obama.

Purtroppo, come diceva Keynes, «contro la stupidità anche gli dei sono impotenti. Ci vorrebbe il Signore. Ma dovrebbe scendere lui di persona, non mandare il Figlio; non è il momento dei bambini».

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