Carola come Antigone [vedi anche l’articolo di Raffaele Salinari per il Manifesto], nell’articolo uscito oggi, 28 giugno 2019, su Repubblica.
Funziona così: c’è un fatto, poi c’è l’uso politico di quel fatto, che lo trasforma, in una trasposizione quasi teatrale. La vera questione è che noi cittadini consumiamo questa trasformazione, non la realtà. Tutti: il dibattito politico, l’informazione, anche le istituzioni.
Figuriamoci l’elettore, che è il destinatario finale di questo accumulo d’interpretazioni e di strumentalizzazioni che si sono via via aggiunte alla vicenda originaria, deformandola.
Naturalmente è il caso della Sea-Watch, trasformata immediatamente da Salvini nel mostro di Lochness domestico dell’estate. Forse è apparso un po’ troppo presto per dominare il vuoto estivo nel calore disattento delle vacanze, riempiendolo di propaganda non politica, ma ideologica: e tuttavia la tempistica è comunque utile per deviare l’attenzione della pubblica opinione dalle liti interne al governo [….] dunque avanti tutta per ingigantire il caso Sea-Watch a dismisura, scegliendo il terreno propizio su cui passare all’attacco, mentre la realtà politica costringerebbe il governo a rimanere zitto, sula difensiva, davanti a l vuoto della sua inconcludenza.
Da solo, senza ingigantirlo in una dimensione simbolica dell’intero fatto-migrazione il fatto, com’è evidente, non riuscirebbe a reggere l’operazione politica che gli si sta costruendo intorno. La nave di una ONG tedesca ha soccorso 43 persone al largo della LIbia e ha rifiutato di riportarli da dove erano partiti, basandosi sul giudizio dell’ONU che non riconosce la Libia come porto sicuro, viste le torture, gli stupri, i campi di detenzione.
Sea-Watch è rimasta in attesa 14 giorni. Una visita medica ha disposto lo sbarco di 11 persone, tra cui donne incinte e bambini. Il ministro dell’Interno ha schierato le motovedette, negando l’autorizzazione a entrare in porto.
La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha deciso di non intervenire perché per gli altri migranti rimasti a bordo non esiste un immediato pericolo di vita e ha chiesto al governo italiano di farsi comunque carico del problema.
Arrivati al quindicesimo giorno, con le persone allo stremo delle forze, la capitana di 31 anni della nave, Carola Rackete, ha annunciato la decisione di entrare nelle acque territoriali italiane, violando le norme per una necessità impellente, in quanto non era più in grado di garantire la sicurezza sanitaria delle persone a bordo. La sua comunicazione alla Capitaneria è stata semplice:
Li porto in salvo.
A questo punto di sono realizzate tutte le condizioni dell’ideologia salviniana. Occorrevano ancora due travestimenti. Il primo per truccare la nave ONG nell’avamposto di una minaccia epocale, sospesa sul nostro paese e su tutta la civiltà europea.
Per ottenere questo risultato era necessario smaterializzare la dimensione e la portata reale della vicenda, col suo carico di 42 disperati in un mare che ha già visto 2555 sbarchi nei primi mesi di quest’anno, con circa 300 persone arrivate a Lampedusa soltanto nell’ultimo mese.
Il secondo travestimento è quello del ministro dell’interno impegnato in una funzione addirittura “sacra”: la difesa dei confini nazionali: che si tutelano in Europa, dove Salvini è assente, cambiando le norme, non chiudendo il mare.
Ma adesso si poteva mandare in scena, a reti unificate, lo scontro tra l’Italia tutta intera, rappresentata da Salvini, e la nave fantasmatica che porta con sé non persone che scappano dalla miseria e dalla violenza, ma l’incubo dell’«invasione», anzi della «sostituzione» degli immigrati africani, neri e musulmani, al posto dell’italiano bianco e cristiano.
Una nave, per di più comandata d una donna, da mettere dunque immediatamente alla berlina, perché
«crucca e figlia di papà che si sente in colpa perché bianca»,
come titolava ieri un giornale.
Secondo il Vice presidente del Consiglio
«una sbruffoncella»,«pagata da non si sa da chi e che la pagherà fino in fondo: fallo a casa tua il volontariato».
Per i migranti disprezzo:
«È iniziata la stagione». I prossimi possono andarsene in Costa azzurra oppure a Mikonos, o anche a Ibiza. Oppure vadano un po’ ad Amsterdam, un po’ a Berlino, e quel che avanza a Bruxelles. Nessuno può pensare di fare i porci comodi suoi, mi sono rotto le palle».
Per l’Europa, vendetta, con la minaccia di non identificare più i migranti che arrivano in Italia in modo da lasciarli liberi di chiedere asilo ovunque aggirando gli accordi di Dublino, e con il progetto di alzare il primo muro italiano di filo spinato con la Slovenia per impedire arrivi dai Balcani.
Con queste parole in cui non c’è un concetto, e la politica è ridotta a slogan, si inaugura l’estate della politica italiana, latitanti i Cinque Stelle, con Di Maio che esce dal letargo per attaccare come al solito le Ong di pronto soccorso, sostenendo che la Sea-Watch vuole
«farsi pubblicità», mentre Meloni nell’inseguimento sovranista a Salvini è costretta a rincarare la dose, e chiede immediatamente di
«affondare» la nave.
Ma è sbagliato pensare che la questione Sea-Watch riguardi soltanto il mondo politico, perché in realtà misura il sentimento della pubblica opinione, quindi ci chiama in causa direttamente.
Entrambi i contendenti, a capitana e il capitano, si richiamano infatti a questioni più generali, sulle quali si gioca l’egemonia del pensiero dominante, ma anche più banalmente la coscienza di un popolo, la misura della sua civiltà.
La vicenda infatti, così com’è stata radicalmente posta, divide in due il Paese, e proprio sulle categorie profonde che stanno dietro la contesa materiale. Ciò che Salvini configura (e su cui una buona parte di italiani concorda) è uno scenario di emergenza nel quale l’Italia è costretta a muoversi, in cui sono in gioco elementi primordiali e istintivi, come la sicurezza, addirittura l’incolumità, l’identità, la comunità, la nazione trasformata in sangue, lingua, fede, terra.
Da qui deriva una continua manutenzione della paura, che viene sfamata con la ferocia crescente dei toni, con la crudeltà dei giudizi, con la brutalità dei propositi: una disumanità empia che chiaramente non aumenta di un millimetro la soglia materiale di sicurezza dei cittadini, ma risponde all’ansia che questa stessa predicazione politica alimenta, in un circolo vizioso che sta diventando — questo è il punto — la cifra espressiva, di linguaggio, culturale degli italiani, nella dannazione costante della solidarietà, del volontariato, della responsabilità, elementi di un’epoca travolta dall’empito populista e sovranista.
Dall’altro lato, col suo colpo di timone per entrare legalmente in porto sfidando gli obblighi di legge, la capitana della Sea-Watch ha risposto a un obbligo che considera supremo, lo stesso che l’ha portata a incrociare le acque davanti alla Libia: salvare vite umane, soccorrere i disperati, tentare di dar loro un approdo, un rifugio e quindi una speranza di futuro.
In questo modo, paradossalmente, Carola Rackete ha compiuto un gesto di legalità, come dice Saviano, perché ha ubbidito a una legittimazione superiore a quella delle norme invocate da Salvini, che oggi chiede per lei l’arresto. Potremmo dire che la questione legale si contrappone alla questione morale, a Lampedusa: e in questo caso, pur avendo rispetto per le leggi, si ubbidisce alla propria coscienza.
Ma cosa succede quando la questione morale non corrisponde al sentire comune, è sfasata rispetto al sentimento dell’epoca, è in minoranza nella coscienza collettiva? Quando l’imperativo etico non viene riconosciuto come universale, e diventa una testimonianza individuale, circondata dall’indifferenza o dal cinismo?
Questa è la domanda che esce dalla contesa diretta, e interpella tutti noi. Siamo diventati ottusi rispetto al principio di cui è pervasa tutta la nostra Costituzione, cioè la dignità della persona, all’idea che l’essere umano in quanto tale è titolare di diritti inviolabili, cioè di diritti “naturali” e dunque ha il potere morale di pretendere che vengano soddisfatti e rispettati.
Ci siamo scordati che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo vede nel riconoscimento della dignità delle persone il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo. Non siamo all’altezza delle norme che abbiamo scritto noi stessi, nel tentativo di migliorare la nostra vita, perché ci proteggessero nei momenti difficili.
Oggi ci siamo, e crediamo di poter fare a meno di una legge superiore, di poter cancellare il sentimento del limite, la nozione degli obblighi: come se in quest’epoca sfortunata la convenienza dovesse sempre prevalere sulla coscienza.
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