Da Haecceit@s.
Il dibattito, che oggi si struttura intorno ad un Manifesto[2] affonda le proprie radici nella “svolta post-ermeneutica” di Maurizio Ferraris avvenuta ormai più di un decennio fa quando, riprendendo e sviluppando le analisi realistiche di Paolo Bozzi[3], decise di criticare il soggettivismo e il relativismo dell’ermeneutica a favore di un più rassicurante realismo che riconosce nella realtà esterna il mondo quale è –per essenza diremmo- al di là delle interpretazioni attraverso le quali lo denotiamo di senso[4].
Il Realismo classico della filosofia, quello di Anselmo d’Aosta e di Guglielmo di Champeaux[5], anche nella versione moderata di Tommaso d’Aquino, prevede l’esistenza di una realtà esterna al soggetto conoscente indipendente dal processo conoscitivo del soggetto stesso. In altre parole, e radicalizzando la questione: il mare che vedo fuori dalla mia finestra è blu e le foglie della palma sono di un verde che vira verso il giallo “secco” tipico della stagione calda che “sta per arrivare”[6].
Questo tipo di Realismo, che non tutti i filosofi realisti sarebbero disposti a riconoscere in questa forma, prevede la corrispondenza tra la cosa e la nostra mente che, in questa descrizione, svolge la funzione di uno specchio[7] (Rorty). Se questo è il Realismo, quali sono le fattezze concettuali del suo principale avversario, il postmodernismo?
Precisando che il termine non è univoco (d’altra parte neanche il Realismo lo è), e che rimanda ad una elaborazione interna all’universo concettuale delle analitiche dell’architettura, tese a decostruire le pretese e le deferenze “museali” relative al lascito storico-artistico del passato, possiamo dire che la valenza assunta dal sintagma in filosofia e in letteratura ha la fisionomia di “critica” alla pretesa delle meta-narrazioni, quei discorsi che vorrebbero affermare delle verità extra-testuali. Il postmoderno afferma l’impossibilità teorica di fondare universalmente i discorsi al di fuori del sistema di riferimento. Ogni discorso ha le verità permesse dalle pre-condizioni strutturanti il sistema stesso. Per dirla con Lacan:
non c’è Altro dell’Altro”.
Non è possibile il metalinguaggio e ogni descrizione è il frutto di un punto di vista. Ma siamo sicuri che le due categorie, quella di postmoderno e quella del realismo si escludano a vicenda?
Se osservo qualcuno sorridere, riduco quel che vedo ad una contrazione muscolare o situo il “fatto” in una dimensione di “senso” che mi permette di farmi un’idea dell’accadimento? Indubbiamente colgo un “fatto” ma questo per me può avere un “senso” oppure no, può avere un “valore” o meno, e ciò in relazione ad una dimensione che non è soltanto quella del pensiero concettualizzante, quella tipica dei saperi positivi. Memoria, affettività, emozioni, aspettative, rimandi, contribuiscono a denotare di “senso” un qualsiasi “fatto”, in questo caso il sorriso. L’accertamento protocollare dei dati d’esperienza, così come categorizzato dai saperi scientifici, non esaurisce la dimensione veritativa di un accadere che acquista un “posto” nel nostro esserci alla luce di una certa rilevanza emotiva. Ci sono sicuramente fatti ma ci sono soprattutto interpretazioni[8].
Un essere “patologico”
Ma come indagare quel passaggio di rotta che al crinale dell’epoca moderna ha prodotto quell’agente virale “colpevole” del postmoderno?[9] Secondo quali intersezioni problematiche le pretese del Logos, dopo aver celebrato il proprio vanto nel grandioso sistema hegeliano, si sono ridotte fino a mettere in discussione l’esistenza stessa di un mondo così come percepito attraverso le possibilità conoscitive dello stesso Logos?
Gli interrogativi sopra posti trovano soluzione se facciamo riferimento alla declinazione della questione della “verità” così come è andata strutturandosi in età Moderna. Il tentativo auto-fondativo di Descartes ha inaugurato, per molti versi radicalizzato, una soggettivazione dell’essere legata alla presa d’atto che non esiste verità se non in quanto correlato dell’opera ponente del soggetto. L’ego cogito, che si rappresenta l’essere nella forma di oggetto, stabilisce il passaggio dal Logos al soggetto, anzi, ne sanziona l’equivalenza. Bisogna dubitare di tutto: dei sensi (che ingannano), della ragione (che può sbagliare), dell’esistenza della materia (come dimostrato dal sogno, in cui crediamo che quello che vediamo e sentiamo sia reale), e perfino delle stesse verità matematiche. Il dubbio metodico, attraverso il quale Descartes cerca di perimetrare le angosce legate all’azione destabilizzante del demone maligno, dopo aver “sgombrato il campo” dalle illusioni possibili lasciando un cumulo di macerie, permette solo una presa d’atto: la consapevolezza dell’ego sum[10] di essere oggetto e soggetto di rappresentazione. La coincidenza piena tra essere e pensare[11].
Il dubbio teoretico svolge la funzione preparatoria necessaria per ricavare quel resto indistruttibile che è la verità nel suo essere. Il soggetto, come autoposizione fondante, lega indissolubilmente la verità alla dimensione trascendentale attraverso la quale il soggetto stesso orienta l’inclinazione del proprio rappresentarsi un mondo. Kant radicalizzerà questa intuizione cartesiana sancendo quella rivoluzione Copernicana che stabilisce il passaggio dall’ontologia alla soggettologia. Quali le conseguenze teoretiche legate allo “scollinamento” post-cartesiano?
Una innanzitutto: la filosofia non può che prendere atto della propria impossibilità costitutiva. Le proprie pretese fondative, legate alla ricerca di una verità stabile che ponga l’uomo al riparo dalla mutevolezza dell’essere, si sovvertono nella presa d’atto che la ricerca non può che essere sempre fallimentare, visto che “nella ricerca di un concetto primo cominciare (la ricerca) non dipende da essa”[12]. A meno di non considerare “filosofia” le analitiche sul soggetto che ne proseguono il destino.
Non esiste un legame naturale tra il pensiero e il vero, quest’ultimo è un effetto legato alle procedure di indagine (de il vero). Ma il pensare, in quanto costitutivamente fallimentare, a cosa deve la “propria ansia di ricerca”? Insomma, chiarito che la “filosofia non dipende da se stessa”, che la verità dell’oggetto non può che essere soprattutto la verità sul soggetto, non sarà il caso di indagare le condizioni del pensiero, sostituendo alla verità dell’essere la verità del parlessere[13]?
Il pensiero cerca la verità se spinto da una sollecitazione, o da un insieme di sollecitazioni, che in nessun modo possono essere collegate alle pure pretese teoretiche di un buon volere preliminare . (…) La verità dipende da un incontro con qualcosa che ci obbliga a pensare e a cercare il vero[14]. Il pensatore subisce il pensiero che lo scuote e lo spinge alla ricerca. Il pensatore è un paziente sollecitato dalla brutalità di un pensiero che lo obbliga, lo costringe, alla ricerca[15]. La filosofia si declina in patosofia. Quanto detto dovrebbe aver chiarito che la posta in gioco non è più legata alla ricerca della verità di fuori, quanto alle condizioni che spingono il pensiero alla ricerca della verità.
“L’idea che la filosofia trovi così il proprio punto di partenza in ciò che non controlla, ha di che scandalizzare la ragione: come potrebbe, infatti, trovare la propria base in ciò che la mette in scacco, nell’inesplicabile o nell’aleatorio? Ma, chi può ancora parlare di base, quando la logica del fondamento o del principio di ragione conduce esattamente al suo ‘sfondamento’ comico e deludente?”[16]
L’essere, che ora possiamo chiamare patologico, non può che riguardare la produzione del senso attraverso il quale il soggetto “presta predicati alle cose”[17]. Eppure quest’essere, riferendosi all’essere del soggetto, il parlessere, inteso lacanianamente come ciò che riguarda il corpo nella sua presenza, toccato dal godimento[18], è una intersezione tra le dimensioni del corporeo e del mentale. Come ha ben compreso la filosofia del novecento, che ha posto al centro delle proprie riflessioni il tema del corpo[19], l’errore di Descartes [20]è stato quello di aver celebrato il vanto del soggetto conoscente, reificandolo, però, nelle due declinazioni sostanziali della res cogitans e della res extensa; due mondi che da allora si sono separati sempre più rimanendo uniti da ponti inconsistenti come la famosa “ghiandola” introvabile.
Freud, attraverso l’invenzione concettuale dell’inconscio, ha mostrato come le dinamiche originanti il pensiero riflettente siano influenzate dai fattori economici dell’affetto e dell’immaginazione che si esplicano nel lavoro del sogno e del fantasma[21]. La pratica clinica ha mostrato a Freud che il soggetto non è libero di pensare: infatti produce le proprie organizzazioni discorsive sviluppando alcuni temi di fondo, sempre gli stessi nella struttura logica organizzativa, che rimandano ad esperienze corporee cui non hanno fatto seguito adeguate rappresentazioni simboliche.
“L’affetto è il risultato del legame tra il corpo e la psiche, che avviene attraverso i processi di innervazione e di scarico e del fattore qualitativo delle sensazioni, che si distinguono in ‘percezioni di in movimento dell’affetto, quando si mette all’opera, e ‘sensazioni qualitativamente distinte di piacere e di dispiacere, derivate dal movimento affettivo[22].”
Il trauma, nell’elaborazione freudiana, è l’intersezione problematica, e disfunzionale, tra le energie pulsionali che organizzano lo psichico e le rappresentazioni attraverso le quali le simbolizziamo. Gli affetti slegati dalle rappresentazioni o si “scaricano” causando l’angoscia libera, le somatizzazioni, le nevrosi da panico, o si reificano in strutture difensive che si congelano nell’idealizzazione che blocca la libera fluidificazione del pensiero. L’angoscia è quel particolare affetto che segnala l’interruzione del processo rappresentativo in relazione ad alcune pulsioni e la cui indagine permette di significare la costellazione attorno alla quale si organizza l’universo di “senso” del soggetto. L’angoscia[23], che rimanda ad un tempo “privo di difese”, è il “segno” più chiaro di una sostituzione avvenuta nel nome dell’Assente: sparito il pensiero rappresentativo emerge la sensazione di vuoto, di attesa, di indeterminatezza[24]. L’angoscia è lo strumento-affetto attraverso il quale il soggetto prova a pensare il trauma, quindi è l’affetto più arcaico, quello che lega l’universo inconscio e il pensiero concettualizzante, il corpo e lo psichico. Proprio per questo la sua analitica rimanda alla dimensione unica e irripetibile del soggetto, quella che agendo al di là della rappresentazione e del linguaggio ne rappresenta la condizione.
“Pensare significa rimettere in circolazione nell’apparato psichico l’energia vitale dell’angoscia(…), significa, in un secondo senso, pensare l’angoscia come possibilità di separazione che forma l’individuo.(…) Significa usare il disadattamento costitutivo dell’essere umano per riuscire a costruire legami simbolici[25].”
L’altro elemento introdotto da Freud nelle lettere a Fliess è immaginazione (phantasieren)[26], accostato ai termini: ubersetzen (tradurre, trasporre), ed erraten (indovinare, supporre) e, in seguito, nel 1937, con speculieren (speculare) e theorisieren (teorizzare). La compresenza dei diversi concetti serve a costituire una relazione semantica all’interno della quale il pensare risulta defraudato dalle pretese auto-fondative tipiche di un Logos in contatto immediato con la verità. Freud opacizza il pensiero che non è in grado di dire la verità sull’oggetto là fuori perché già da sempre preso entro il tessuto di relazioni che lo pre-ordinano nella dimensione del “senso”. La pratica clinica ha mostrato a Freud che il pensiero si regola su concatenamenti bi-valenti: quelli dell’affetto, tipici dell’epoca pre-linguistica, e quelli della ragione concettualizzante; questi ultimi solo per necessità epistemologica vengono celebrati nell’illusione logocentrica di un legame naturale con la verità del di fuori. Legame assunto quale postulato indimostrabile.
Nietzsche, su questa lunghezza d’onda, sostituirà al concetto di verità quale adaequatio rei et intellectus quelli di “senso” e di “valore”[27]. Egli contestando le nozioni di “vero” e di “falso” non vuole negare, come troppo frettolosamente si sostiene, l’esistenza di accadimenti intersoggettivamente verificabili (un tamponamento, un furto, una cena a base di ricci di mare, una melenzana), ma vuole, attraverso la concettualizzazione delle nozioni indicate, evidenziare come le diverse “verità” risultino essere il frutto di una selezione di elementi legata alla “valutazione di chi parla”[28] basata sul senso di ciò che viene detto alla luce dei valori che vengono “fatti parlare”. La verità non è la presa d’atto di un fatto (questo è banale e riguarda un livello percettivo elementare)[29] ma il frutto delle valutazioni di processi che sono inconsci[30].
Il “senso”, come è qui inteso, non è da ricollegare alle intuizioni di certa ermeneutica novecentesca che, pur mantenendo una distinzione tra sinn e bedeutung, di fatto, ha ricalcato la fisionomia del primo su quella del secondo. Nessun senso obliato da ricostruire, nessun significato nascosto, celato o velato da portare alla luce ma, secondo le intuizioni di Nietzsche e Freud[31],
“un effetto prodotto, di cui si devono scoprire le leggi di produzione”[32].
Ogni pensiero sulla realtà non essendo “primo” non può che essere il frutto di una contaminazione costitutiva: infatti
“l’inconscio non è composto da parole e da frasi organizzate; le rappresentazioni sono prese in prestito dal sensoriale, dal visivo, dalle immagini e dagli schemi percettivo-motori. Queste rappresentazioni primitive dell’inconscio sono elementi tratti dall’esperienza infantile e non sono inseriti nella struttura linguistica”[33].
Lingua e cose da sempre interagiscono in un processo di continua contaminazione. Lingua e cose, indubbiamente, rimandano a due entità dotate di statuto ontologico che, però, nel processo attraverso il quale il soggetto esperisce il mondo si “contingentano” in relazioni sempre in atto. Kantianamente non è possibile cogliere le entità al di fuori della relazione. Il lacaniano nodo borromeo, quello che lega le dimensioni del Simbolico, dell’Immaginario e del Reale è sempre in atto e non è possibile sciogliere un capo senza che venga meno l’intero nastro[34].
La macchina freudiana genera il paradosso di un senso che, mentre viene generato dalle contaminazioni tra i registri affettivi e linguistici, a sua volta produce generi discorsivi ( filosofia, scienze, letteratura) che costitutivamente affermano la pretesa di voler dire la “verità ultima”, quindi meta-testuale, sulla realtà immanente lungo le cui pieghe adagia il proprio pensiero. Non c’è Altro dell’Altro -avrebbe detto Lacan con una delle sue frasi ad effetto- e non potrebbe essercene per ragioni logiche[35], innanzitutto, visto che il punto di vista dal quale si origina il discorso con pretese veritative è interno al sistema che si pretende cogliere nella sua interezza.
Il pensiero secondario, quello della teoria, si genera in perenne attrito con quello primario, che, a sua volta, è il frutto della continua ibridazione tra il piano fantasmatico, quello pulsionale e quello dell’immaginario. Un piano del pensiero, quello primario, è regolato dall’al di là del principio di piacere , tende alla jouissance[36], al godimento, secondo la legge della ripetizione. L’altro piano, quello del pensiero secondario, tende all’ordine, alla misura, alla perimetrazione, attraverso le barriere concettuali cerca di arginare le spinte pulsionali.[37] In principio c’è la contaminazione.
Il Postmoderno: un virus necessario
Il postmoderno, così come si presenta, è l’argine concettuale prodotto dal Logos stesso per contenere la propria ontologica tensione extra-sistemica. Il paradigma immunitario, sviluppato da Roberto Esposito[38], mostra proprio come l’organismo stesso produca l’agente virale al fine di salvaguardare l’insieme dalla deriva entropica. Un limite che vuole ovviare alla pericolosità insita in questa tensione pulsionale senza limiti.
Nel seminario XX[39], Lacan ha cercato di declinare la differenza concettuale (al di là, forse, delle proprie intenzioni anti-metafisiche) tra desiderio e godimento mostrando quanto il secondo sia “tracotante” e potenzialmente pericoloso per la sussistenza stessa del soggetto. Il postmoderno è, secondo questa chiave di lettura, il pharmakon prodotto metafisicamente dal Logos stesso per salvare le proprie pretese conoscitive ed evitare il tracollo coincidente con la fine della teoria.
Il postmoderno, lungi dal riguardare un’epoca della filosofia, deve essere concettualizzato come una condizione frutto di una secrezione virale continuamente prodotta dal Logos per perimetrare le proprie derive pulsionali potenzialmente destabilizzanti per le esigenze e le pretese veritative teoretiche. Lyotard, con la sua sistematizzazione contenuta in La condizione postmoderna, non ha inaugurato, né categorizzato un’epoca “nuova” della riflessione filosofica; ha, invece, esplicitato uno dei tanti momenti di quella lunghissima storia del Logos fatta di pretese extra-sistemiche e di successive perimetrazioni virali. All’incanto segue sempre il disincanto.
[1] Il riferimento è al noto dibattito tra Richard Rorty e Umberto Eco, avvenuto a Cambridge in occasione di un incontro vertente sui criteri ordinanti la critica testuale, e alla battuta del primo che proponeva di valutare le diverse possibilità ontologiche di un cacciavite. Cfr. Umberto Eco, Ci sono delle cose che non si possono dire. Di un realismo negativo, Alfabeta2, Marzo 2012, 17, p. 23.
[2] Cfr. Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Rm-Ba 2012.
[3] Cfr. Paolo Bozzi, Fisica ingenua. Sudi di psicologia della percezione, Garzanti, Milano 1998.
[4] Per essere più corretti dovremmo aggiungere che Ferraris ha cercato di declinare le proprie istanze teoretiche legate al passato ermeneutico in una teoria dell’oggettualità sociale, tra gli altri vedi: Maurizio Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciare tracce, Laterza, Rm-Ba 2009.
[5] Quest’ultimo è fautore di un radicale realismo in relazione agli universali intesi come macro-categorie dotati di alta valenza ontologica. Solo per un inquadramento della questione cfr. Guido Bonino, Universali/particolari, Il Mulino, Bologna 2008.
[6] Per un interessante studio, in ottica divulgativa, di psicologia della percezione vedi: Paola Bressan, Il colore della luna. Come vediamo e perché, Laterza, Rm-Ba 2007.
[7] Ovviamente il riferimento è all’ormai “più che classico”: Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2004.
[8] Cfr. Marco Vozza, Esistenza e interpretazione. Nietzsche oltre Heidegger, Donzelli, Roma 2001, p .X.
[9] Cfr. Löwith Karl, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 200.
[10] Si confrontino le puntuali analisi sviluppate da J.L.Nancy, in: Ego sum, Bompiani, Milano 2008.
[11] Quanto l’intuizione Cartesiana rimandi a problematiche trans-temporali dovrebbe essere ovvio se riflettiamo sulle elaborazioni concettuali della “sofistica” relative alla coincidenza di pensiero/linguaggio ed essere. Sulla presenza di una teoria della percezione all’interno dell’elaborazione Gorgiana vedi la nuova traduzione di, Gorgia di Leontini, Su ciò che non è, Testo greco, traduzione e commento a cura di Roberta Ioli, Georg Olms, Hildesheim/Zürich/New York 2010.
[12] Cfr. F.Zourabichvili, Deleuze. Una filosofia dell’evento, Ombre Corte, Verona 2008, p. 25.
[13] Parlessere, l’individuo parlante nel suo particolare essere di godimento, soggetto del corpo godente: Jacques Lacan, Il Seminario XX. Ancora, Einaudi, Torino 2011,p. 131.
[14] G.Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 1986, p.16-17.
[15] Sul tema del pensiero selvaggio vedi: W.R.Bion, Trasformazioni. Il passaggio dall’apprendimento alla crescita, Armando ed., Roma 2001.
[16] Cfr. F. Zourabichvili, cit. pp. 26-27.
[17] F.Nietzsche, Aurora, Adelphi, Milano, par.210.
[18] Cfr. Jacques Lacan, Il Seminario XXIII, Il sinthomo, Astrolabio, Roma 2006, p.62.
[19] Per una prospettiva vedi: Michela Marzano, La filosofia del corpo, Il Melangolo, Genova 2010.
[20] Qui il riferimento è al libro del neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995.
[21] Sul tema vedi: Lucio Russo, Le illusioni del pensiero, Borla, Roma 2006.
[22] Vedi le elaborazioni di Andrè Green sull’affetto ben sintetizzate in Lucio Russo, cit. p.24.
[23] Cfr. Sigmund Freud, Lutto e melanconia in OSF, vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino.
[24] Cfr. Sigmund Freud, cit.p.310
[25] Cfr. Lucio Russo, cit., pp.36-37.
[26] Cfr. Sigmund Freud, Lettere a Fliess (1887-1904), Bollati Boringhieri, Torino 1966, p.
[27] Cfr. Gilles Deleuze, Nietzsche e l’immagine del pensiero in l’Isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007, p.167.
[28] Cfr. Gilles Deleuze, cit. p.168.
[29] Marco Vozza, alcuni anni fa, in un libro tanto interessante quanto poco considerato, Esistenza senza interpretazione. Nietzsche oltre Heidegger, Donzelli ed., Roma 2001, faceva riferimento ad un livello basso, diciamo 0, della conoscenza, quello delle proposizioni scientifiche intersoggettivamente verificabili. Questo livello non riguarda le condizioni attraverso le quali esperiamo il mondo. Deve o no interessare alla filosofia questo mondo della vita? Per la semplice constatazione di un fatto come “un bicchiere d’acqua sul tavolo” non è sufficiente il “senso comune”? E’ necessario pensare qualcosa come il Nuovo Realismo?
[30] Cfr. Gilles Deleuze, ibidem.
[31] E soprattutto di Deleuze che non ha mai smesso si indagare le leggi di produzione del “senso”. Cfr. ibidem.
[32] Cfr. Gilles Deleuze, cit. p.169.
[33] Cfr. Lucio Russo, cit.p. 57.
[34] Cfr. Jean Claude Milner, I nomi indistinti, Quodlibet, Macerata 2003, pp. 17-23.
[35] Cfr. Franca D’Agostini, La logica del nichilismo, Laterza, Rm-Ba 2000.
[36] Cfr. Jacques Lacan, Il seminario XX, Ancora, cit.
[37] Questa è la grandiosa intuizione nietzschiana da salvare nella prima grande opera “sbagliata” di filologia: “la nascita della tragedia”.
[38] Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.
[39] Cfr. Jacques Lacan, cit.
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