Pubblicato su Haecceit@s, questo articolo di Fabio Milazzo espone condividibili ragioni di diffidenza verso il “nuovo realismo”.
Apologia della doxa
Il “nuovo realismo” è letteralmente una trovata geniale. Il paradigma, reso recentemente famoso da Maurizio Ferraris, che ne è il promotore in Italia, e da quella fucina di idee progressiste che è il gruppo La Repubblica[1], è riuscito a ritagliarsi un posto nelle asfittiche e claustrofobiche chiacchierate della filosofia italiana. Ma cos’è questa postura intellettuale che tanto credito sembra ottenere da personalità quali Umberto Eco – che, a dir la verità, già dai tempi de I limiti dell’interpretazione ha operato una svolta anti-ermeneutica – e dalle tante teste pensanti riunite in convegni quali quello di Bonn[2]?
Fondamentalmente è un ritorno ai fasti della doxa (δόξα), l’opinione comune, ciò contro cui si erge il pensiero filosofico fin dalle sue origini pre-socratiche[3]. Detta in maniera brutale, ma forse anche efficace, il nuovo realismo afferma la consistenza oggettiva della realtà, al di là di ogni fenomeno interpretativo. Il suo principale avversario non può che essere il Nietzsche che nel noto frammento postumo dichiarava profeticamente:
«Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: “ci sono soltanto fatti”‘, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto “in sé”; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. “Tutto è soggettivo”, dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il “soggetto” non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo.
È infine ancora necessario mettere l’interprete dietro l’interpretazione? Già questa è invenzione, ipotesi. In quanto alla parola “conoscenza” abbia senso il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. “Prospettivismo”. Sono i nostri bisogni, che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di sete di dominio, ognuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri istinti»[4].
Il baffone di Röcken, anche in questo frammento, non nega l’esistenza di un qualcosa posto là fuori, la realtà, ma sta sottolineando come il rapporto tra soggetto e mondo si dia sempre come dialettica orientata dal senso[5]. L’ingenuità del realismo che afferma l’inemendabilità del reale, vale a dire la consistenza immodificabile dell’oggetto-mondo posto davanti al soggetto, disconosce che questa relazione è sempre situata in una prospettiva attraverso la quale i “fatti” assumono un certo “valore”. In altre parole, non si nega la possibilità di riscontrare empiricamente qualcosa di inter-soggettivamente verificabile (“fatto”) ma che questo “qualcosa”, nel momento in cui entra a far parte del nostro universo mentale, assume un certo “senso”, un certo “posto”, che è a tutti gli effetti il prodotto della singolarità irriducibile che siamo. A Nietzsche interessa indagare questo “spazio vuoto” entro cui il mondo assume una certa dislocazione per il soggetto. Un’analitica della verità entro cui si dà la verità; o per essere più chiari: una ricerca delle condizioni che determinano la prospettiva attraverso la quale ci affacciamo sul mondo: il nostro belvedere.
«Il mondo apparente è un mondo considerato secondo certi valori: ordinato e sceverato in conformità a certi valori, ossia, in questo caso, dal punto di vista dell’utilità, in vista della conservazione e dell’aumento di potenza di un determinato genere di animale»[6] .
Nietzsche problematizza l’a-priori irriflesso entro cui si dispone la nostra immagine del pensiero (per dirla con Deleuze) perché è convinto che l’uomo non si disponga davanti ad un inemendabile, come pensano gli ingenui, ma che viva innanzitutto singolarmente[7] il proprio mondo.
Il nuovo realismo, sostenendo la tesi secondo cui Nietzsche (e i suoi epigoni postmoderni) avrebbe esaltato il concetto di interpretazione a detrimento della verità, intesa quest’ultima nella forma corrispondentista di «adaequatio rei et intellectus», oltre ad operare una lettura banale del baffone, ha voluto cercare di smontare i due presunti dogmi del postmoderno così riassumibili:
«che tutta la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità sia una nozione inutile perché la solidarietà è più importante dell’oggettività»[8]( p. XI). Affermare l’inemendabilità di ciò che c’è, «il carattere saliente del reale»[9], è l’imperativo di questa condizione post- postmoderna.
Ma siamo sicuri che questa sia un’operazione filosofica emancipatoria come in più parti si sbandiera nel Manifesto del nuovo realismo? Noi non ne siamo convinti, tutt’altro.
L’idiota fantasia del Logos
Come ho cercato di mostrare in Bentornata Ingenuità! L’oscena fantasia della ciabatta[10], il contributo preparato per il volume a più voci Il nuovo realismo è un populismo, la svolta realista del circolo di Ferraris è il tentativo più “facile” di andare incontro ad un’opinione pubblica che fa sempre più fatica a star dietro a ragionamenti complessi e che, quindi, cerca le scorciatoie della conoscenza in pillole, ciò che “può essere facilmente compreso” e, magari, ridotto nella forma iconica cui tutti siamo abituati per le frequentazioni dei social network. Ma è, soprattutto, una procedura di esaltazione del senso comune e un tentativo di ridurre la filosofia a pratica di ratifica dell’ovvio, della doxa. Se il pensiero filosofico nasce per cercare di indagare i principi primi non immediatamente riscontrabili che organizzano la realtà, la sua trama, le sue leggi, il nuovo realismo si pone in netta anti-tesi a questo spirito primordiale sancendo l’inequivocabilità di ciò che appare davanti ai nostri occhi, del mondo “così come lo vediamo”, del dato bruto disponibile alla chiacchiera di qualunque signor Simplicius.
Apparentemente questo andare incontro all’uomo comune dovrebbe essere favorire la democrazia di massa anche nell’ambito della riflessione teoretica. Non è così. Come ha più volte sottolineato Slavoj Žižek[11], le operazioni ideologiche più pericolose sono quelle che si delineano sotto altre vesti, magari facendo ricorso al consenso demagogico. E’ proprio il caso dell’operazione targata new realism in salsa italiana[12] che, attraverso il consenso del grande pubblico, mira a ridurre la filosofia a semplice operazione di ratifica dell’opinione comune. Prova ad accattivarsi il plauso delle masse svendendo slogan che tutti gli insofferenti la “fatica del concetto” anelano e, così operando, attacca il filosofo “grillo parlante”, quello che mette la “pulce nell’orecchio” proponendo e sollecitando la riflessione, l’attività critica, la messa in discussione del senso comune, di ciò che appare palese. Offre “ricette a buon mercato” che, in linea con i tempi (forse con tutti i tempi), provano ad aggirare l’ostacolo attraverso il ricorso alla soluzione più facile, la più ovvia, quella che semplifica tutto e tutto dispone sul piano orizzontale della chiacchiera; quel piano in cui si parla solo per affermare il diritto di aprire la bocca, anche solo per darle fiato e per riempire l’aria di flatulenze verbali. Si esalta l’opinione comune che tutti sappiamo quanto sia evanescente, soggetta agli umori del tempo, alle sollecitazioni strumentali alle varianti dell’emotività. Quanto sia condizionabile.
L’opinione comune, la doxa, era la grande avversaria della filosofia presocratica, quella che si interrogava sulle condizioni di possibilità dell’esistente, diffidando profondamente dell’ovvio buon senso dell’uomo comune e ricevendo, in cambio, altrettanti sospetti; ci ricordiamo tutti della servetta di Talete… Compito di questa filosofia delle origini è scompaginare i valori comuni, le certezze dell’opinione pubblica, le chiacchiere da osteria, quel sapere inconsapevole cui si riferiva Braudel parlando di inconscio collettivo[13] ancora tutto da indagare. Proprio questo sapere ingenuo che innerva l’opinione pubblica è alla base di ogni totalitarismo. La radice di quest’ultimo, il suo scopo principale, è quello di
«costruire un uomo nuovo dal quale estirpare ogni tratto non sussumibile sotto una legge universale»[14],
di ridurre ogni singolo uomo ad un pezzo intercambiabile all’interno della specie, cancellandone la soggettività, intesa come singolare apertura al mondo. Elemento fondamentale per raggiungere questo scopo è la riduzione dell’immaginario collettivo ad Uno, sottrazione delle differenze singolari a vantaggio dell’omologazione. Ogni totalitarismo opera per riprodurre la specie umana sotto il segno dell’Unità:
«Il dominio totale, che mira ad organizzare gli uomini nella loro infinita pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta a un’immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci possa essere scambiato con qualsiasi altro. Si tratta di fabbricare qualcosa che non esiste.»[15]
In ogni totalitarismo la posta in gioco riguarda la creazione di un certo tipo di individuo, parte di un insieme più ampio contraddistinto dall’uniformità di quella che, con Deleuze, possiamo chiamare una certa “immagine presunta naturale del pensiero[16]”. Un uomo che non pensa ma che si limita a riconoscere il dato oggettivo che
«appare impermeabile al sapere e fornisce un caso di patente divario tra conoscenza del mondo ed esperienza del mondo […].»[17]
La presunta naturale corrispondenza tra pensiero e mondo sbandierata dal realismo ingenuo, lungi dall’essere una filosofia dell’emancipazione è, a ben vedere, un potente strumento a disposizione delle pratiche di governo che mirano alla cancellazione delle differenze. Uno spirito reazionario contraddistingue un pensiero, quello dei nuovi realisti, che si propone di affermare la presunta oggettività del mondo e, implicitamente, l’inutilità della riflessione filosofica, di ogni procedimento teoretico che mira a mettere tra parentesi le certezze al fine di indagarle, di sottoporle a critica. Questo “oggettivismo” (lo possiamo chiamare così) da ragioniere si regge su quella che abbiamo definito l’idiota fantasia del logos[18], l’irriflessa postura intellettuale che «immagina il mondo esterno come il correlato di un’esperienza neutra»[19], di un semplice riconoscimento dello stato di cose. Il sogno che l’intero universo sia semplicemente quello che percepiamo, che non nasconda abissi, traumi, zone oscure, fenditure, pericoli, è, probabilmente, una delle fantasie fondamentali della specie umana, da sempre intimamente minacciata dall’insondabile e, quindi, sempre sulla difensiva. Un qualcosa di disponibile alle nostre pretese manipolative, ecco, cosa prospetta il nuovo realismo per sedare le paure indefinite della “società dell’ansia”. Ma questa ricetta di sicurezza, che sacrifica la verità per un pò di sicurezza, è proprio ciò che offrono tutti i totalitarismi, di qualunque colore. Si coltivano, si proteggono, si organizzano, le esigenze, i desideri e le istanze della doxa al fine di disporne l’addomesticamento di massa. Sembra una procedura già vista…
Note
[1] Il dibattito sul Nuovo realismo è sorto e si è diffuso sulle pagine di La Repubblica che ha svolto la funzione di cassa di risonanza per una querelle inizialmente tutta torinese. E’ leggibile nella sua interezza qui: http://nuovorealismo.wordpress.com/rassegna/2013-2/
[2] Qui il programma del convegno: http://new-realism.de/program.php
[3] Sulle origini del pensiero greco ci sembra sempre attuale il rinvio a J.P.Vernant, Le origini del pensiero greco, trad.it. a cura di F.Codino, Se ed. 2005.
[4] Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, in Opere complete, vol. 8.1, Adelphi, Milano 1975, fr. 7[60], pp. 299-300.
[5] Come aveva compreso benissimo il Deleuze dei primi studi su Nietzsche; vedi: “Senso e valore in Nietzsche secondo Deleuze” su http://haecceitasweb.com/2010/05/30/senso-e-valore-in-nietzsche-secondo-deleuze/
[6] F.Nietzsche, La volontà di potenza, trad.it. di A.Treves, riveduta da P.Kobau e M.Ferraris, Bompiani, Milano 1992/2001, § 507, p.280.
[7] La precedenza è logica e non cronologica.
[8] Cfr. M.Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. XI
[9] Ivi, p.30
[10] Cfr. F.Milazzo, Bentornata Ingenuità! L’oscena fantasia della ciabatta, in (a cura di Regazzoni-Ocone. Di Cesare), Il nuovo realismo è un populismo, Il nuovo Melangolo, Genova 2013, pp. 25-40.
[11] Vedi le analisi portate avanti in S. Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, trad.it di C.Arruzza, Ponte alle Grazie, Firenze 2009.
[12] Come ho sostenuto in diverse occasioni, non tutte le analisi sul “nuovo realismo” sono da considerare delle operazioni commerciali riduttive. Per un interessante eccezione vedi Q.Meillasoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, trad.it. di M.Sandri, Mimesis ed, Milano 2012.
[13] Cfr. F.Braudel, La dinamica del capitalismo, Il Mulino, Bologna 1988, p.27.
[14] Cfr. S.Forti, Il grande corpo della totalità. Immagini e concetti per pensare il totalitarismo in (a cura di) M. Recalcati, Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007,p.31.
[15] Cfr. H.Arendt, Le origini del totalitarismo, ed. Comunità, Torino 1999, p.632.
[16] Cfr. G.Deleuze, Differenza e ripetizione, ed. Raffaello Cortina, Milano, 1997, pp. 169-199.
[17] Cfr. M. Ferraris, Manifesto…, cit. p.52
[18] Cfr. F.Milazzo, Bentornata…, cit., p.40.
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