Con una interessante riflessione che tiene insieme spunti antropologici e di psicologia umanistica, Dubosc propone una lucida interpretazione dei concetti di libertà e democrazia profonda, di cultura e del paradossale rapporto tra stabilità e cambiamento, processo e struttura.
Ho abitato in Turchia per molti anni e mi tocca quanto sta accadendo laggiù. La capacità di protesta di Piazza Taksim è una capacità culturale come lo era quella di Piazza Tahrir. E’ un grave pregiudizio etnocentrico pensare che la capacità di aspirare a giustizia, libertà, a orizzonti futuri non dominati dal mercato o dall’economia siano appannaggio della cultura occidentale.
Cerco di spiegarmi: cultura è un concetto polisemico, impossibile ridurlo a una formula onnicomprensiva. E’ un concetto per altro che nasce solo di recente, e nel nostro di universo semantico – la parola vien d’uso nel 1700 francese, quando cultura voleva dire il frutto di un’educazione – il punto era semmai se questo fosse più sviluppato nell’aristocrazia o nella borghesia. Ma il concetto si definisce nel 1800 con l’etnografia classificatoria del colonialismo che per almeno 100 anni ha catalogato usi, costumi, eredità, tradizioni come ciò che è legato al passato. Invece la cultura, se non la essenzializziamo (facendola diventare un sostituto della ‘razza’), è un concetto limite, paradossale e composto da antinomie: alcune dimensioni della cultura sono mitiche e narrative e altre materiali; alcune rivolte al passato altre al futuro, e ancora: la dimensione culturale è stata messa in opposizione alla ‘natura’ ma la natura dell’uomo è di essere culturale ..
Panikkar insegnava che le culture sono incommensurabili l’una con l’altra e allo stesso tempo sono il risultato di una reciproca fecondazione; che i valori di ogni cultura sono relativi a un dato contesto e non sono assolutizzabili (anzi che la visione di universalità dei propri contenuti culturali è l’essenza del colonialismo)… ma che allo stesso tempo in ogni cultura vi sono dimensioni transculturali che aprono al pluralismo e in una tensione verso una dimensione capace di contemplare (non assimilare) le differenze. Insomma le culture sono rivolte alla trasmissione/riproduzione del passato ma anche all’invenzione del futuro.
Certo, non possiamo dimenticare che la cultura è il ‘deposito’ dell’espressione umana in tutte le sue forme (arte, musica, teatro, linguaggio), ma la cultura è un dialogo tra aspirazioni e consuetudini e nello zelo di ricordare le seconde abbiamo creato una scissione artificiosa tra cultura e sviluppo….
Difatti oggi quale consideriamo scienza del futuro? Non certo la cultura ma L’economia! E’ l’economia che si occupa di bisogni, desideri, speranze, calcolo. Avere delegato all’economia il futuro è stato disastroso, perché il capitalismo funziona a partire dalla moltiplicazione di desideri ‘usa e getta’. Se il valore (di scambio) di un oggetto dipende dal fatto di essere desiderato è ovvio che il dispositivo del capitalismo può moltiplicare i profitti solo se moltiplica i desideri. Ma possiamo anche volere una data cosa perché è bella, ci serve, la utilizziamo in modo saggio e creativo. Il desiderio può essere il grado zero dell’aspirazione. Non si tratta di demonizzare l’ingegno umano e ciò che produce può migliorare molte cose nella vita delle persone. Ma è necessario al contempo comprendere che molti desideri indotti dalla tecno scienza hanno in primo luogo come motore il profitto a breve termine più che l’interesse a lungo termine delle comunità o del mondo. I desideri indotti spesso si spendono nella tendenza pulsionale al godimento sterile e privo di orizzonte che genera ‘perdita di mondo’. L’assoggettamento prevale sulla soggettivazione, per dirla in gergo filosofico. Il desiderio del migrante di migliorare la propria condizione economica rivela però come questo grado zero possa orientarsi verso l’aspirazione perché incorpora questioni di equità e giustizia. Le esperienze di credito rotativo, il piccolo risparmio di una comunità che poi discute su come utilizzarlo, può, per esempio, animare la partecipazione e la riflessione comune.
Il paradosso del desiderio migrante rappresenta un segno, uno specchio che ci rivela il peggio e il meglio della nostra stessa condizione, da un lato la caduta in una angosciata sindrome da risarcimento, dall’altro il richiamo simbolico a una trama desiderante ancora animata…capace di sognare e di liberare questi desideri dalla sfera della ripetizione e della frustrazione rancorosa recuperando almeno una misura di senso comune, di solidarietà, di elaborazione condivisa e di orizzonte.
Mi interessa con Appadurai la scelta di pensare il deposito culturale come risorsa per l’apertura di orizzonti futuri, aspetto che l’antropologia ha spesso trascurato a favore della visione etnicista della riproduzione del passato. La cultura è un po’ come la lingua e la coerenza culturale non è mera ripetizione di singoli aspetti, ma la possibilità di ricombinare il sistema di relazioni simboliche in modo generativo, come la lingua che si presta a infinite ricombinazioni di significato a partire dal gioco dei significanti…
Ne Le aspirazioni nutrono la democrazia, Appadurai definisce la capacità di aspirare come quella parte del deposito culturale che propizia l’apertura di un orizzonte. La capacità di aspirare è una capacità culturale, un terreno di elaborazione collettiva dove si eprimono e si rappresentano futuri possibili. E’ anche una pratica della partecipazione possibile, una capacità di voce dei diretti interessati. L’autore inoltre ci ricorda che le culture non sono monolitiche, che il dissenso, la dissonanza fano parte della cultura che non è mai di per sé un blocco né al suo interno né verso l’esterno.
Dice ancora Appadurai:
Una delle più grandi forme di povertà è la mancanza di risorse per dar voce alla protesta. La capacità di esprimere protesta è una capacità culturale […] dove le opportunità di formulare ipotesi e contestazioni rispetto al futuro sono limitate (e questa potrebbe essere una buona definizione della povertà) ne consegue che la capacità stessa di avere aspirazioni risulta relativamente meno sviluppata.
Alcuni dei ‘segni’ di questa capacità emergente:
– Gestire l’emergenza con la pazienza perché
la capacità di vivere l’emergenza e saper aspettare ha un significato molto serio nella vita dei poveri;
– Definire degli obiettivi
– Esercitare la capacità di esprimere protesta, sapere opporsi collettivamente e stabilire dei precedenti per ottenere un riconoscimento.
– Dare una dimensione rituale alla costruzione del nuovo. Rituale inteso non come ripetizione ma come capacità generativa di simbolizzare la propria partecipazione. (Appadurai cita i ‘Toilet Festivals’ degli slum di Mumbai.) In Piazza Taksim occupata si balla, ci si sposa.
La libertà ci dice Appadurai citando Amartya Sen va pensata come
un orizzonte collettivo, denso e duttile di speranze e desideri
E non a caso parla di ‘democrazia profonda’ capace di incrociare la verticalità profonda delle radici con la dimensione orizzontale, rizomatica, che spazia oltre i muri e i falsi confini
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