Maurizio Pallante, Meno è meglio. Alberto Bagnai, La decrescita secondo la goofynomics. Badiale e Tringali, Decrescita si, ma del capitale

by gabriella

Il podcast dell’interessante intervista concessa a Loredana Lipparini (Fahrenheit, mercoledi 23 novembre 2011) dall’autore di Meno e meglio, il saggio sulla decrescita edito da Bruno Mondadori. Di seguito, la voce critica di Alberto Bagnai (goofynomics) per la quale la decrescita perde di vista che nell’economia contemporanea non è il consumo o il risparmio individuale a costituire un attentato alla sostenibilità ambientale, ma gli usi finanziari di quel consumo e di quel risparmio. Ancora una volta, se si vuole capire qualcosa del mondo, dobbiamo togliere lo sguardo dagli individui e volgerlo al sistema.

Alberto Bagnai, Decrescita… de che?

BagnaiNei momenti di crisi globale ricorre un atteggiamento descritto da un’efficacissima parola europea: Schadenfreude. Da Schaden (danno) e Freude (gioia), che poi sarebbe appunto quella della Nona di Beethoven che tanto piaceva a Alex (DeLarge). La Schadenfreude è il piacere maligno che si trae dallo spettacolo dell’altrui male (quindi ha poco a che vedere con il “suave mari magno” di Lucrezio, che maligno non era, e infatti al secondo esametro aggiunge “non quia vexari quemquamst iucunda voluptas”). Questa “voluptas”, una delle poche che la natura matrigna riserva a quelle strane bestie che sono gli economisti, le suocere, e il beghiname vario, è in grandissima parte motivata dal poter dire “io l’avevo detto”, cioè dal trovare nell’Armageddon un valido, anzi, il più valido, alleato per l’affermazione delle proprie teorie. Se poi nell’Armageddon ci finisce anche lo Schadenfroh, meglio pure: a “voluptas” si aggiunge “voluptas” (il masochismo).

Gli esempi non mancano. Quando nel Medioevo organizzammo il nostro vivere civile aggregandoci in città (è la “rivoluzione urbana” descritta tanto bene da Carlo Maria Cipolla), dando al nostro mondo quell’impulso che l’ha portato ad affermarsi su altri all’epoca ben più avanzati (quello arabo, quello cinese), ci trovammo a dover fronteggiare qualche problema di congestione, con conseguenze non banali. In effetti, anche a quel tempo c’era chi pensava che l’economia si rilanciasse con le grandi opere (le crociate): di costruire cessi non se ne parlava, nonostante i Romani (che una certa auctoritas ce l’avevano) lo avessero prudentemente fatto nelle loro città, prima di lanciarsi alla conquista del mondo. La crisi si presentò nel 1348, sotto forma della prima epidemia “globale” di peste, che, come ben sapete, arrivava dritta dall’Oriente (perché la globalizzazione, si sa, è una neocosa neomoderna, l’abbiamo inventata noi dieci anni or sono negli editoriali del Manifesto…). Ed è facile immaginare che all’epoca qualche stralunato anacoreta ne approfittasse per calare a valle e incitare il popolo al pentimento e alla riforma dei costumi, sotto la sferza del “gladius Dei”, assaporando il suo fottuto quarto d’ora di celebrità.
Poi, siccome Dio c’entrava poco, e l’igiene personale molto, l’anacoreta moriva pure lui, e una volta che la peste aveva ristabilito condizioni di vita decenti, attraverso quello che gli economisti oggi chiamano un haircut della popolazione, si ripartiva, con salari reali più alti (perché la Goofyepidemiology ci insegna che non c’è niente di meglio che una bella peste nera per risolvere il problema della disoccupazione – la guerra va meno bene perché distrugge anche il capitale fisso).

Sezionando un’oca

Mi veniva in mente questo simpatico quadretto ieri, ascoltando Gustavo su Radio3 a “Tutta la città ne parla”, mentre mi dedicavo al sezionamento di un’oca, anzi, di un locio (hoc facite in meam commemorationem: avere avuto una nonna toscana obbliga a riti cruenti). Gustavo [Piga] diceva le cose sensatissime che dice da tempo e che troppo pochi ascoltano: vi esorto, qualora non lo aveste fatto, almeno a rileggerle, se non volete sottoscriverle.

In sintesi, le manovre di austerità che ci vengono proposte sono totalmente assurde, perché qualsiasi studente del secondo anno sa che in un periodo di recessione le politiche di tagli alla spesa, anche se accompagnate da paralleli tagli alle imposte, che peraltro non si vedono, hanno effetti profondamente depressivi. E questo non lo dice Piga o (umilmente) Bagnai, ma Trygve Haavelmo, che ha preso un Nobel per l’economia nel 1989. Siamo insomma in pieno mainstream, come ovviamente non sanno quei buontemponi che mi appiccicano l’etichetta di “antagonista” (a chi?). Oltre a essere totalmente assurde, sono anche contra legem, perché il Trattato sull’Unione Europea prevede che in circostanze eccezionali le regole di “disciplina” fiscale siano sospese (per i dettagli leggetevi Gustavo). Sarebbe quindi il caso che il governo, invece di risparmiare, spendesse, per rilanciare, con il suo stimolo, investimenti e consumi privati. Perché la tanto deprecata “spesa pubblica” si trasforma direttamente o indirettamente in redditi, che vengono poi spesi, cioè (attenzione) consumati dai cittadini, generando altri redditi. Si chiama moltiplicatore keynesiano.

Flashback

Per mia fortuna non butto niente. In questi giorni sto rileggendo, nei rari momenti di meditazione (che, abitando a Roma, capirete voi dove si svolgono), le annate di Linus attorno alla crisi del 1992. Il numero di maggio 1993 si intitolava “Conti in rosso” ed era tutto articolato attorno al tema della temperanza imposta dalla situazione di crisi. Vignetta di Maramotti a pag. 24: una signora dell’alta borghesia sta provando dei vestiti. La sarta le consiglia “se non le piace il ‘poveri ma belli’, se la toppa non le dona, c’è sempre il ‘dignitosa miseria’… Certo, si va un po’ su col prezzo…”. Cosa vedeva Maramotti, cosa vedeva Carlo Oliva, col suo “Elogio della ricchezza” a pag. 16: una cosa molto semplice: si fa presto a deprecare il consumo, quando si ha la pancia piena: “soltanto i ricchi elogiano la povertà”.

Sustine et abstine

Torniamo a Gustavo. Perché il tema della trasmissione era appunto questo: la recessione ci sta imponendo un nuovo stile di vita, sarà migliore, sarà peggiore, che bello il Natale senza sprechi, riscopriamo i valori, ecc. Garruli ascoltatori e ascoltatrici di area cattopiddina intervenivano col solito sms moralista (“meno male che c’è la crisi, finalmente dovremo cambiare il nostro stile di vita insostenibile”). Ma prima chi ve lo impediva?

Perché Gustavo, che è una persona sobria, stava solo cercando di far capire, se posso interpretare il suo pensiero, che la recessione è pericolosa, e che valutare in termini moralistici i consumi, pubblici o privati che siano, identificandoli con spreco e distruzione tout court, non è una strada per uscirne. Il consumo è anche un atto fisiologico: chi non consuma muore. Certo, una parte dei consumi collettivi (spesa pubblica) rischia di trasformarsi in mazzette imboscate all’estero, e certo queste non generano redditi nel nostro paese. Ma questo problema non è stato risolto né dalla destra, né dalla sinistra, né dall’euro, dal cui giogo gli ingenui (?) si aspettavano e tuttora si aspettano anche un’azione moralizzatrice (al grido di “meno male che c’è l’euro altrimenti i nostri governi sarebbero liberi di fare quello che vogliono”. E invece ora…). Lo vogliamo capire? Non è questo il momento per buttare via il bambino con l’acqua sporca. Distinguiamo (non: separiamo) i problemi economici da quelli politici.

Se poi il problema è che siete degli esteti dal palato sopraffino e non vi piace la parola consumo, allora proponetene un’altra. Chi ha la pancia piena ha tanto tempo per pensarci su! Ma il problema ora sono le pance vuote. E questa non è demagogia. Peraltro, il cambiamento dello stile di vita rientra nell’ambito delle scelte individuali. Due anni fa mi si è rotto il decoder e non lo ho ricomprato. Punto. Mi sono finalmente letto Federigo Tozzi (che tristezza, però!). Soltanto i ricchi elogiano la temperanza. Quella altrui, naturalmente. I poveri invece fanno le cambiali e poi si impiccano (la prima delle “Tre croci” di Tozzi, appunto), oppure mangiano fino a schiantare (la seconda), o si ubriacano fino al delirio (la terza). Quindi il consumo non è sempre buono, certo, ma nemmeno sempre cattivo. E in recessione è più buono che cattivo.

Servizio pubblico

E qui so che perderò tanti amici, in particolare M.B., ma non è mia intenzione. La mia intenzione è capire. Da voi sto capendo molto, magari mi aiutate anche in questo caso.

Perché il conduttore, dopo aver congedato Gustavo, ha chiamato in causa una persona della quale non ricordo il nome (sezionare un’oca richiede attenzione), che ha immediatamente aggredito l’assente Gustavo al grido di “non siamo delle termiti” (insetto sociale visto come metafora del consumo irresponsabile… ma perché, poveretto?). Era un anacoreta della decrescita. Il quale, ovviamente, si è subito sperticato in un elogio della crisi (Schadenfreude in variante masochista), che per fortuna ci sta impedendo di consumare il nostro pianeta. Certo. E poi, basta con il Pil, che non è un indicatore attendibile del benessere di una popolazione! Già. E si possono fare mille esempi di riduzione del Pil che costituiscono un aumento del benessere. Bene.

Esempio numero uno. Ogni giorno gettiamo una quantità di cibo buono (cioè ancora consumabile) nelle nostre pattumiere. Se ci limitassimo a non acquistarlo il Pil diminuirebbe, perché si ridurrebbe la deprecabile spesa per consumi, ma non staremmo peggio, anzi: mangeremmo ugualmente e avremmo meno rifiuti da smaltire.
Esempio numero due. Le nostre abitazioni sono estremamente inefficienti. Se avessimo delle case costruite razionalmente, come in Germania (il solito Leitmotiv, o, come diceva un mio studente, “light motif”, della superiorità ariana – Wagner come musica leggera…), sprecheremmo molti meno combustibili fossili per riscaldarle, e quindi il Pil diminuirebbe, perché si ridurrebbe la deprecabile, deprecabilissima spesa per consumi. Ma noi staremmo meglio e non comprometteremmo il futuro del pianeta.
Come è vero, come parla bene, avranno pensato i garruli moralisti di cui sopra. Orsù, compatti, riduciamo il Pil. Meno “pilu” per tutti. Depiliamoci. Un altro haircut.

Coming out: non sono eterodosso

Cosa obiettare a questo Savonarola in sedicesimo (gladiolus Dei super terram)?

L’esempio numero uno funziona benissimo, purché nella pattumiera, al posto del cibo che non sprechiamo, gettiamo i soldi che avremmo speso per acquistarlo. E l’esempio numero due funziona benissimo, purché la casa “ecologica” si costruisca da sola.

Mi spiego. Il nostro stile di vita attuale è evidentemente incompatibile con la sostenibilità ambientale, nel senso che se esso venisse istantaneamente esteso oggi a tutti gli abitanti del pianeta, domani non ci sarebbe più nulla da “consumare”. E infatti invece di guardare il Grande Fratello o l’Inter mi leggo lo sfigatissimo Federigo Tozzi (morto di polmonite per aver dormito con una finestra aperta! Vedi se servono, le case ecologiche…), quindi consumo meno elettricità. Ma il Pil che c’entra? Nemmeno la più becera e oltranzista teoria mainstream della crescita, quella associata a un altro premio Nobel (Robert Solow), prevede che tutti i paesi debbano crescere “a manetta” per sempre. Nella teoria di Solow il tasso di crescita di lungo periodo è la somma di due elementi: la crescita della popolazione (che per noti motivi tende a zero al crescere del benessere), e la crescita del progresso tecnologico.

Ma il progresso tecnologico (cioè la crescita) è proprio… la decrescita! Già. Perché è grazie al progresso tecnologico che le nostre tecnologie possono diventare meno inquinanti (vedi le case teutoniche), e che i nostri consumi si riallocano da beni materiali a beni immateriali. La crescita del Pil non è più fatta solo di altoforni e centrali a carbone. È fatta anche di sviluppo software, agricoltura biologica certificata (e quindi servizi di certificazione), istruzione terziaria, energie rinnovabili, ecc. Tutti consumi ad alto valore aggiunto, che si associano a crescita del Pil (la mela biologica costa più di quella tradizionale, e forse finisce ugualmente nella pattumiera: in ogni caso, non abbiamo necessariamente decrescita, anzi…).
Attenzione: la mia non vuole essere una posizione ingenuamente positivista. Voglio solo attirare l’attenzione su un punto ovvio, sempre lo stesso: il problema è politico, non tecnico. È ovvio che di questa “crescita” buona non ce n’è abbastanza e sarebbe meglio che ce ne fosse di più, che investiamo poco in rinnovabili, in istruzione (non sia mai la gente capisse cos’è l’inflazione!), in tutela del territorio. Se vi piace decrescere, pensate che costa meno, non più,un funerale a valle che una riforestazione a monte, quindi è il funerale che fa diminuire il Pil, mentre la spesa pubblica, correttamente indirizzata, oltre a far aumentare il Pil potrebbe evitare il funerale. In realtà “preferiamo” la crescita cattiva perché l’azione pubblica è indirizzata non da una razionalità collettiva comunque individuata, ma dall’azione di gruppi di potere (lobby), cosa pacificamente ammessa dalla teoria positiva della politica economica. E allora prendersela con il Pil nei termini che vi ho abbastanza esattamente riferito è demagogia.
Perché in fondo il semplice fatto che ci poniamo il problema è una diretta conseguenza del fatto che grazie alla nostra superiorità tecnologica abbiamo abbastanza soldi, cioè abbastanza Pil, in tasca da poterci consentire certe riflessioni.

La Goofynomics della decrescita

Parliamone. L’idea di fondo sembra essere che occorra un cambiamento di stile di vita o un investimento iniziale per ridurre i consumi, ponendo le basi di una decrescita, unica strada possibile per la sostenibilità ambientale. Bene, ripartiamo dalla pattumiera. Cambio il mio stile di vita e compro la quantità giusta di cibo, per cui non lo spreco, i consumi si riducono, io sto meglio, ecc. Ma… mi sono rimasti dei soldi, giusto? Perché se ho comprato meno cibo per nutrire la pattumiera, ho più soldi in tasca, no? E con quei soldi cosa ci faccio?

Ecco, questo Savonarola non lo diceva. Ma non ci vuole molta fantasia per fare delle ipotesi, visto che le possibilità sono due: o li spendo (e allora ho solo sostituito un consumo, indubbiamente dannoso, con un altro, forse meno dannoso, chissà…), o li risparmio. Se li consumo, ovviamente non c’è stata decrescita. Attenzione: non sto dicendo che non ho fatto la cosa giusta: riducendo uno spreco ho fatto la cosa giusta, solo che se poi i soldi li spendo in altro modo il Pil quello era e quello rimane: sarà un Pil migliore, ma non è decresciuto. Se invece risparmio i soldi accantonati riducendo lo spreco, si aprono due scenari: nel caso A il sagace sistema finanziario indirizzerà i sudati risparmi verso il solerte imprenditore che realizzerà qualche suo meritevole progetto (nel qual caso allo spreco di cibo si sostituisce l’acquisto di capitale fisso, e quindi non c’è decrescita, anzi, forse maggiore crescita nel medio periodo); nel caso B la finanza userà questo denaro fresco per gonfiare qualche bolla in giro per il mondo. E quindi da una buona decrescita sarà nata una pessima crescita.
Lo stesso discorso vale per la casa teutonica. A parte il fatto che costruirla costa soldi (ed è un bene spenderli, perché così si dà lavoro), e necessita, tra l’altro, l’importazione di tecnologie e materiali che non abbiamo, immaginiamo che si sia costruita da sola. Poi abitandoci risparmiamo. E con questi risparmi cosa ci facciamo? Mistero. Savonarola su questo taceva, suppongo per motivi di tempo.

Sintesi

Lo so: anche questa sembra Schadenfreude. Ma non lo è o comunque non vorrebbe esserlo. In realtà è un triplice invito.
Primo, capisco la necessità di essere diretti, soprattutto operando nei tempi radiofonici, cerco di esserlo anch’io quando mi intervistano, ma essere diretti non implica necessariamente essere demagogici, cioè privilegiare la capacità di persuasione rispetto alla coerenza logica. Probabilmente nella teoria della decrescita c’è di più di quanto vi ho riferito, ma questo è stato riferito a me e agli altri ascoltatori, e non è colpa mia se la Goofynomics mi obbliga a non fermarmi al primo anello di un ragionamento. Ci sarà pure un modo di essere coerenti e sintetici. Non sto dicendo che chi parlava avesse torto, sto dicendo che non mi ha fatto capire le sue ragioni (e io vorrei capirle), e secondo me non me le ha fatte capire perché ha cercato la scorciatoia del consenso.

Secondo, non esagererei con la retorica dei comportamenti individuali. Certo, è persuasiva, perché ci sentiamo tutti in colpa. Lo sappiamo benissimo che non c’è un singolo motivo al mondo per il quale siamo stati partoriti in Italia anziché in Burkina Faso. È andata così non per nostro merito, ma per caso, per quello che Lucrezio chiamava clinamen. E così se abbiamo sete basta che apriamo il frigo, ma sappiamo che altrove le cose non sono così semplici. E allora l’idea che dobbiamo “punirci” un po’, riformando i nostri consumi, ha un ovvio appeal, e magari è anche giusta, non so. Ma non perdiamo di vista il fatto che oggi il problema globale è non solo e non tanto nel circuito del consumo e quindi nei comportamenti individuali, ma in quello del risparmio e quindi nella struttura del sistema finanziario, cioè in cosa viene fatto coi soldi che individualmente risparmiamo (magari “decrescendo” virtuosamente).

Terzo, starei un po’ attento alle teorie “della Provvidenza”. Quello che ho detto ad agosto, e che Alex illustra con tanti begli esempi, è che le “teorie della Provvidenza” hanno un solo risultato: quello di spianare la strada all’“uomo della Provvidenza”. La cosa più eversiva oggi in Occidente è il buon senso. Quel buon senso dal quale ci vogliono sviare a botte di “neoquesto” e “neoquello”, cercando di convincerci che le “ricette” keynesiane sono vetuste e errate. Purtroppo la decrescita è oggettivamente un pezzo di questo contrattacco: basta pensare che il solerte giornalista di Radio3 l’ha usata come clava per smontare l’appello di Gustavo al buon senso e al vero rispetto dei trattati (sine dolo, naturalmente). Ma rimane il fatto che quelle ricette keynesiane, quel buon senso, sono quanto ha permesso all’Europa del secondo dopoguerra di essere, con tutti i suoi limiti, la società più decente mai sperimentata nella storia dell’umanità. Lo dice il solito Krugman.

P.S.: a proposito di teorie della provvidenza, un’altra teoria che ci salverà (almeno, secondo Paolo Barnard) pare sia la NMT (new monetary theory) di Randall Wray. E quindi ora me la studierò, e comunque vedete che ne parlo e ve la segnalo. Intanto ho visto che Wray è blogger sull’Economonitor di Roubini, insieme al Petersen Institute. Non lo conoscete? Ve lo presento: nel suo board siedono: Stanley Fischer (quello che dirigeva l’IMF quando ha mandato per stracci l’Argentina, per poi passare a Citicorp e infine diventare governatore della Banca d’Israele), Sergio Marchionne (le presentazioni sono inutili), Jean Claude Trichet (ibidem), Paul Volcker, Lynn Forester de Rotschild, ecc. Accipicchia! Se essere antagonisti significa trovarsi in una simile compagnia, quasi quasi mi faccio eterodosso! Non c’è che dire, gli Stati Uniti sono una grande democrazia! Quanta ce n’è! Direi perfino troppa. Sarà per quello che la esportano.

E così ora sono rimasto del tutto privo di amici. Meglio così: non sono mai stato deluso da un nemico!

Fonti

Carlo Maria Cipolla (1974) Storia economica dell’Europa preindustriale (2° ed., 2002), Bologna: Il Mulino, parte seconda, capitolo primo “La rivoluzione urbana”.

Dedicato alla compagna dell’aziendalista teppista, quella che non sapeva dire in cosa avesse limitato i propri consumi.

E a Renato, il violoncellista sanfedista, grande fan (con me) della Natura matrigna, nonostante lui risieda alle falde del formidabil monte sterminator Vesevo. Qui mira e qui ti specchia, secol superbo e sciocco.

Il blog di Bagnai: http://goofynomics.blogspot.com/

Marino Badiale, Fabrizio Tringali, Decrescita si, ma del capitale

marino badialeIl blog “goofynomics”, curato da Alberto Bagnai, ha pubblicato di recente un post di critica alla decrescita. Si tratta di una critica interessante perché è condotta con spirito e garbo, e soprattutto perché rappresenta una piccola antologia delle obiezioni che solitamente vengono portate alla decrescita.

Ci sembra perciò utile provare a rispondere: può essere questa un’occasione per chiarire in una volta sola vari punti relativi alla nozione di decrescita.

Possiamo distinguere le obiezioni di Bagnai in due gruppi: in un primo gruppo mettiamo gli argomenti che sono sì obiezioni, ma non alla decrescita. In un secondo gruppo mettiamo le effettive obiezioni alla decrescita.

Esaminiamo le obiezioni del primo gruppo.

In primo luogo, Bagnai critica in maniera sferzante coloro che pensano che l’attuale crisi economica sia l’occasione per riscoprire costumi di vita più austeri, per superare o ridurre il consumismo, per tornare a rapporti umani più veri. Le critiche di Bagnai colgono perfettamente nel segno, e colpiscono una retorica dolciastra che si percepisce nei media, e che cerca di indorare la pillola dell’attacco inaudito ai diritti e ai redditi dei ceti popolari compiuto in Italia dall’attuale governo di tecnocrati chiamati a realizzare i diktat dell’Unione Europea.

Bagnai ha ragione, ma le sue critiche non toccano la decrescita. Un teorico della decrescita come Serge Latouche ha sempre affermato, con tutta la chiarezza possibile, che, se si rimane nell’attuale società, costruita intorno alla necessità dell’aumento del PIL, la mancanza di crescita è una catastrofe. Infatti, se tutto ciò che serve alla vita si può ottenere solo in cambio di denaro, non aver denaro (o averne meno) significa avviarsi verso la miseria. Questa semplice verità significa che la crisi, da sola, non produrrà nessun rivolgimento morale anticonsumistico: produrrà solo disperazione, e, per reazione, moti politici dagli esiti imprevedibili.

La proposta della decrescita, se pensata seriamente, non è la proposta di un po’ più di austerità o di un po’ meno consumismo. Non ha nulla di moralistico. È una proposta di fuoriuscita dalla società della crescita. Si tratta di liberare la società dalla necessità di aumentare continuamente la sfera della produzione di merci, cioè di beni destinati ad essere scambiati sul mercato, necessità indotta dalla logica dell’accumulazione capitalistica. Siamo costretti a crescere perché il fine della produzione è l’accumulazione di profitti, non la soddisfazione di bisogni.

“Decrescita” non vuol dire dover necessariamente diminuire continuamente la produzione. Si tratta invece di produrre al fine di vivere meglio, non di accumulare capitale. La decrescita vuole abbattere il dogma dell’obbligo della crescita, senza sostituirlo col dogma opposto della “necessità” della diminuzione continua del PIL.

Poiché la crescita è necessaria al capitalismo, che senza di essa non può sopravvivere, “decrescita” significa fuoriuscita dal capitalismo. È insomma una proposta rivoluzionaria. E ha bisogno di una teoria politica che sia all’altezza di tale proposta. C’è chi deplora il consumismo, ma non si rende conto di come esso sia funzionale alle esigenze del capitalismo, né percepisce che la diminuzione “forzata” dei consumi indotta dalla crisi e dalle scelte politiche drammaticamente recessive in atto non è fonte di liberazione, ma è un terribile (e voluto) atto di violenza perpetrato prevalentemente ai danni della fascia più debole di popolazione. Ebbene, chi la pensa così ha poco a che fare col pensiero della decrescita.

La seconda obiezione di Bagnai riguarda il progresso tecnologico. Bagnai afferma che esso è necessario per pensare una società meno distruttiva nei confronti dell’ambiente. Anche qui, la sua obiezione è corretta ma non riguarda la decrescita, i cui teorici hanno sempre dichiarato la necessità di tecnologie opportune. Si tratta semmai di discutere quali tecnologie sviluppare (e quindi, anche, quali non sviluppare), quali filoni di ricerca scientifica incrementare, e così via: ma queste sono le normali discussioni di politica scientifica di un paese democratico, che si svolgono nell’attuale società della crescita e si svolgeranno anche in una futura società diversa.

Passiamo infine a quella che ci sembra rappresenti l’unica effettiva obiezione alla decrescita svolta da Bagnai. Egli nota che una politica di decrescita avrebbe l’effetto di generare risparmio. E si chiede come la gente potrebbe utilizzare il denaro risparmiato grazie, per fare solo un esempio, a politiche di miglioramento del rendimento energetico della abitazioni.

Se lo spende, non c’è nessuna decrescita ma solo uno spostamento nei consumi.

Se lo risparmia, il denaro non può che essere investito nella produzione materiale (e quindi in ulteriore crescita) oppure nella finanza, con l’effetto di crescita (pessima) delle bolle speculative.

È tutto giusto.

Tuttavia la risposta a questa obiezione è semplice: il risparmio generato dalle politiche di decrescita non deve tradursi in aumento del denaro a disposizione del pubblico, ma in diminuzione dell’orario di lavoro, cioè in aumento del tempo libero.

La società della decrescita presuppone una organizzazione sociale che consenta di lavorare meno e recuperare tempo. Tempo da dedicare ai rapporti umani, alle relazioni comunitarie, a produzione e scambio di beni non in forma di merci.

In generale gli aumenti di capacità produttiva dovrebbero essere “investiti” soprattutto in diminuzione del tempo di lavoro, favorendo quindi, fra l’altro, la piena occupazione.

Naturalmente, il fatto che una politica di tipo decrescista si traduca in aumento del tempo libero non è automatico. Nei paesi occidentali da molto tempo gli aumenti di produttività non si traducono in diminuzione dell’orario di lavoro ma piuttosto in aumento dei profitti (e, quando va bene, delle retribuzioni), in diminuzione dei prezzi, in aumento della competitività.

Anche per questo motivo hanno torto coloro che pensano alla decrescita in termini di diminuzione parallela di Stato e Mercato. Per realizzare politiche decresciste efficaci e vantaggiose per i ceti medi e popolari, è necessaria una politica economica coerente coordinata dallo Stato. Ma questa è un’altra discussione.

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