La storia del presente nelle parole di Federico Caffè sulle politiche di appoggio all’austerity di Berlinguer e la retorica dei “sacrifici” di Amendola.
La lettera-accusa di Caffé [pubblicata sull’Espresso dell’11 aprile 1982] punta, infatti, l’indice sulla posizione assunta dai dirigenti del PCI di fronte alle politiche antipopolari del governo Andreotti (aumento del 25% del prezzo della benzina, del 20% del gas, blocco per due anni della scala mobile, abolizione di festività, aumento delle tariffe dell’energia elettrica, telefoniche, postali) che, nell’autunno 1976, aveva scatenato la rivolta operaia. In quel frangente, la CGIL di Lama appoggiò le misure, mentre i dirigenti del PCI (celebri i discorsi davanti ai cancelli delle fabbriche di Napolitano – che ci saremmo poi abituati a vedere “commosso” – e Berlinguer, appunto) diedero il contributo fondamentale a fermare gli scioperi.
In coda al testo, un incisivo intervento di Luciano Barra Caracciolo che spiega la continuità tra le posizioni ordoliberali assunte dal PCI di Berlinguer e le politiche di contrazione del reddito e della protezione sociale più recenti. Testi preziosi per capire cos’è, nella sostanza, il riformismo.
Mi sembra che la caratteristica di maggior rilievo della linea economica del Partito comunista italiano, durante l’ultimo decennio, sia stata quella di un adattamento alle circostanze, in una sostanziale continuità di ispirazione.
Se si prescinde, cioè, dalle polemiche contingenti, lo spirito che condusse Togliatti ad affermare, nell’immediato dopoguerra, che occorreva soprattutto occuparsi della ricostruzione persiste nelle numerose occasioni di appoggio a misure governative rivolte a fronteggiare le difficoltà complesse e continue di questo tormentato decennio.
Nei fatti, malgrado ogni diversa apparenza, può dirsi che le forze progressiste del Partito comunista abbiano accettato un’effettiva, sia pure non dichiarata, politica dei redditi. S’intende che ciò rispondeva al fine politico di una sempre attesa, e sempre rinviata, legittimazione del Partito comunista come forza di governo. Ma ciò non toglie che alla critica sia stata associata una collaborazione che non può essere sottovalutata, in quanto ha contribuito, a mio avviso, al superamento delle vicissitudini congiunturali, pur lasciando irrisolti i nodi strutturali della nostra economia.
Gli effetti sull’economia italiana sono stati, pertanto, quelli di un apporto di rilevante importanza a una gestione dell’economia di corto respiro, che va avanti giorno per giorno, ma senza che siano in vista traguardi plausibili. Frattanto, la critica del cosiddetto assistenzialismo, in quanto si presta a deformazioni clientelari; il ripudio di ogni richiamo alla valorizzazione dell’economia interna, in quanto ritenuta contrastante con la “scelta irrinunciabile” dell’economia aperta; il frequente indulgere al ricatto allarmistico dell’inflazione, con apparente sottovalutazione delle frustrazioni e delle tragedie ben più gravi della disoccupazione, costituiscono orientamenti che, seguiti da una forza progressista come quella del Partito comunista, anche se in modo occasionale e non univoco, possono contribuire ad allontanare, anziché facilitare, le incisive modifiche di fondo che sono indispensabili al nostro paese.
In ultima analisi, ho l’impressione che l’acquisizione del consenso stia diventando troppo costosa, in termini di sbiadimento dell’aspirazione all’egualitarismo, della lotta all’emarginazione, dell’erosione di posizioni di privilegio: aspirazioni che si identificano in quel tanto di socialismo che appare realizzabile nel contesto del capitalismo conflittuale con il quale è tuttora necessario convivere.
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