Gli abitanti di Rockaway, la zona di New York maggiormente colpita dall’uragano Sandy, hanno dovuto aspettare un mese prima di vedere apparire il sindaco Bloomberg. I venti km di distanza dal suo ufficio di Manhattan li ha percorsi in elicottero. All’arrivo ha trovato un «comitato» di accoglienza poco incline ad ascoltare discorsi di circostanza e la visita del primo cittadino è durata un’ora scarsa tra proteste e un po’ di insulti. Il ritorno è avvenuto via terra con una decina di macchine di scorta. A quaranta giorni dall’uragano, più di 60 mila abitanti di Rockaway, oltre ad avere le case distrutte o lesionate, non hanno ancora l’acqua e l’energia elettrica. Da settimane non si vedono più nemmeno i funzionari della Croce Rossa e della Fema, una specie di protezione civile. Nelle strade, tra le macerie, nei punti di distribuzione dei pasti e dei generi di prima necessità si vedono solo gli attivisti di Occupy Sandy.
Alla catastrofe naturale, e qui ci sarebbe molto da dire sulla sua «inevitabilità», si è aggiunta quella dei soccorsi gestiti dall’amministrazione pubblica e dagli enti preposti. A tal punto che si è anche assistito ad alcuni episodi a dir poco imbarazzanti. Una quindicina di giorni fa davanti alla chiesa episcopale di Brooklyn, che funziona come magazzino di smistamento degli aiuti di Occupy Sandy, sono arrivati alcuni automezzi pesanti con le insegne del Dipartimento di Polizia di New York. I presenti, memori della repressione di Occupy Wall Street e dello sgombero di Zuccotti Park, hanno allertato tutti i volontari e gli attivisti temendo l’ennesima operazione di polizia. Nulla di ciò. Un poliziotto scendendo dal primo camion ha comunicato che quelli erano gli aiuti raccolti tra gli agenti di polizia e che, dopo vari tentativi, non sapeva dove e a chi consegnarli per la distribuzione nei quartieri colpiti. I responsabili del gruppo di Occupy Sandy che si occupa della «formazione» dei nuovi volontari, che ogni giorno arrivano, sono stati contattati dai funzionari della Fema – l’agenzia governativa che dovrebbe avere tra i suoi compiti anche i pronto intervento in caso di disastri naturali – per verificare la loro disponibilità a organizzare brevi corsi intensivi di «preparazione a stabilire rapporti con le popolazioni colpite» rivolti al personale dell’agenzia. Gli automezzi della polizia sono stati scaricati, non senza discussioni tra i volontari sull’opportunità di farlo, e la richiesta della Fema è stata rispedita al mittente. Il 27 novembre scorso i residenti di Red Hook, un quartiere a basso reddito di Brooklyn allagato dall’uragano, esasperati dalla lentezza degli interventi per il ripristino dell’energia elettrica – a differenza della rapidità con cui sono avvenuti a Wall Street e dintorni – insieme a Occupy Sandy hanno portato un po’ di fango e macerie davanti alla sede della New York City Housing Authority, l’ente che dovrebbe gestire i programmi di edilizia residenziale pubblica.
Una prima iniziativa di protesta pubblica frutto delle relazioni che Occupy Sandy ha costruito durante la sua opera di soccorso. Aiuto reciproco e non carità, questo è stato l’intento che fin dall’inizio ha mosso molti attivisti di Occupy Wall Street nel dar vita all’esperienza di Occupy Sandy. Le reti di solidarietà costruite durante l’emergenza, le assemblee di isolato per la distribuzione degli aiuti, la convinzione della necessità di ambiti plurali e orizzontali per stabilire le priorità degli interventi di ricostruzione, il continuo sforzo per impedire che si affermassero logiche e gerarchie di «comunità» hanno posto le basi affinché, anche nel disastro provocato dall’uragano, si cogliesse l’opportunità di un protagonismo sociale che mettesse in discussione le forme e gli assetti del potere politico ed economico. Dal soccorso della popolazione colpita alla resistenza nei confronti dei progetti, più o meno espliciti, delle lobbies che sostengono il governo della città e degli squali di Wall Street. La ricostruzione di Rockaway, un lembo di terra che si affaccia sull’Atlantico, è vista come una grossa opportunità per fare profitti da parte delle grandi banche e delle società finanziarie. Già circolano le prime ipotesi di grandi alberghi, residenze di lusso, di committenze a grandi firme dell’architettura mondiale. Prima però bisogna, in qualche modo, cacciare i residenti. E come succede spesso in questi casi gli strumenti che vengono usati vanno dal rendere sempre più precaria e difficoltosa la loro vita alla promessa di incentivi per trasferirsi in altre zone della città che non sono ancora nel mirino della speculazione immobiliare, perché troppo degradate. Le grandi metropoli come New York sono soggette a continue trasformazioni dell’assetto urbano che sono sostenute, nella «produzione dello spazio», dall’incessante azione dei meccanismi della rendita che valorizzano anche le catastrofi definite naturali.
E l’uragano Sandy a New York, come fu del resto sette anni fa l’uragano Katrina a New Orleans, è un’ottima occasione per trarne profitto. In uno studio a cura del gruppo Strike Debt si mostra come a New Orleans, dopo l’uragano, decine di migliaia di persone non hanno più fatto ritorno alle proprie abitazioni perché, nei fatti, costrette ad accettare gli «incentivi» della Fema e della Helliburton. Quest’ultima già tristemente famosa per i contratti stipulati per la ricostruzione dell’Iraq dopo aver contribuito alla sua distruzione con l’ingaggio di migliaia di mercenari che supportavano l’esercito americano. A New Orleans, dopo l’uragano, gli abitanti sono diminuiti e i senza casa sono raddoppiati. Per evitare che anche a New York si prospetti lo stesso esito, seppur su scala minore, Occupy Sandy ha indetto per il prossimo 15 dicembre una giornata di mobilitazione in tutte le zone più colpite. Ci saranno iniziative coordinate che arriveranno fin sotto le finestre del sindaco Bloomberg e nei pressi Wall Street.
http://www.connessioniprecarie.org/2012/12/10/occupy-sandy-dal-soccorso-alla-resistenza/
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