Da più fronti, quello popperiano e la filosofia della differenza, per citarne solo alcuni, il 900 è stato fortemente critico verso il progetto platonico tratteggiato nella Repubblica.
I suoi difensori hanno invocato il carattere utopico della sua politica, pochi invece insistono sulla sua “normatività”. Tratto da Micromega.
La Repubblica di Platone non cessa di suscitare, fra i filosofi e i commentatori, un dibattito intenso e controverso, tanto dal punto di vista del progetto etico e politico che disegna, quanto sul piano delle implicazioni psicologiche, epistemologiche e ontologiche connesse alla definizione del sapere dei filosofi che, secondo Platone, devono essere collocati alla guida di tale progetto.
Non è questo, naturalmente, il contesto opportuno per suggerire un’interpretazione d’insieme della Repubblica; quanto mi propongo è, più modestamente, di segnalare alcune delle principali linee di discussione emerse nel dibattito del XX secolo e limitatamente all’esame del progetto platonico della καλλίπολις.
Una difficoltà preliminare, che va in qualche modo immediatamente affrontata, riguarda proprio l’oggetto del dialogo: se Diogene Laerzio non mostra dubbi nel catalogare la Repubblica fra i dialoghi politici di Platone (III 50-51), è abbastanza facile constatare come l’opera sia caratterizzata da un intreccio tematico che non si lascia sciogliere in una scansione disciplinare ben determinata, se non al prezzo di schematizzazioni in parte forzate.
Il dialogo, infatti, si snoda come segue:
mentre il libro I introduce il tema della giustizia, della sua natura e della sua definizione, con un’andatura e uno stile che ricordano abbastanza esplicitamente le indagine socratiche condotte nei cosiddetti “dialoghi giovanili”, con la consueta contrapposizione, a tratti assai violenta, alle posizioni ascrivibili alla sofistica;
a partire dal libro II, il problema della giustizia viene esteso, per analogia, all’ambito della costituzione e della struttura della città, forse meglio identificabile per il suo carattere concreto e storicamente determinato (368b-369b), con il tentativo, condotto ancora
nel libro III, di effettuare una ricognizione completa della struttura socio-istituzionale della città, con l’individuazione delle classi che la compongono e con la rigorosa ripartizione dei compiti e delle funzioni che a ciascun cittadino sono assegnati.
Ma è il libro IV che produce una svolta nell’analisi, perché, riproponendo l’analogia fra l’indagine sulla giustizia a livello individuale e al livello della città, giunge a stabilire la sua definizione universale come consistente nell’esercizio, per ogni individuo (e per ogni componente psico-fisica di ogni individuo) o per ogni agente istituzionale (cittadino, classe sociale, città), della sua funzione propria: la giustizia è, di conseguenza, τά έαυτου πράττϵιν (433a), in base al principio, che rappresenta un filo conduttore narrativo e a un tempo un nucleo teorico situato, implicitamente ed esplicitamente, al cuore della Repubblica, secondo cui l’esercizio, da parte di ogni elemento particolare di un insieme, della propria funzione naturale compone, garantisce e preserva l’equilibrio armonico dell’insieme, dunque, in tal senso, la sua τάξις, che coincide di fatto con la “giustizia” della sua disposizione strutturale e funzionale.
A partire dal libro V, la sfida rivolta a Socrate dai suoi interlocutori consiste nel precisare le condizioni di possibilità di una simile struttura istituzionale, di cui vengono fissate dapprima le “scandalose” tappe socio-politiche, con le celebri “ondate” relative alla necessità della comunanza pianificata della proprietà, della produzione dei beni e della procreazione, fino alla più ardua esigenza del governo dei filosofi.
Particolarmente quest’ultimo assunto richiede, dall’ultima parte del libro V e fino al VII, una rigorosa giustificazione, che si articola attraverso un’assai complessa dimostrazione che sancisce la differenza fra il sapere dei filosofi e le opinioni degli uomini comuni, premessa indispensabile per spiegare e difendere il ruolo dominante dei filosofi nella città, e di seguito stabilisce l’opportuno curriculum formativo dei futuri filosofi-governanti.
Il libro VIII esamina poi, con il rigore diagnostico di una vera e propria analisi sociologica della natura e delle degenerazioni del potere politico nella dialettica del suo esercizio istituzionale e sociale, le diverse forme di governo storicamente corrispondenti alle forme assunte come canoniche nel pensiero politico greco e, del resto, di fatto coincidenti con i principali generi di regime concretamente prodottisi nel mondo greco, cui segue,
nel libro IX, una ripresa del tema originale della giustizia, al fine di dimostrare, tornando nuovamente sul piano psicologico individuale, la superiorità e la felicità del giusto rispetto all’ingiusto, in virtù del parallelismo stabilito, sul piano della forma di governo, con la relazione fra il sistema istituzionale più giusto rispetto all’ingiusto.
Il dialogo, che potrebbe a questo punto dirsi compiuto, prosegue invece nel libro X, nel quale si torna, pur se con accenti diversi, sulla giustificazione della superiorità del sapere dei filosofi, che va assunto come paradigma pedagogico e gestionale della condotta individuale e collettiva, rispetto al sapere comune rappresentato dalle forme abituali della cultura tradizionale, per esempio dell’arte imitativa e della poesia, epica o tragica. Un lungo e complesso monologo mitologico, dedicato all’esposizione del destino dell’anima individuale nel corso della sua vicenda immortale, conclude la Repubblica, trasponendo di fatto l’affermazione della superiorità e della desiderabilità della giustizia rispetto all’ingiustizia, dall’ambito psico-fisiologico e socio-politico all’ambito propriamente metafisico ed escatologico.
Di fronte a un’articolazione tematica così complessa, è inevitabile chiedersi dove si collochi esattamente il nucleo propriamente “politico” del dialogo, a meno che, naturalmente, non lo si voglia identificare nella messa in scena dei personaggi, con i loro diversi ruoli dialettici, o nella continuità della sequenza argomentativa che essi costruiscono, ma si tratterebbe, a mio avviso, di un’evidente diminutio.
Del resto, come ha osservato Vegetti[1], è possibile individuare alcune linee di riflessione abbastanza nette nella concezione platonica della politica: dalla definizione dello statuto del governo della città, con la determinazione dei requisiti per accedervi, degli obiettivi da raggiungere e degli strumenti di consenso per conservarlo, alla corrispondente struttura sociale, economica e istituzionale della città, con l’esame dei rapporti di classe cui essa dà luogo e delle diverse possibili situazioni concrete in cui la città storicamente si trova (in pace o in guerra, stabilendo oppure no relazioni di scambio con altre città e così via).
Il punto di partenza abituale per questa indagine è rappresentato dalla constatazione che la città esistente è “malata” (VIII 544c) e che occorre pertanto studiare le cause e il decorso di questa malattia per poterla curare e per poter infine proporre un modello istituzionale immune da tali rischi; il sintomo principale della malattia della città è il conflitto perdurante, non solo nell’Atene di Platone, fra le sue distinte componenti sociali, la στάσις, che produce una sorta di guerra civile permanente, interna alle singole città oppure fra le diverse città del mondo greco: in questo ambito, l’imputato principale è certamente il regime democratico ateniese, che Platone considera come ineludibilmente esposto all’esito di una degenerazione demagogica, coincidente con l’asservimento dei fini di governo alle spinte irrazionali provenienti dalla massa e dunque in contraddizione radicale con il principio platonico del perseguimento del bene, individuale e collettivo, sulla base del sapere[2].
Si è ricordato poco sopra, nella forma sintetica e puramente riassuntiva del resoconto dell’argomento della Repubblica, quali siano gli elementi principali della “cura” che Platone suggerisce per guarire la “malattia” della città: si tratta di stabilire un’organica distribuzione di funzioni e compiti basata sulla natura e le competenze di ogni individuo e di ogni gruppo sociale che componga un equilibrio efficiente e armonico.
La condizione di realizzabilità di questo sistema organico viene individuata da Platone attraverso l’attribuzione del governo a un gruppo quantitativamente ristretto di “sapienti”, i filosofi, che svolgono la propria funzione direttiva in virtù della facoltà e delle competenze razionali che prevalgono in loro; a questo gruppo dirigente Platone associa un gruppo più numeroso, composto dai “guerrieri”, che, rigorosamente subordinato al primo e in esecuzione delle direttive di quello, opera le funzioni di controllo e di salvaguardia dell’ordine pubblico, come un apparato di sicurezza che garantisce, in virtù del proprio carattere “aggressivo”, la conservazione dell’insieme; a un terzo e ultimo gruppo sociale, il più numeroso, appartengono infine compiti produttivi e commerciali, indispensabili al benessere della città e tuttavia necessariamente sottoposti al controllo e alla disciplina imposta dei gruppi superiori, per evitare che l’elemento individualistico e potenzialmente capace di sovvertire l’equilibrio dell’insieme, connesso alla produzione, all’accumulo e allo scambio di ricchezze, possa incrinare la buona disposizione della città.
Da questa rigida scansione gerarchica derivano altrettante conseguenze, teoriche e pratiche, sul piano dell’ingegneria politica e istituzionale. A garanzia dell’obiettivo generale perseguito dall’azione dei governanti, e dell’applicazione esclusiva di un criterio razionale nell’esercizio di tale azione, Platone prescrive la norma che estirpa ogni possibile fonte di interesse o inclinazione individuale nella formazione e nella vita quotidiana dei membri di questo gruppo: la collettivizzazione patrimoniale e affettiva e, subito oltre, la durissima selezione, genetica e pedagogica, dei filosofi mirano precisamente a sancire le condizioni necessarie per l’accesso al potere e per il suo esercizio.
E, nonostante la complessa articolazione di questo percorso di analisi e prescrizione politica, Platone avverte, e dunque fa emergere con acutezza, l’inevitabilità della degenerazione di ogni forma istituzionale, che, per quanto vicina al modello descritto, si trova esposta alla natura instabile delle vicende umane e della storia o, in altre parole, alla caratteristica deficienza ontologica del mondo sensibile, irrimediabilmente vincolato al divenire in opposizione all’eterna stabilità del modello ideale intellegibile.
Lo sfondo del dibattito novecentesco intorno all’etica e alla filosofia politica della Repubblica è rappresentato certamente, e tuttora, dalle violente accuse che Karl Popper ha rivolto a Platone in The Open Society and its Enemies (Popper 1944). Come è noto, secondo Popper, Platone avrebbe, per un verso, preteso di identificare le “leggi della storia” e, con esse, di predeterminare lo svolgimento e la realizzazione delle vicende umane e, particolarmente, della condizione dell’uomo e della sua funzione in seno alla città e allo stato; per altro verso, e di conseguenza, avrebbe costruito nella Repubblica uno schema socio-istituzionale fondato su una serie di principi a-priori che sono finalizzati alla realizzazione della felicità collettiva, a scapito di ogni forma di individualismo e di libertà o inclinazione individuale.
Quella platonica si configurerebbe perciò come un’“utopia totalitaria”, nella misura in cui il carattere utopico dipende appunto dal riferimento a un set di principi eterni e immutabili “posti in cielo”, cui ispirarsi e da riprodurre nell’azione politica e istituzionale, che sfocia a sua volta in una prospettiva totalitaria in quanto, per realizzare questo progetto, occorre piegare qualunque tendenza soggettiva dei singoli cittadini alla superiore esigenza di costituire una società perfetta, sacrificando intereressi e opzioni delle parti in nome della suprema indicazione del benessere e dell’efficienza del tutto[3].
Ora, come è noto, l’accesa requisitoria di Popper ha suscitato un’ampia serie di reazioni, per lo più dominate dall’intento, del resto in gran parte esplicito, di difendere Platone dalle accuse rivoltegli, finendo spesso, tuttavia, per optare piuttosto per uno sforzo implicito di difendere Platone da se stesso, senza invece operare un’attenta disamina, storica e filosofica, dei presupposti esegetici della ricostruzione popperiana – senza considerare, insomma, che l’estraneità di Platone alla tradizione etica e politica liberale o democratica, denunciata da Popper, potrebbe evidenziare più che un limite o una colpa da ascrivere allo stesso Platone, un presupposto interpretativo miope, che a sua volta non tiene conto dei diversi momenti della storia del pensiero, quasi assumendo il liberalismo moderno come la dottrina definitiva e definitivamente stabilita in base alla quale misurare, e giudicare, i pensatori del passato.
È chiaro come, adottando simili strategie difensive, ancora oggi ben presenti e documentabili negli studi recenti, si corra il rischio di indebolire e depotenziare la riflessione politica di Platone, neutralizzandola sotto ogni profilo, pur di evitare, di fronte alla constatazione innegabile che egli non fu un liberale e un democratico, di farne un nemico della libertà e della democrazia, un pensatore totalitario diretto precursore dei regimi dittatoriali del novecento[4].
Un’analoga strategia, almeno rispetto alla tesi secondo la quale non bisogna considerare come autenticamente platoniche le affermazioni relative alla καλλίπολις e al progetto politico della Repubblica, si ricollega ai nomi di due celebri filosofi del Novecento: Hans-Georg Gadamer e Leo Strauss.
Gadamer (cfr. specialmente Gadamer 1934 e 1983), come è noto, ha insistito sul carattere esclusivamente utopico della costruzione politica di Platone: ponendosi fondamentalmente come un socratico, più attento alle esigenze del metodo della ricerca della verità che non alla determinazione di una prospettiva dogmatica, Platone avrebbe rappresentato nella Repubblica (ma ancora fino alle Leggi) una città immaginaria, edificata come fantasiosa e piacevole evasione nella mente e non certo nella concretezza della realtà e della storia, il cui scopo si riduce essenzialmente al gioco puramente astratto del confronto intellettuale, così sistematicamente minimizzando i forti richiami platonici alla realtà attuativa del suo progetto politico e naturalmente tutti i riferimenti storici e biografici che testimoniano del suo specifico interesse e impegno negli eventi politici del suo tempo.
Appena più avvertita nell’esigenza di un esame più accorto e verosimile dello stile narrativo di Platone si presenta la strategia esegetica straussiana, riconducibile, nelle sue linee generali, a Strauss 1964 (pp. 50-138). La ragione per cui non si deve prendere alla lettera la riflessione politica condotta nella Repubblica, secondo Strauss, non attiene ai tratti utopici del progetto che vi è disegnato, ma alla caratteristica modalità della “dissimulazione” che Platone avrebbe messo in atto, allo scopo di evitare il rischio di urtare la morale prevalente e la communis opinio dei suoi contemporanei, di incorrere in contrasti o punizioni da parte dell’autorità.
Non si tratta soltanto di nascondere, tramite prudente reticenza, le proprie tesi autentiche, ma di proporre alternativamente, dissimulandone i contenuti attraverso un complesso schema dialogico che ne cela ironicamente i contenuti effettivi, un progetto ben preciso, i cui contorni risultano identificabili e accessibili ai lettori che sappiano oltrepassare l’immediatezza letterale di quanto Platone scrive, per cogliere i riferimenti esoterici che egli tratteggia attraverso gli articolati scambi dialogici fra i suoi personaggi.
Incontriamo qui il nucleo originario del cosiddetto “dialogical approach”, che prende le mosse dalla constatazione banale che Platone non si esprime mai in prima persona nelle sue opere e che pertanto, anche nell’ipotesi che egli si serva di alcuni dei suoi personaggi come propri portavoce, resta l’asimmetria o la discrasia, più o meno profonde, fra autore e attore del dialogo, più ancora nel caso di Socrate, protagonista indiscusso della maggior parte dei dialoghi, il cui ruolo di portavoce di Platone deve comunque fare i conti con la ben nota attitudine all’ironia che tradizionalmente viene associata al suo nome.
Questo intreccio di portavoce e di interlocutori implica la stratificazione, nei dialoghi, di punti di vista e di livelli di comunicazione distinti, ed è appunto dalla decifrazione di questo meccanismo di stratificazione di personaggi e di piani di comunicazione che dipende la possibilità di apprezzare l’autentico contenuto esoterico del pensiero platonico. Nel caso specifico della Repubblica, essa andrebbe letta, secondo Strauss, in stretto rapporto con la commedia aristofanea, ripercorrendo così con vivace ironia i tratti esclusivamente ironici, e perciò dissimulatori, del progetto platonico.
Il disegno fondamentalmente comunistico della Repubblica, che recide ogni aspirazione e dimensione individuale, trascurerebbe volutamente, e perciò ironicamente, gli impulsi riconducibili al corpo, alle differenze specifiche dei singoli cittadini e di genere fra i sessi, manifestando così il suo carattere assolutamente contro natura e perciò ideale, e in tal senso utopico, e dunque di fatto consapevolmente impossibile rispetto alla sua realizzazione concreta. Gli stessi filosofi che dovrebbero governarla appaiono estranei alla καλλίπολις, dalla quale si ritirano volentieri, come mostra il libro VII, per accedere alla contemplazione delle idee. Impossibile e perfino indesiderabile, la città ideale della Repubblica avrebbe allora solo il fine di denunciare i limiti di ogni progettualità politica che, secondo la nota concezione straussiana, deve astenersi dall’invadere gli spazi propri della filosofia e della teologia.
Non pochi interpreti recenti, specie in ambito anglo-americano, hanno approfondito, più o meno criticamente, l’esegesi straussiana della Repubblica: chi riflettendo sulla relazione fra scrittura ironica o “dissimulatoria” e carattere utopico del dialogo[5]; chi sottolineando soprattutto gli elementi, già indicati da Strauss, dai quali si evincerebbe l’esigenza di una comprensione esoterica del dialogo, mostrando come la repressione dell’eros, esplicitamente sancita dalla legislazione, risulti incompatibile con la naturale condizione umana e, a un tempo, con l’investimento psicologico necessario alla realizzazione del progetto politico[6]; chi, infine, valorizzando e radicalizzando, nell’approccio straussiano, la conclusione relativa all’egemonia della filosofia (ma non della teologia!) rispetto alla politica, sostenendo la superiorità di quella rispetto a questa come oggetto privilegiato della riflessione condotta nella Repubblica, con un’analoga e parallela valorizzazione, al livello dell’anima, della funzione razionale e conoscitiva rispetto alle altre e rispetto anche all’equilibrio dell’insieme[7].
Una più matura e articolata presa di posizione è quella, recente, di Rosen 2005, che, distaccandosi in parte dalla sua interpretazione precedente (difesa in Rosen 1990), riconosce l’effettiva serietà teorica e progettuale della Repubblica, ma fissandone alcuni limiti insuperabili: ogni forma di riflessione politica, che abbia come scopo il mutamento sociale e l’instaurazione di un nuovo sistema, è esposta al rischio, o piuttosto alla necessità, della degenerazione; la filosofia stessa, quando si assuma il compito dell’esercizio del potere e del governo dello stato, non può che declinare verso la tirannide, quasi capovolgendo le proprie stesse premesse teoriche e ideali[8].
Come si vede, al centro di questi complessi, e talora assai contorti, tentativi esegetici, si colloca, pur se con diverse sfumature e da diversi punti di vista, la questione della cosiddetta “utopia” platonica, come forma estrema di difesa, o via di fuga, dalle accuse popperiane di totalitarismo politico. Ma, che si evochi un’utopia “fantastica” o un’utopia “dissimulatoria”, pare impossibile non tenere conto dei numerosi richiami, contenuti nella Repubblica, all’essenziale problema della concreta realizzabilità del modello che viene via via disegnato (cfr. per esempio 450d, 458a-b, 499c etc.), anche se, appunto in virtù della differenza fra il modello ideale “nel cielo”, eterno e perfetto, e il mondo sensibile del divenire e della storia, le condizioni di possibilità di tale realizzazione sono ardue e di difficile attuazione (cfr. per esempio 499d, 502c, 504d etc.).
Il tratto utopico del progetto della Repubblica risiede allora nello iato che inevitabilmente sussiste fra la perfezione del modello, che nulla, tuttavia, rende di per sé oggettivamente irrealizzabile, e le sue condizioni di possibilità, che si scontrano invece con l’altrettanto inevitabile imperfezione della sua realizzazione. Ma questo tratto utopico non dipende dal progetto platonico, la cui perfezione ideale costituisce anzi, per il suo valore paradigmatico, il principale elemento di forza e di attrattività politica, bensì dalla dimensione pratica e concreta nella quale occorre realizzarlo, secondo un gesto filosofico non dissimile da quello che caratterizza il mito cosmologico del Timeo, in cui un divino demiurgo, la cui azione si basa su una perfetta riproduzione degli altrettanto perfetti modelli ideali, produce il mondo sensibile come “il migliore possibile” – “bello”, dunque, ma “meno bello” del suo modello ideale – e ciò in ragione dei limiti e dell’imperfezione del materiale concreto di cui egli dispone per la sua opera (cfr. Tim. 29e-30b).
In questa misura, ed entro questi limiti, è certo possibile individuare una tensione utopica nella riflessione politica di Platone, appunto quella tensione insopprimibile determinata dalla distanza mai definitivamente colmabile fra il modello e la sua realizzazione concreta, e a un tempo, per converso, dall’attrazione mai sopprimibile che quello esercita su questa, come molti hanno recentemente sottolineato[9].
Nello iato così determinato, fra il modello e la sua realizzazione concreta, si apre lo spazio per l’elaborazione di una vera e propria teoria normativa, con l’indicazione di una serie di requisiti necessari per la sua attuazione efficace, che, per quanto a loro volta di difficile applicazione, appaiono nuovamente non impossibili, in linea teorica, rispetto alla loro esecuzione: il governo dei filosofi, o la conversione dei governanti alla filosofia, rappresenta da tale punto di vista la prescrizione fondamentale che, abbinata a un rigido controllo sociale, può indirizzare la costituzione della “città in terra” a imitazione della “città in cielo”[10].
Si noterà come, a questo punto, il quadro esegetico intorno all’interpretazione “politica” della Repubblica si collochi al di fuori della gabbia polemica costruita da Popper, ma accettata di fatto anche dai suoi critici, che intendeva imbrigliare la riflessione politica di Platone all’interno del confronto esclusivo con il pensiero liberale e democratico moderno e della sua contrapposizione, tutta novecentesca, alle contemporanee dottrine totalitarie; gli sviluppi più recenti fin qui descritti per sommi capi, con le relative acquisizioni esegetiche, ormai abbastanza diffuse, e a mio avviso assai salde specie fra gli scholars continentali, ci restituiscono un Platone estraneo, perché non assimilabile neanche in linea di principio, tanto al liberalismo quanto al totalitarismo, un Platone attraverso il quale tornare a pensare ai termini generali della progettualità della politica, dei suoi requisiti normativi, giuridici e istituzionali, e alle condizioni della sua azione concreta, nella società e nella storia degli uomini.
Questo testo ha fatto da base all’intervento sullo stesso tema realizzato da Francesco Fronterotta per l’Osservatorio filosofico
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Note
[1] Vegetti 2009, pp. 19-24; cfr. inoltre Schofield 2006 e, più in generale in riferimento alla riflessione politica classica, Schofield 1999.
[2] Particolare attenzione alle forme e ai contenuti della critica platonica alla democrazia greca da parte di Bertelli 2005 e Pradeau 2005, pp. 85-101.
[3] Si vedano, per un’efficace sintesi delle accuse di Popper al progetto politico platonico, il capitolo 5 di Schofield 2006 e Vegetti 2009, pp. 109-17.
[4] Faccio ancora riferimento, in quanto segue, alla felice sintesi proposta da Vegetti 2009, pp. 122-42 e 145-67.
[5] Morrison 2007.
[6] Roochnik 2003, per esempio pp. 69-77; si veda inoltre, più in generale, Ludwig 2002.
[7] Ferrari G.R.F. 2003 e, con particolare riferimento all’esame delle funzioni dell’anima, Ferrari G.R.F. 2007b.
[8] Rosen 2005, p. 229. Sul rapporto fra filosofia e politica, e particolarmente fra filosofo-re e tiranno, in riferimento alla Repubblica e più in generale nel pensiero greco contemporaneo, si vedano Vegetti 2000b e i saggi raccolti in Lisi-Pradeau 2009.
[9] Cfr. per esempio, con sfumature diverse, Burnyeat 1992, Schofield 2006, pp. 199 ff., Morrison 2007, p. 247, e soprattutto, in termini più realistici, Vegetti 2000a, Vegetti 2005, Vegetti 2009, pp. 161-67; per quanto riguarda gli sviluppi del disegno “utopico” nel posteriore pensiero politico di Platone, nel Politico e nelle Leggi, cfr. Rowe 1999 e Laks 2005; infine, per la questione più generale dell’utopia nel pensiero greco, cfr. Dawson 1992.
[10] Zuolo 2009.
_____è Professore associato di Storia della filosofia antica presso la “Sapienza” – Università di Roma. Su Platone ha pubblicato, tra l’altro, Methexis. La teoria platonica delle idee e la partecipazione delle cose empiriche. Dai dialoghi giovanili al Parmenide, Scuola Normale Superiore – Pubblicazioni della Classe di Lettere e Filosofia, Pisa, 2001.
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