Per un nuovo 89, 77, 68, 17, l’appello di Francesco Lizzani, professore di Filosofia e Storia al Plauto di Roma, al Terzo stato dell’istruzione:
con una classe cosiddetta dirigente di tale leva non è più il tempo per i cahiers de doléances; nulla potremo più ottenere per una vera buona scuola da questo ceto di governo parassitario e ignorante. È tempo ormai di riprendere in mano il nostro destino comune, di riunire in un fronte comune il nostro “ordine” nella sua interezza, dalla scuola primaria all’università, di riconoscere il nostro “Terzo Stato” come unico e legittimo rappresentante dell’istruzione italiana e dei suoi interessi comuni, contro gli altri due Ordini (quello dei politici-demagoghi e quello della burocrazia pervasiva) che hanno scippato le chiavi di casa nostra, e trasformato il nostro esercito in una massa di manovra per ordini sbagliati e contrari alle finalità per cui siamo (mal) retribuiti.
In coda altre lotte per le stesse ragioni: la battaglia persa dagli insegnanti messicani nel 2006 e quelle vinte dalla scuola canadese e dagli insegnanti di Chicago nel 2012.
Seicento docenti universitari si sono appellati al governo per denunciare la diffusione di lacune ormai ai limiti dell’analfabetismo nell’italiano degli studenti che approdano alle loro aule. La notizia sorprende non certo per il problema, con cui il mondo della scuola si confronta da anni, ma perché il grido di allarme si leva ora dal piano più alto del sistema formativo. Come’è possibile, in effetti, che il progresso secolare della scolarizzazione e poi dell’informazione globale producano un effetto simile?
Riecheggia, nell’appello, lo stesso smarrimento che suscitano i paradossi e gli eventi incomprensibili, a fronte dei quali la mente reagisce come fossero calamità fatali. Lo conferma l’indirizzo a cui è rivolto, come se il governo italiano fosse un ramo della protezione civile, il pronto soccorso a cui richiedere ambulanza e medicine, e non la malattia da curare.
Ora, si può anche sostenere che un disastro culturale di tali proporzioni è un fenomeno indipendente dal governo politico della scuola, l’inevitabile prezzo da pagare al processo epocale della scolarizzazione di massa, alla democrazia dell’istruzione, a una mutazione antropologica irreversibile. Cosa può fare un governo per porvi rimedio? Ma se lo spazio di manovra della politica è innanzitutto uno spazio simbolico, il primo compito della politica, anche nel campo della scuola, dovrebbe essere quello di lanciare messaggi, indicare una rotta, esprimere un’idea di fondo della scuola e dell’istruzione. Mai come prima il governo Renzi ha imboccato questa strada, in effetti. Ma nella direzione opposta a quella necessaria: la strada della demagogia, dell’ideologia, della propaganda.
La riforma della scuola più sgangherata della storia dell’istruzione italiana è stata intitolata “la buona scuola”, un caso da manuale di fallacia logica pubblicitaria. L’alternanza scuola-lavoro, che distrae gli studenti dallo studio nel momento culminante della formazione secondaria gettando nel caos scuole e università, non solo tradisce il significato originario della parola “scuola” (tempo libero, in greco, inteso come tempo del pensiero sottratto alle necessità della sopravvivenza, al lavoro) ma spaccia a basso costo l’ ideologia di una “scuola che serve a qualcosa”, con la falsa promessa che l’intrattenimento improvvisato di qualche settimana serva davvero a facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro.
Il 6 di media per l’ammissione alla maturità renderà possibile abbattere ulteriormente le competenze minime nelle materie di indirizzo, prima fra tutte proprio l’italiano. E infine – abisso di demagogia a cui nessun governo era mai arrivato prima – i 500 euro lanciati ai giovani come circenses alla plebe, sotto il titolo di un “bonus cultura”, già nel nome spacciano il messaggio di un sapere simile a un prodotto di consumo, facile da immagazzinare come un pieno a una pompa di benzina, al contrario esatto di quello che insegnano Socrate nel Simposio, la biografia di Leopardi, gli ammonimenti di Gramsci, la storia della scienza e l’etimologia stessa della parola “studiare”.
Come si vede il governo Renzi, mai come prima, ha seguito la strada dei simboli, della “visione di fondo” che la politica ha il compito di esprimere, e con una coerenza che non ha precedenti nella scuola italiana, dopo Gentile. Perché il messaggio che si ricava da una massa di interventi apparentemente eterogenei è invece indefettibilmente univoco: poca fatica, meglio se fuori dalle aule o lontani dalla propria scrivania, per un radioso mercato del lavoro.
Ecco perché, come docente dell’ordine di istruzione immediatamente precedente a quello universitario, lancio io un appello ai miei seicento superiori: con una classe cosiddetta dirigente di tale leva non è più il tempo per i cahiers de doléances; nulla potremo più ottenere per una vera buona scuola da questo ceto di governo parassitario e ignorante.
È tempo ormai di riprendere in mano il nostro destino comune, di riunire in un fronte comune il nostro “ordine” nella sua interezza, dalla scuola primaria all’università, di riconoscere il nostro “Terzo Stato” come unico e legittimo rappresentante dell’istruzione italiana e dei suoi interessi comuni, contro gli altri due Ordini (quello dei politici-demagoghi e quello della burocrazia pervasiva) che hanno scippato le chiavi di casa nostra, e trasformato il nostro esercito in una massa di manovra per ordini sbagliati e contrari alle finalità per cui siamo (mal) retribuiti.
L’Università è il solo e ultimo piano dell’edificio dell’istruzione che non è stato assorbito nel calderone del pubblico impiego e ha conservato, almeno sulla carta, gli istituti di autogoverno che la caratterizzano dalle sue origini. Cari e illustri colleghi dell’Università, se non volete fare presto la fine della scuola italiana, in cui l’insegnamento è ridotto ormai ad attività accessoria di una mansionario impiegatizio eletto addirittura a criterio di valutazione dei docenti, spetta a voi mettervi alla testa di una nuova grande alleanza di protesta e di proposta con tutti coloro che vi precedono nella filiera dell’istruzione.
Potremmo condividere obbiettivi minimi, o piuttosto massimi, come principi regolativi in senso kantiano: 1) recupero del principio costituzionale per cui l’istruzione è una istituzione, e non un servizio; 2) costruzione di un comune ordine professionale capace di contrastare la bulimia legislativa della “casta”, con diritto di impugnazione per legge dei provvedimenti palesemente contrari ai fini e agli scopi specifici dell’istruzione; 3) fuoriuscita dal pubblico impiego di tutti i docenti dell’istruzione italiana.
Il piano più alto dell’edificio si regge su quelli inferiori, non sul “governo” dei demagoghi. Se non costruiamo insieme un sistema antincendio per la nostra casa comune, nessun allarme potrà salvarvi dalle fiamme che salgono. Siete disposti a “sporcarvi le mani” firmando questo contrappello sugli obiettivi comuni del TSI, il Terzo Stato dell’Istruzione italiana?
La lotta degli insegnanti messicani repressa nel sangue nel 2006
I fatti a cui il video si riferisce sono avvenuti nella città messicana di Oaxaca nel 2006. Gli scontri tra la polizia e i manifestanti hanno causato 21 morti.
L’inizio delle proteste risale alla primavera 2006, quando fu indetto uno sciopero per protestare contro la scarsità dei fondi destinati alle scuole e i bassi stipendi degli insegnanti. Il governatore dello Stato, Ulisses Ruiz rispose reprimendo le manifestazioni con agenti in assetto anti-sommossa. Il 22 maggio i manifestanti risposero alla repressione occupando alcuni quartieri della città di Oaxaca per sgomberare i quali il governo inviò, senza successo, 2000 poliziotti.
Gli atti di protesta dell’APPO continuarono, per ottenere le dimissioni di Ulisses Ruiz, ma successivi attacchi hanno sgomberato i quartieri occupati di Oaxaca. Nel settembre 2006 si svolse la Marcia per la dignità dei popoli di Oaxaca che attraversò tutto il Messico per andare a protestare davanti al Senato nella capitale.
Il 16 ottobre 2006 era l’ultimo giorno dell’ultimatum dato agli insegnanti in sciopero ormai da 5 mesi perché riprendessero il lavoro nelle scuole. Il 27 ottobre Brad Will, un giornalista americano del network mediattivista Indymedia di New York , fu ucciso da un colpo d’arma da fuoco esploso durante gli scontri tra i manifestanti e la polizia. L’attenzione internazionale si è accesa dopo questo episodio. Oltre al giornalista americano sono morti anche il professor Emilio Alonso Fabián e Esteban López Zurita.
La battaglia vittoriosa di studenti ed insegnanti canadesi del 2012
Stralcio alcune parti interessanti dell’articolo di Lucio Castracani e Davide Pulizzotto sul printemps érable (letteralmente “primavera degli aceri”, cioè “primavera canadese”, visto che l’acero è il simbolo nazionale, ma con significato anche di “momento più dolce dell’anno“, perché è in primavera che si estrae la linfa d’acero per farne sciroppo), il movimento studentesco québequois uscito vittorioso dal braccio di ferro con il governo canadese deciso ad aumentare le tasse universitarie. I link disseminati nel testo sono miei (fonti canadesi francofone)
Dopo diversi mesi di lotta, il movimento studentesco canadese più imponente della storia ha vinto la sua battaglia, costringendo il partito liberale al potere a rassegnare le dimissioni e ad indire nuove elezioni. Così, la successiva vittoria del partito d’opposizione ha garantito l’emissione di un decreto legislativo che blocca l’aumento delle tasse universitarie previsto dal vecchio governo. Gli studenti canadesi sono così meno indebitati.
La situazione all’inizio della protesta
Il Québec non aveva fatto eccezione al resto dell’America del Nord, incamminandosi a partire dagli anni ’60, verso il modello dell’università-impresa. Sotto la scure della competizione internazionale, ben sottolineata dal sistema di ranking universitario, e del deficit zero con i conseguenti tagli alla spesa pubblica, compresa l’educazione, l’entrata del mondo degli affari nell’università è avvenuta quasi senza clamore. Così, come ci faceva notare un professore qui a Montreal, oggi sui 15 edifici che compongono l’Università di Montreal, ben sette portano il nome di donatori che provenivano da grandi corporation, come Mac Donald Tobacco, Télé-Métropole, Power Corporation o Seagrams. Ciò significa che, nonostante la provincia francofona vanti un sistema educativo molto più accessibile rispetto al mondo anglofono che la circonda, il sistema di indebitamento e il processo di mercificazione del sapere erano e restano delle condizioni strutturali profondamente impiantate.
Le printemps erable è sorto dall’ennesima stretta del governo verso tale modello, con un previsto aumento delle tasse universitarie del 75% in cinque anni, diventato durante il conflitto 78% in otto, ma ha una lunga gestazione, che va dal conflitto studentesco del 2005 al recente Occupy Montreal.
13 febbraio 2012: parte la grève générale illimitée, sciopero generale a oltranza
Gli attori principali di questa prima fase sono le associazioni studentesche, che saranno però anche i protagonisti del più rilevante e “mediatizzato” schema narrativo di questi sette mesi di lotta. In sostanza, i rappresentanti eletti dagli studenti all’interno delle associazioni saranno la base operativa mediatica delle rivendicazioni studentesche. Tutto ciò è reso possibile dall’architettura dell’organizzazione sociale e politica delle università del Québec.
Sulla falsa riga del modello anglofono, le associazioni universitarie rappresentano l’epicentro della vita studentesca. Ogni facoltà ha una sola associazione, l’unica legittimata ad indire le assemblee e a gestire le diverse istanze attraverso un codice giuridico e un sistema di votazione assai preciso. Ogni associazione può, in seguito, aderire ad una federazione di associazioni o ad una coalizione. Ognuna di esse ha, infine, un mandato più “politico”, e dei veri e propri rappresentanti eletti dalla varie associazioni aderenti. Qui in Québec ci sono due federazioni ed una coalizione: la Feuq, Fecq e la Classe. In parole povere, non esiste il collettivo o l’assemblea auto-organizzata. Non ci sono assemblee di interfacoltà o interuniversitarie autonome. Tutto è gestito in maniera strutturata e codificata dalla associazioni studentesche. Anche i militanti dei movimenti anarchici confluiscono nelle assemblee della propria facoltà per entrare nel vivo dei processi di mobilitazione. Senza andare troppo nel dettaglio, l’iper-regolamentazione della vita politica universitaria imposta dal sistema, sta alla base del printemps erable e, probabilmente, è stato anche il propulsore per raggiungere la vittoria.
Tra le varie federazioni, la Classe si distingue virtuosamente. Rifacendosi alla Charte de Grenoble del 1946, rivendica il sindacalismo studentesco e si impone in Québec come motore culturale e politico del movimento studentesco. È di fatto la coalizione più ampia e più radicale. All’interno della struttura, non ci sono leader, ma solo porte-parole che rispettano diligentemente il mandato imposto dalle assemblee di base. Nessuna riunione è valida fuori dal quadro assembleare. Ogni decisione deve essere ratificata nelle diverse associazioni di facoltà aderenti alla coalizione.
Nonostante il momento più efficace della partecipazione fosse il voto in assemblea, gli studenti non si sono limitati a tale constatazione, e hanno moltiplicato gli spazi del confronto e del dibattito attraverso forme di auto-organizzazione.
In questo contesto, è stato il supporto culturale, ideologico, tattico del movimento anarchico di Montreal a intensificare e sviluppare la lotta. Quest’ultimo ha avuto un ruolo fondamentale per la tenuta del printemps érable, riuscendo a radicalizzare alcune posizioni, rivendicazioni e anche diverse manifestazioni, rendendo di fatto più efficace ed interessante la lotta. Paragonabili al nostro movimento autonomo, anche se non coincidenti con esso, le espressioni anarchiche e libertarie nord-americane fanno parte di un mondo assai complesso e variegato, in cui confluiscono differenti correnti, rivendicazioni, dibattiti. I loro maggiori punti in comune sono l’anticapitalismo, l’antimperialismo, l’antifascismo, l’antistatalismo e pratiche varie di auto-organizzazione, spesso molto innovative e creative. Tutto si lega coerentemente ad una profonda critica della società contemporanea e a diverse azioni e iniziative comuni. Molti militanti sono marcati anche da esperienze comuni negative, tra cui la dura repressione del meeting del G-20 di Toronto nel 2010. Il movimento studentesco è stata l’occasione del riscatto dopo una lunga crisi e il banco di prova per una lotta al capitalismo ben più larga.
Infine, la partecipazione delle famiglie e dei cittadini ci ha permesso di guardare il movimento come una forza trasversale, in grado di farsi portavoce di un malcontento generalizzato contro le politiche del governo Charest, che era al potere da circa dieci anni. I “carré rouge” si vedevano al petto di studenti, ma anche di anziani, lavoratori, migranti. Il dibattito era quotidianamente veicolato da questa simbologia, che straripava di giorno in giorno e che portava il movimento a spasso per la città, in ogni dove e in qualsiasi momento.
Come Printemps érable è diventato un attore politico
L’elemento semiologicamente più importante di questa vittoria è il riconoscimento del movimento come attore politico autorevole, sia da parte delle forze istituzionali che dai media mainstream. Nonostante i ripetuti attacchi delegittimanti e il tentativo di criminalizzarlo, è impossibile negare che gli studenti siano riusciti ad imporre la propria agenda politica tanto a livello provinciale (Québec) che nazionale (Canada). Dal 13 febbraio al 7 settembre, lo sciopero generale illimitato indetto dalle associazioni di facoltà è stato la principale preoccupazione di tutte le parti politiche parlamentari e dei vari organi di informazione. Questo è, nel bene e nel male, lo strumento di lotta principale che ha portato alla vittoria studentesca.
Potremmo anche dire, all’inverso, che il Premier Charest ha perso il potere nel momento in cui si è lasciato coinvolgere dal dibattito scatenato dagli studenti. Cioè nel momento in cui l’ha riconosciuto come attore legittimo del testo politico in corso di attualizzazione, ma ciò era inevitabile. Nel contesto culturale e politico del Québec, non sarebbe potuto esistere un governo che facesse orecchie da mercante di fronte ad una percentuale così alta di Cegep (equivalenti ai college americani, preparano l’entrata all’università) e facoltà in sciopero. Non sarebbe ritenuto responsabile un atteggiamento di quel tipo, per ragioni politiche e civiche. Ciò non vuol dire che il sistema politico rappresentativo sia privo di ogni corruzione, anche morale. I colpi bassi ci sono pure qui; ma non si respira l’aria di impunità a cui il ventennio breve italiano ci ha abituato. Tuttavia, alle responsabilità morali si aggiungono altri elementi sistemici che, nel complesso, hanno concorso all’emergenza del discorso studentesco. Quali?
La grève générale illimitée, lo sciopero generale ad oltranza
Lo sciopero illimitato indetto dalle associazioni ha delle conseguenze economiche, giuridiche e sociali imprescindibili. Innanzitutto si impone all’amministrazione delle università il riconoscimento dello sciopero e la gestione di eventuali sospensioni, rinvii o annullamenti di sessione. Questi, a loro volta, hanno effetti sull’economia delle università, rallentando le iscrizioni o annullando interi pagamenti di sessione. Dal momento in cui in cui si vota la “grève générale illimitée” si sospende automaticamente il sistema di valutazione e di accreditamento e si bloccano intere sessioni universitarie. Ciò vale anche per gli scioperi votati nei licei, che moltiplicano la crisi in maniera esponenziale. Le conseguenze sono devastanti e palpabili sin dall’inizio. Insomma, è come se in Italia la mobilitazione iniziasse alla vigilia della sessione d’esami, registrasse un’ampia partecipazione dei professori e delle famiglie e bloccasse illimitatamente verbali e libretti universitari.
Lo sciopero degli insegnanti di Chicago
Benché avesse ottenuto ciò che chiedeva, il Chicago Teachers Union ha rifiutato a lungo di fermare lo sciopero e ripristinare le regolari lezioni (il pensiero corre veloce a C.G.I.L. e agli altri “confederali” che hanno sottoscritto la Regolamentazione del diritto allo sciopero).
È iniziata oggi a Chicago (17 settembre 2012) la seconda settimana di sciopero per 26 mila insegnanti. Lo sciopero è stato deciso dopo il fallimento dei negoziati su alcune riforme proposte dal sindaco della città Rahm Emanuel, ex capo dello staff di Barack Obama. La protesta coinvolge da lunedì 10 settembre circa 350 mila studenti e ora il sindaco della città, al quale di fatto compete la responsabilità diretta di tutto il sistema (l’amministratore delegato che guida il distretto scolastico di Chicago, infatti, fa riferimento alla giunta comunale e in ultima istanza al sindaco), ha detto che si sarebbe presto rivolto a un tribunale per mettere immediatamente fine a uno sciopero che «mette in pericolo la salute e la sicurezza» degli studenti e delle studentesse:
Ogni giorno in cui i nostri figli sono tenuti fuori dalla scuola è un giorno in più in cui abbiamo fallito nella nostra missione: quella di garantire che ogni bambino di ogni comunità riceva una formazione.
Secondo Rahm Emanuel, infatti, lo sciopero è diventato «illegale» perché sulle principali questioni che l’hanno causato è stata trovata un’intesa. Domenica sul sito del sindacato Chicago Teachers Union (CTU) sono stati pubblicati un comunicato stampa e un pdf di 23 pagine con i punti più importanti dell’accordo deciso da entrambe le parti. Karen Lewis, presidente del CTU, ha riferito però che a maggioranza è stato votato contro la sospensione dello sciopero per consentire ai delegati altri due giorni per proseguire la discussione con gli iscritti. Martedì ci sarà una nuova riunione.
Il Chicago Teachers Union che rappresenta circa 30 mila insegnanti di Chicago chiede salari più alti a fronte di un allungamento della giornata scolastica proposto dallo stesso sindaco senza però, secondo gli insegnanti, un’adeguata ricompensa. Chiede inoltre una diversa forma di valutazione del lavoro che non sia basata esclusivamente sui risultati di test standardizzati cui vengono sottoposti gli studenti: questi test infatti non terrebbero conto della situazione della maggior parte degli studenti delle scuole pubbliche di Chicago, che provengono da famiglie a basso reddito e quartieri con un alto livello di violenza. L’accordo raggiunto prevede che il sistema di valutazione venga introdotto gradualmente nell’arco di diversi anni e che gli insegnanti ricevano quest’anno un aumento di stipendio del 3 per cento seguito, nei prossimi due anni, da un aumento ulteriore del 2 per cento.
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