“Bisogna sdraiarsi per terra fra gli animali per essere salvati”.
Così Elias Canetti traduceva in un lampo di antropologia filosofica l’interpretazione di un sogno che Franz Kafka diede per Felice, nel quale le spiegava che se non si fosse sdraiata non sarebbe sopravvissuta all’‘angoscia della posizione eretta’, così la chiama Kafka. Sdraiarsi per terra in mezzo agli animali significa non solo ‘scendere’ dal livello umano a quello bestiale, ma non rappresentare più un bersaglio facilmente individuabile. La posizione eretta è la posizione del potere, ma è anche (o forse proprio per questo) la posizione della vulnerabilità. Kafka usava, nella sua relazione con il potere, questo escamotage: farsi piccolo piccolo, immedesimarsi con gli esseri più minuscoli, oppure fare della propria magrezza lo stigma della sua resistenza, o sarebbe meglio dire ostinatezza.
In una lettera a Max Brod del 1904, Kafka ventunenne descrive l’incontro tra lui e il suo cane, e una talpa. Il cane, incuriosito dalla talpa, le saltava addosso. La talpa terrorizzata emetteva un sibilo, uno ‘cs, css’. Secondo Canetti, che riporta l’episodio in un breve testo tratto dall’Altro processo e di recente ripubblicato in Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione (Adelphi, Milano 2013), a un certo punto Kafka si immedesimerebbe nella talpa, rispondendo a quel suo modo di metamorfarsi in ciò che è piccolo:
“Cs, css, grida la talpa, e in virtù del suo grido lui, che sta a guardare, si trasforma in talpa, e senza dover temere il cane, che è suo schiavo, sente che cosa vuol dire essere talpa” (p. 43).È singolare che Canetti argomenti così, dato che poco prima aveva scritto che di questa situazione Kafka era il dominus, anzi che ne era il Dio, e poi nel passo citato afferma non solo che il cane è suo schiavo, ma che egli non deve temerlo.Ma se egli era il dio nell’incontro con la talpa, se egli non doveva temere il cane, come avrebbe fatto a immedesimarsi nella talpa?
Il librettino che contiene il testo di Canetti è in qualche modo dedicato al continente sommerso del dolore animale, e si apre con un’altra lettera: quella che Rosa Luxemburg, poco tempo prima di morire, scrisse a Sonja Liebknecht, moglie dello spartachista Karl (anch’egli assassinato con Luxemburg). Spedita da Breslavia, la lettera (datata 1917 e scritta nella cattività del carcere) narra di un soldato tedesco scorto a percuotere violentemente uno dei bufali rumeni da tiro che l’esercito aveva requisito colà e che dunque erano un ‘bottino di guerra’. Il carro stracolmo si era impigliato in un arco troppo basso, ma il soldato a forza di bastonate con il manico della frusta costrinse i bufali a passare. Tuttavia uno di loro sanguinava. Luxemburg lo guardava starsene lì,
“e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta” (p. 20).
Luxemburg scrive a Sonja che quel bufalo era il suo
“povero, amato fratello” (p. 21), e che entrambi “ce ne stiamo qui […] così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia” (ibid.).
Questa lettera, che fu pubblicata da Karl Kraus nella Fackel e da lui fatta oggetto di letture pubbliche in varie città, è accompagnata da alcuni altri testi di argomento simile, tra cui, oltre al già citato Canetti e a un racconto di Kafka (Una vecchia pagina) in cui l’autore racconta di soldati-nomadi che dal Nord calano davanti al palazzo dell’imperatore e uccidono mangiando a morsi un bufalo vivo, un testo di Joseph Roth sul mattatoio di Vienna, in cui l’uomo è descritto come il ‘Signore macellante della Creazione’.
Qual è il senso di questi testi, se non di interrogarsi sull’estensione della nostra empatia (dal ‘fratello bufalo’ di Luxemburg alle braccia al collo del cavallo durante il soggiorno torinese di Nietzsche)? Eppure, al di là del testo di Roth, che attraverso la fredda elencazione di dati e numeri inchioda il meccanicismo cartesiano, ciò che si legge in filigrana è la sofferenza umana. Il bufalo di Kafka così come quello di Luxemburg sono significativi in quanto il loro sguardo è umano e il loro dolore è un dolore umanizzabile. De te fabula narratur, uomo. Ed è significativo che il personaggio di Kafka, per non sentire le strazianti urla di dolore del bufalo mangiato vivo dai barbari, si nasconda:
“Per un’ora rimasi disteso sul pavimento di un angolo del mio laboratorio, e mi ammucchiai addosso tutti i miei vestiti, le coperte e i guanciali pur di non sentire i muggiti di quel bue che i nomadi assalivano da ogni parte per strappargli coi denti brandelli di carne viva” (p. 37).
Il calzolaio di Kafka uscirà allo scoperto solo quando il silenzio regnerà da tempo.
Si potrebbe dire che egli si cali il berretto sulle orecchie proprio come Rousseau diceva facesse chi era aduso a preoccuparsi troppo di estendere (geograficamente; moralmente) la propria sensibilità ed empatia. Troppa per gli umani; meglio non sentire le urla delle bestie.
Del resto si narra che un Papa, nel visitare un mattatoio, avesse consigliato ai lavoratori di quel luogo di non far caso alle urla degli animali, ma di considerarle alla stregua dello stridore delle macchine.
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