Felicità e infelicità nella civiltà
“cristianizzati male”, in quanto essi – commenta Marcuse – “accettano e osservano il Vangelo liberatore soltanto in una forma altamente sublimata – che lascia la realtà in uno stato di mancanza di libertà, com’era prima” (6).
Posto che la domanda circa lo scopo della vita umana non ha mai trovato una risposta soddisfacente (ammesso che quest’ultima ci sia), certamente gli uomini nella loro lunga storia tendono con forza alla soddisfazione, al piacere, alla felicità, ma ogni volta cozzano duramente contro muri invalicabili e nell’intero universo tutto pare congiurare contro il soddisfacimento della pretesa umana alla felicità.Freud scrive a questo proposito:
“La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia, dal mondo esterno che contro noi può infierire con strapotenti spietate forze distruttive, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini” (UK 212).
È quest’ultima la sofferenza più acutamente e dolorosamente avvertita, che tendiamo a considerare superflua o a sottovalutare, ma che sa essere “non meno fatalmente inevitabile” degli altri tipi di sofferenza. Il principio di realtà (Realitätprinzip) prevale sempre sul principio di piacere (Lustprinzip), anche se quest’ultimo tende tenacemente ad affermarsi, non desiste mai dal tentativo d’imporsi.
Per lottare contro la sofferenza e le angustie dell’esistenza, il fondatore della psicoanalisi riconosce il ruolo importante del godimento, dell’umana fruizione delle opere d’arte, ma, per quanto grande sia questo riconoscimento, esso non è tuttavia mai in grado – osserva realisticamente Freud, col realismo non opportunistico di chi è lucidamente esperto delle cose umane – di essere risolutivo:
“Chi è sensibile all’influsso dell’arte non lo stimerà mai abbastanza come fonte di piacere e consolazione nella vita. La leggera narcosi in cui l’arte ci trasferisce non può tuttavia offrirci che un’evasione temporanea dagli affanni della vita e non è abbastanza forte da far dimenticare la miseria reale” (UK 216).
Freud è convinto che il godimento della bellezza (circa l’indagine della quale egli ammette lo scarso apporto critico della psicoanalisi) in tutte le sue varie forme offra una “scarsa protezione contro la sofferenza incombente”, per quanto la compensi “in grande misura” (cfr. UK 218).
Gli eremiti fuggono dal mondo e dalla storia, i rivoltosi si ribellano duramente sognando un mondo nuovo finalmente rispondente ai desideri umani, ma il risultato è sempre lo stesso: il mondo reale resta intatto e inintaccabile nella sua aspra corazza impermeabile. La lotta per l’esistenza si svolge in un mondo ostile, in cui Ananke e penuria (Lebensnot) giocano un ruolo cospicuo.
Uno dei tratti più rilevanti e tuttora più attuali di Das Unbehagen in der Kultur è indubbiamente, a nostro avviso, la sua insistenza nel sottolineare la difficoltà per gli uomini di essere felici, nonostante tutto il loro grande anelito alla felicità.
Contro due delle ragioni essenziali che causano la nostra infelicità, vale a dire “la forza soverchiante della natura” e “la fragilità del nostro corpo” (cfr. UK 222), c’è ben poco da fare, c’è anzi soltanto da prendere lucidamente atto della loro consistenza e ineluttabilità; possiamo soltanto limitare i danni, comunque inevitabili.
Per Freud si tratta qui da un lato di procedere a un’ulteriore rafforzamento del dominio umano sulla natura (per lui sempre di segno positivo; ai suoi tempi non poteva prevedere tutte le conseguenze dell’impatto dell’azione umana sulla biosfera e sugli ecosistemi), comunque mai completamente possibile e d’altro lato di salvaguardare sempre meglio la salute del nostro organismo, destinato però al deperimento e al disfacimento; ma circa la terza fonte di sofferenza, quella sociale (l’autore di Das Unbehagen in der Kultur parla della “inadeguatezza delle istituzioni che regolano le reciproche relazioni degli uomini nella famiglia, nello stato e nella società”, UK 222), riscontriamo grandi difficoltà a riconoscerne l’origine, la forza e le ragioni.
Freud comincia con lo sgombrare subito il campo da possibili equivoci: non si tratta per lui di aderire alle posizioni ispirate alla critica irrazionalistica e pessimistica della scienza e della tecnica, né di mitizzare la civiltà preindustriale come improbabile età dell’oro; non si tratta neppure, però, di indulgere allo scientismo e alla feticizzazione della tecnica (o, meglio, della tecnologia, diremmo oggi), perché sa fin troppo bene che la felicità umana, investendo le problematiche e il vissuto della soggettività, non dipende soltanto dai progressi della scienza e della tecnica.
Il fondatore della psicoanalisi ribadisce quel che aveva già osservato in Die Zukunft einer Illusion, ossia che la Kultur (civiltà) – intesa come quell’insieme di realizzazioni e ordinamenti che ci differenziano dagli altri esseri viventi – serve ai due scopi di “proteggere l’umanità contro la natura” e di “regolare le relazioni degli uomini fra loro”(7).
Freud è perfettamente consapevole del fatto che l’onnipotenza e l’onniscienza da sempre attribuite dagli uomini ai loro dei, ora, nell’età della scienza e della tecnica, sono almeno in parte riappropriate dall’uomo, che pare destinato anche in futuro – grazie ai continui passi avanti della scienza e della tecnica – a vedere un accrescimento della sua somiglianza con Dio. A questo punto egli avverte: “Pure, nell’interesse della nostra indagine, non dimentichiamo che l’uomo d’oggi, nella sua somiglianza a Dio, non si sente felice.” (UK 228). Torneremo su questa preziosa indicazione al termine del nostro percorso.
Civiltà e sessualità
Dopo aver osservato che fra gli aspetti distintivi della Kultur vi è il diritto, inteso come il potere della comunità di opporsi all’arbitrio dei singoli, alla legge del più forte e come “primo tentativo di regolare le relazioni sociali” (cfr. UK 231), Freud si sofferma sulle modificazioni prodotte nelle disposizioni pulsionali dell’uomo dal processo di incivilimento, in particolare sulla sublimazione della meta pulsionale come segno tipico dell’incivilimento e sul fatto che la civiltà è costruita sulla rinuncia pulsionale o sulla “frustrazione civile” (cfr. UK 233).
Tutte le civiltà presuppongono in varia forma e misura una certa ripartizione della libido e una certa limitazione o rimozione della vita sessuale. Anche la nostra civiltà europea occidentale sottrae alla sessualità una parte assai consistente di energie psicofisiche che essa stessa utilizza; per limitare la libera esplicazione della sessualità, la nostra Kultur ha posto tutta una serie di divieti, restrizioni e barriere – tra cui il matrimonio monogamico -, giungendo sino al punto di non riconoscere e di rinnegare tutte quelle manifestazioni della vita sessuale nei bambini e negli adulti che “non solo sono facilmente dimostrabili, ma sono addirittura appariscenti” (UK 240).
Rileva Freud con lo sguardo rivolto alla morale sessuale fortemente coercitiva dominante nella sua epoca e alle numerose trasgressioni cui essa ha dato luogo: “Non v’è dubbio che la civiltà odierna intende permettere le relazioni sessuali solo sulla base di un legame unico e indissolubile tra un uomo e una donna, non accetta la sessualità come fonte di piacere fine a sé stessa, disposta a tollerarla solo come mezzo finora insostituito per la propagazione della specie” (UK 241).
Non v’è dubbio che Freud non condivide questo modo così restrittivo e repressivo di concepire la sessualità, ma anche che egli, pur tendendo a considerare (e a valorizzare) la sessualità come un piacere fine a se stesso, non teorizza e non tematizza esplicitamente una concezione alternativa della sessualità rispetto al mondo, alla civiltà e ai valori borghesi.
Come vedremo meglio più avanti, questi preziosi spunti freudiani sulla sessualità saranno ripresi e approfonditi criticamente (e fruttuosamente) da Herbert Marcuse, che cercherà di intravedere – in una prospettiva radicale di liberazione totale e ben oltre l’orizzonte freudiano – il nesso essenziale tra la dimensione erotico-estetica e quella etico-politica.
Quello indicato da Marcuse è uno dei modi più fertili di ricollegarsi produttivamente alle tematiche di Das Unbehagen in der Kultur e di sfuggire ai rischi dell’isterilimento dogmatico, dell’obbedienza a una presunta ortodossia, dell’affievolimento della libera ricerca e dello spirito critico, del neo-conformismo corsi anche dalla psicoanalisi (e dalla mentalità degli psicoanalisti) nella sua ormai lunga storia che giunge sino ai nostri giorni.
L’aggressività e il male nella civiltà
Per ciascuno di noi viene il momento di lasciar cadere come illusioni le speranze che ripone in gioventù nei propri simili, e di sperimentare quanto la vita gli è resa aspra e gravosa dalla loro malevolenza (UK 247).
Nel testo della conferenza Wir und der Tod (Noi e la morte, 1915, tenuta a Vienna nel corso della prima guerra mondiale), possiamo leggere:
Non esiste in noi nessun ribrezzo istintivo per lo spargimento di sangue. Noi siamo i discendenti di una serie infinita di generazioni di assassini. La brama di uccidere l’abbiamo nel sangue e la ritroveremo forse presto in un altro luogo (8).
L’aggressività è in qualche modo ineliminabile, non possiamo annullarla del tutto, è però possibile – come Freud scrive esplicitamente nella risposta ad Albert Einstein circa la domanda Warum Krieg? (1932) – cercare di incanalarla e di deviarla sino al punto che non debba sfociare necessariamente nella guerra, nella crudeltà e nella violenza (9).
Per lui il cristianesimo, col suo motto emblematico “Ama il prossimo tuo come te stesso” e col suo far leva sulla promessa di un aldilà celeste, avanza una pretesa irrealizzabile e assurda, conduce al fallimento dell’etica – che soltanto su questa terra conosce il suo unico e vero terreno di prova -, ma pure il comunismo, con la sua critica della proprietà privata capitalistica e col suo misconoscimento idealistico della natura umana (considerata buona originariamente e corrotta soltanto dall’istituzione capitalistica della proprietà privata), s’illude di togliere le basi dell’aggressività, che invece
costituisce il sostrato di ogni relazione tenera e amorosa tra esseri umani, con l’unica eccezione, forse, di quella tra la madre e il figlio maschio (10).
Per la verità, per quanto riguarda il socialismo – da lui non distinto dal comunismo -, Freud ritiene che esso contenga pure una intuizione valida – la critica alla proprietà privata capitalistica e la tensione a un reale mutamento del rapporto dell’uomo con la proprietà, assieme alla giusta lotta contro la diseguaglianza economica – , ma non ne accetta la ricaduta nell’idealismo (cui poco sopra accennavamo, un idealismo alquanto pericoloso, se l’autore stesso accenna alle conseguenze devastanti e inquietanti dell’odio di classe e dello sterminio della borghesia in corso nell’Urss in quegli anni(11) e la nozione di eguaglianza, circa la quale rileva che
la natura, attribuendo ai singoli le più diverse doti fisiche e doni spirituali, ha istituito ingiustizie contro cui non c’è rimedio (cfr. UK 246-250 e 278).
Al che si potrebbe obiettare che Freud contesta giustamente una nozione di eguaglianza intesa come rozzo livellamento e appiattimento delle differenze, ma non riconosce e non fa i conti con una nozione di eguaglianza meno semplicistica e più ricca, riferita alla comune condizione umana, compatibile con la libertà e aperta alla piena accettazione/valorizzazione delle differenze tra gli individui.
Comunque sia, in Das Unbehagen in der Kultur Freud ha il merito indubbio di sottolineare il ruolo, il peso massiccio e ingombrante dell’aggressività e del male, della violenza e della crudeltà nella storia umana. Nessuna dottrina, nessuna ideologia, nessuna filosofia, nessuna religione, nessuna teoria possono illudersi di sbarazzarsene facilmente e con ricette precostituite.
Quando Freud scrive che l’uomo della civiltà del suo tempo “ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza” (UK 250), egli non mira a mettere a tacere la critica giusta degli ordinamenti dati e a bloccare possibili cambiamenti in grado di garantirci una maggiore felicità, ma sottolinea le difficoltà intrinseche all’essenza stessa della Kultur con cui dovranno fare i conti tutte le ipotesi di riforma e trasformazione.
Nello scritto Massenpsychologie und Ich-Analyse (1921), in riferimento ai temi trattati da Gustave Le Bon nel volume Psycologie des foules (1895) e dopo aver riconosciuto allo studioso francese la correttezza nella descrizione dei fenomeni dell’“anima delle masse”, Freud accenna al dibattito suscitato da quel libro, prende le distanze da ogni interpretazione reazionaria e afferma che le posizioni di Le Bon – unilateralmente negative – in sede di valutazione dell’“anima delle masse” non sono sempre condivisibili; infatti,
è (…) possibile individuare anche altre manifestazioni della formazione collettiva, operanti in maniera esattamente opposta e da cui siamo costretti a derivare una valutazione assai più favorevole dell’anima delle masse (12).
In altre parole, le masse per Freud non sono sempre e soltanto – come accade invece in Le Bon – gregge, pecorume avente “sete di sottomissione”, destinato ineluttabilmente all’obbedienza cieca e incondizionata ai capi, alla manipolazione, al conformismo, alla stupidità, alla mancanza di autonomia e di spirito critico. Freud sa bene quanto siano radicati nella società pregiudizi, conformismo, “pulsione gregaria” (Herdentrieb), razzismo, cecità, mediocrità, viltà e altri simili veleni, ma rifiuta di assolutizzarli e di eternizzarli. Non è molto, è solo un accenno, uno spiraglio, una piccola apertura, che però impedisce a Freud l’appiattimento sulle posizioni più antipopolari, antidemocratiche e reazionarie.
La lotta permanente fra Eros e Thanatos
Occorre ammettere, secondo Freud, non solo che cogliere la pulsione di morte è molto più difficile che cogliere le manifestazioni della pulsione erotica, ma anche che, allo stato attuale delle ricerche, la teoria relativa ad essa non è, e non può essere, del tutto solida e al riparo da obiezioni. Egli si mostra però fiducioso, in merito, nell’acquisizione futura di una maggiore solidità scientifica. Non sembra che gli studi psicoanalitici, dopo Freud, abbiano soddisfatto questa richiesta.
Vi è dunque per Freud – e anche per noi, oggi, in forme diverse – una lotta strenua, aspra e difficile per la civiltà. Che apporto specifico può dare la psicoanalisi per spiegare il processo di incivilimento? Freud si chiede: “Che mezzi usa la civiltà per frenare la spinta aggressiva che le si oppone, per renderla innocua, magari per abolirla?” (UK 258).
Civiltà e senso di colpa
Chiamiamo senso di colpa la tensione tra il rigido Super-io e l’Io ad esso soggetto; tale senso si manifesta come bisogno di punizione. La civiltà domina dunque il pericoloso desiderio di aggressione dell’individuo infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da una istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata (UK 258-259).
Il senso di colpa – che per Freud è in stretta relazione al “complesso edipico” e che presenta due origini (“una dal timore che suscita l’autorità, e una successiva dal timore che suscita il Super-io”,UK 262) – è l’espressione del Polemos permanente tra Eros e Thanatos, ossia di un conflitto che sorge prepotentemente ovunque gli uomini vivano assieme e vi siano civiltà.
Nelle ultime pagine di Das Unbehagen in der Kultur, Freud afferma esplicitamente che l’intento del saggio (e “il risultato ultimo della nostra indagine”) è di
presentare il senso di colpa come il problema più importante dell’incivilimento e di dimostrare che il progresso civile ha un prezzo, pagato in perdità di felicità a mano a mano che aumenta il senso di colpa”(UK 269).
Per Freud resta aperta la domanda sul rapporto tra il senso di colpa (che crea angoscia intesa come “timore suscitato dal Super-io”, UK 270) prodotto dalla Kultur e la consapevolezza che ne abbiamo, nel senso che non è affatto detto che il senso di colpa venga riconosciuto come tale; questo mancato riconoscimento è alla base del disagio e dell’insoddisfazione diffusi nella civiltà e fa sì che il senso di colpa possa rimanere in gran parte inconscio (cfr. UK 270). È noto che per Freud gli sforzi terapeutici della psicoanalisi tendono a rafforzare l’io, a renderlo più indipendente dal Super-io e a far sì che possa annettersi sempre nuove zone dell’Es, nella direzione del suo prosciugamento.
A proposito dell’inconscio nella teoria freudiana, ha osservato opportunamente Umberto Galimberti:
“Freud non ha scoperto l’inconscio, che semmai ha scoperto Schopenhauer, Freud ha scoperto le regole per aver ragione dell’inconscio. La sua psicologia è una celebrazione della potenza della ragione sulle pulsioni che la minacciano. Il pensiero di Freud, che tutti si affannano a superare o a dichiarare superato, su questo punto, che è poi il nucleo portante della sua teoria, va rigorosamente mantenuto e gelosamente custodito, a meno che il nostro futuro non ci prepari una regressione dell’umanità nell’insofferenza ai divieti e nella più sfrenata espressione delle pulsioni, perché questo significherebbe il declino della civiltà e insieme l’infelicità dell’individuo (14).
Freud è convinto che i processi d’incivilimento dell’umanità e dell’evoluzione dell’uomo singolo siano di natura assai simile, ma si distinguono per il fatto che nella storia evolutiva individuale la meta della felicità rimane sempre centrale, mentre nel processo d’incivilimento tale meta, pur sussistendo ancora, viene relegata sullo sfondo e in primo piano appare l’inserimento e l’adattamento degli individui alla comunità.
Ogni individuo è cosi combattuto al proprio interno fra due tendenze, una che lo porta alla felicità individuale e l’altra che lo conduce all’adattamento con le esigenze della società. Tale conflitto interiore lacerante procura non solo disagio, ma anche massicce dosi di infelicità e dolore, infiniti tormenti e nevrosi fra gli individui.
Insistendo nella sua analogia tra il processo d’incivilimento e il cammino dello sviluppo individuale, Freud pensa che vi sia – accanto al Super-io del singolo e con un’origine simile a quest’ultimo – anche un “Super-io della civiltà”, avanzante esigenze di severità e punizione, di imperativi e divieti.
Il fondatore della psicoanalisi ritiene che, proprio come accade al Super-io del singolo, anche il Super-io della Kultur, con le sue dure esigenze etiche, si preoccupi troppo poco della reale costituzione psichica degli esseri umani, in particolare della ricerca di felicità dell’Io e delle resistenze dell’ individuo – ad opera soprattutto della forza pulsionale dell’Es – agli imperativi del Super-io (cfr. UK 276-278).
Così, il Super-io della civiltà
emana un ordine e non si chiede se sia possibile eseguirlo. Presume, anzi, che l’Io dell’uomo sia psicologicamente in grado di sottostare a qualsiasi richiesta, che l’Io abbia un potere illimitato sul suo Es. Questo è un errore, e anche negli uomini cosiddetti normali la padronanza dell’Es non può superare certi limiti. Esigendo di più, si produce nell’individuo la rivolta o la nevrosi, o lo si rende infelice” (UK 278).
Come aveva già fatto in Die Zukunft einer Illusion, Freud fa comprendere bene la mancanza di prospettive di una civiltà in cui la maggior parte delle persone vive nell’insoddisfazione e nell’infelicità. Secondo Marcuse, circa il nesso fra civiltà e senso di colpa lo stesso Freud rileva che la sua
“analisi teorica è confermata dai grandi disagi e dal grande malcontento che regnano nella civiltà contemporanea: un ciclo sempre più ampio di guerre, persecuzioni in ogni parte della terra, antisemitismo, genocidio, bigottismo, imposizione di ‘illusioni’, fatica, malattie e miseria in mezzo a ricchezze e a conoscenze sempre più grandi(15).
La riflessione sul ruolo avuto nel processo d’incivilimento dal “Super-io della civiltà” è per Freud ancora agli inizi e tiene in serbo “ulteriori scoperte”. In modo estremamente fertile e antidogmatico – questo antidogmatismo è una delle caratteristiche migliori del suo atteggiamento scientifico -, l’autore di Das Unbehagen in der Kultur non ritiene di aver chiuso il discorso, al contrario pensa soltanto di averlo avviato verso direzioni che dopo di lui forse si illumineranno meglio. Anche noi, ancor oggi, credo, potremmo ulteriormente interrogarci sulla forma dell’attuale “Super-io della civiltà” e sulle sue possibili modificazioni.
Come erede del miglior illuminismo europeo, il fondatore della psicoanalisi si rifiuta di essere un acritico apologeta dell’esistente, un sostenitore della teoria del “migliore dei mondi possibili” e di conciliare ingenuamente la razionalità con la realtà data; egli rifugge pure dalle “consolazioni” proprie dei rivoluzionari e dei credenti, da ogni facile profezia utopica, da ogni tentazione di paradiso terrestre o celeste, cercando invece di aderire a ciò che con Nietzsche potremmo chiamare il senso della terra (o il “mondanismo”, come dice Romano Màdera con un termine non molto felice) e di usare appropriatamente la ragione, una ragione fragile e preziosa, non assoluta e non dogmatica.
A partire dal riconoscimento del ruolo dell’inconscio in Freud, Massimo Recalcati ha individuato nel suo pensiero una “discordanza fondamentale” tra la realtà desiderante umana e le esigenze del programma di incivilimento: “L’inconscio di Freud è (…) una esteriorità interna che spiazza la falsa autonomia della coscienza. Per questo, nell’Interpretazione dei sogni egli mostra che il desiderio non è una proprietà del soggetto, non è un attributo della coscienza, ma è qualcosa che s’impone alla coscienza soggiogandola. Il soggetto appare a Freud come proiettato costitutivamente nel disagio, come un soggetto del disagio. Il programma della civiltà è infatti inconciliabile con il programma del desiderio. Non c’è armonia, non c’è intesa possibile tra l’uno e l’altro. Se si vuole, è questa una prospettiva fortemente dualistica che Freud non abbandonerà mai nel corso della sua opera, pur così ricca di cambiamenti interni di direzione.
Ciò che non cambierà mai è, appunto, l’idea di una discordanza fondamentale tra la realtà umana, animata dal desiderio, e le esigenze della realtà esterna, sostenute dal programma della Civiltà. Ciò che non cambierà mai è, in altri termini, l’idea che il soggetto umano, in quanto soggetto del desiderio, sia disadattato alle sue radici. Il problema del progresso civile non è per Freud come emancipare l’uomo dal suo nucleo selvatico, barbaro, animale, ma come tenere conto di questo nucleo in quanto mai del tutto integrabile nel piano della Civiltà. Questo residuo pulsionale, refrattario a ogni programma di incivilimento, troverà una forma concettuale compiuta solo intorno agli anni ‘20 nel concetto di pulsione di morte (Todestrieb)”(16).
Concludendo il suo Das Unbehagen in der Kultur, Freud sa lucidamente che la lotta tra la pulsione di vita e la pulsione di morte è sempre aperta e interminabile, che la potenzialità distruttiva propria di Thanatos ha già raggiunto ai suoi tempi (grazie allo sviluppo della tecnica e dell’industria bellica; siamo inoltre alle soglie dell’uso della bomba atomica) livelli altissimi; sa pure di non avere alcuna certezza sull’esito del conflitto e non può che augurarsi – senza in alcun modo ignorare i segni della barbarie, della violenza e della guerra sempre più prossime – l’affermazione di Eros sul suo avversario fortissimo, “altrettanto immortale”. Di questa perversa “immortalità” siamo testimoni anche noi oggi.
La civiltà e la questione della morte in Freud, Heidegger e Sartre
“che, come scrive Nietzsche, può essere considerato un’eresia ebraica, ha ceduto alla tentazione platonica dell’immortalità dell’anima e, al pari di tutte le altre religioni, ha evitato di guardare in faccia seriamente alla morte. Ma forse la morte, evitata allo sguardo, ritorna come ogni rimosso a mortificare la vita nel tempo in cui vive, originando quella malattia che l’Apocalisse segnala come rifiuto di vedere (17).
Indagando gli strati profondi della nostra psiche, l’inconscio (das Unbewußte) e mettendo a frutto i risultati della sua Unterseepsycologie (“psicologia sottomarina”), Freud ritiene che il nostro atteggiamento verso la morte sia rimasto come quello dell’uomo primitivo (Urmensch), che da un lato riconosce pienamente o persegue l’annientamento dell’altro – inteso non come il familiare, la persona cara o intima, ma come lo straniero e il nemico – e d’altro lato non prende sul serio la morte per sé stesso, non la guarda in faccia radicalmente, la rimuove e l’allontana da sé come qualcosa d’irreale.
Ciò significa che in noi l’inconscio, salvaguardando innanzi tutto il nostro io “onnipotente e autocratico”, non assume sino in fondo e non crede alla propria morte (“Also das Unbewußte in uns glaubt nicht an den eigenen Tod”), ma essenzialmente a quella degli estranei e dei nemici. Come Freud scrive anche in Zeitgemässes über Krieg und Tod (1915), “nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità” (18).
Eredi come siamo dell’inconscio dell’uomo primitivo – a differenza del quale ci limitiamo a pensare e a desiderare la morte altrui, senza per lo più metterla in atto -, “nel nostro inconscio rimaniamo ancor oggi una masnada di assassini” (“In unserem Unbewußten sind wir alle noch heute eine Rotte von Mördern” Cfr. WT 26-28, 48-50). La psicoanalisi ci avverte dunque del fatto che “noi – ognuno di noi – non crediamo in fondo alla nostra propria morte (…). Ma questo nostro atteggiamento verso la morte ha conseguenze importanti sulla nostra vita. Questa si impoverisce e perde interesse (…) diventa vuota ed insignificante come un flirt americano in cui sin dall’inizio è chiaro che nulla accadrà” ( WT 15-17).
Ora, di fuga e più esattamente di “fuga deiettiva” (verfallende Flucht) dell’esserci (Dasein) davanti alla morte, alla propria Nichtigkeit (nullità) parla anche Martin Heidegger in Sein und Zeit(1927).(19)
La fuga in Heidegger è fuga del Dasein davanti a sé stesso, al suo “più proprio essere-per-la-morte” (das eigenste Sein zum Tode) e alla sua possibilità di autenticità (Eigentlichkeit).
La Verlorenheit, la perdizione o dispersione del Dasein nel Man (il mondo quotidiano dell’alienazione, del “Si”, del trionfo della chiacchiera, della curiosità e dell’equivoco) impedisce all’esserci l’attingimento dell’autentico Ganzseinkönnen (poter-essere-un-tutto).
L’angoscia (Angst) è invece per il filosofo tedesco, nell’opera del 1927, la tonalità affettiva fondamentale che si prova davanti al nostro essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein), al nostro essere un “progetto gettato” (geworfene Entwurf); essa ci riconduce al nostro più proprio poter-essere (Seinkönnen).
Qui è decisiva la Vereinzelung, la funzione singolarizzante dell’angoscia che, lungi dal riproporre un soggetto senza mondo, porta ogni singolo esserci dinanzi al proprio essere-nel-mondo, alla verità essenziale della propria esistenza.
Pensando a fondo lo spaesamento (Unheimlichkeit) dell’esistenza, il Dasein giunge a dissolvere ogni “tranquillizzante sicurezza di sé” (beruhigte Selbstsicherheit), ogni “ovvietà del ‘sentirsi-a-casa-propria’ “ (selbstverständliche ‘Zuhause-sein’), ogni familiarità e immedesimazione deiettiva col mondo del “prendersi cura” (Besorgen), in cui l’esistenza si riduce al dominio sulle cose e al rapporto esclusivo con esse (cfr. il paragrafo 40, SZC 225-233, SZM 527-545).
La quotidianità (Alltäglichkeit) del Dasein dice che “si muore” (man stirbt) e procura unaständige Beruhigung (costante tranquillizzazione) circa la morte, evita accuratamente la piena, radicale, singolare assunzione della propria morte da parte di ciascuno, copre sistematicamente il fatto che la morte si presenta per ognuno come “la possibilità più propria, incondizionata, insuperabile e certa” (cfr. soprattutto i parr.49-53, SZC 296-319, SZM 697-753).
In esplicita polemica con Heidegger e nella direzione di un esistenzialismo umanistico, nel suoL’Etre et le Néant (1943) Jean-Paul Sartre ha invece sottolineato il carattere assurdo della morte e il fatto che essa è “un annullamento sempre possibile dei miei possibili, che è al di fuori delle mie possibilità”(20).
Per Sartre la morte non appartiene alla struttura ontologica del suo “per-sé”, perché essa – assurda come la nascita – è un fatto contingente, un dato legato alla mia fatticità che “non mi tocca affatto” proprio perché non è “la mia possibilità” e non corrisponde alla “mia libertà”, che resta comunque “totale e infinita”(21). Sfugge però a Sartre che ciò che è più radicalmente da pensare nella morte è proprio questa sua insuperabile non corrispondenza, questo suo porre fine a ogni nostra libertà. Per il suo per-sé, sempre proiettato e in fuga verso i propri possibili, la morte non è una questione che davvero lo riguardi, anche se prima o poi lo colpirà.
Per Heidegger – che nelle opere più mature non parlerà più di angoscia e indirizzerà il proprio pensiero verso un approfondimento del “pensiero dell’essere” e un senso ecologico-hölderliniano dell’abitare la terra – il significato della vorlaufende Entschlossenheit (decisione anticipatrice per Chiodi-Volpi e risolutezza precorritrice per Marini, cfr. il par. 62, SZC 363-369, SZM 858-873) non consiste certo nel darsi volontariamente la morte, nell’elogio del suicidio o nel passare l’esistenza pensando cupamente alla morte, ma nel cogliere la possibilità del libero e autentico “poter-essere-un-tutto” (Ganzseinkönnen) dell’esserci.
Che poi Heidegger parli del Mitsein senza tematizzarlo a dovere, che nel suo pensiero manchi un’etica, che la sua critica della civiltà (e poi, più tardi, della tecnica) sia talvolta ideologica e insufficiente, che il Ganzseinkönnen del Dasein venga considerato essenzialmente nell’ottica esclusiva della focalizzazione del Sein zum Ende o del Sein zum Tode e non approfondisca e tematizzi dimensioni fondamentali dell’esistenza come la corporeità, la sessualità e l’amore, tutto ciò e altro ancora resta per noi vero, ma esula dagli intenti e dai limiti del presente scritto.
Come abbiamo visto attraverso questi rapidi cenni, in modi assai diversi fra loro sia Freud sia Heidegger si richiamano all’esigenza di ritrovare nel problema sempre aperto della morte tutto il suo spessore e tutta la sua drammaticità, la sua vicinanza e necessità (o non casualità).
Per Freud era questo uno degli insegnamenti fondamentali della prima guerra mondiale in corso ai tempi della sua conferenza su Wir und der Tod.
Restituire alla morte il posto che le spetta nella nostra vita, ripensare a fondo il nesso essenziale vita-morte, modificare il motto politico degli antichi latini “Si vis pacem para bellum” (“Se vuoi la pace prepara la guerra”) in quello “Si vis vitam para mortem” (“Se vuoi mantenere la tua vita, disponiti alla morte”) significa per lui non solo che la “meditatio vitae” è inseparabile dalla “meditatio mortis” e viceversa, non solo “rendere nuovamente la vita più sopportabile, e sopportare la vita è il primo dovere di tutti i viventi”(cfr. WT 32), ma anche ridare più vigore e intensità, più significato e spessore alla nostra stessa vita, trasformandola in una vita degna e buona. Ha commentato tutto ciò Romano Màdera con acutezza:
Né rinuncia né enfasi è la misura suggerita dalla vita analitica. La genitalità sta in questa capacità di relazione: riconoscere i diritti d’esistenza e di espressione delle pulsioni, saper imparare la loro lingua e mantenersi in dialogo con loro. Ma nella misura consentita dalla realtà esterna, naturale e sociale, e nel sentimento di una vita caduca che non ha nessun commercio con gli dei, salvo che con le ombre infere di terrore e desiderio. Un camminamento stretto fra mali immedicabili, con il passo di chi tenta di non procurarsene altri per cecità o sventatezza. Infrequente è l’intenso piacere dell’esistenza. Attenta deve essere la cura di ciò che è prezioso. Con stoica ironia Freud ha affermato il compito di sopportare la vita (22).
Herbert Marcuse e la rilettura critica di Freud in Eros e civiltà
significato del lavoro per l’economia libidica”: “La possibilità di spostare una forte quantità di componenti libidiche, narcisistiche, aggressive e perfino erotiche sul lavoro professionale e sulle relazioni umane che ne conseguono, conferisce al lavoro un valore in nulla inferiore alla sua indispensabilità per il mantenimento e la giustificazione dell’esistenza nella società. L’attività professionale procura una soddisfazione particolare se è un’attività liberamente scelta, cioè tale da rendere utilizzabili, per mezzo della sublimazione, inclinazioni preesistenti, moti pulsionali non intermittenti o invigoriti costituzionalmente. Eppure il lavoro come cammino verso la felicità è stimato poco dagli uomini. Non ci si rivolge ad esso come alle altre possibilità di soddisfacimento. La grande maggioranza degli uomini lavora solo se spinta dalla necessità, e da questa naturale avversione degli uomini al lavoro scaturiscono i più difficili problemi sociali” (UK 215-216).
Come l’autore scrive nella “Prefazione” alla prima edizione di Eros and Civilization, il suo è un inedito e rivoluzionario punto di vista circa i rapporti tra psicologia e politica:
“In questo saggio si usano categorie psicologiche, poiché sono diventate categorie politiche. Le tradizionali linee di demarcazione tra psicologia da un lato e filosofia politica e sociale dall’altro, sono state rese antiquate dalla condizione dell’uomo della nostra epoca: processi psichici un tempo autonomi e identificabili vengono assorbiti dalla funzione dell’individuo nello stato – dalla sua esistenza pubblica. Problemi psicologici diventano dunque problemi politici: il disordine individuale rispecchia più direttamente di prima il disordine dell’insieme, e la cura del disturbo personale dipende più direttamente di prima dalla cura del disturbo generale. L’epoca tende al totalitarismo anche dove non ha prodotto stati totalitari. Fu possibile elaborare e praticare una psicologia come disciplina particolare finché la psiche fu in grado di contrapporsi al potere pubblico, finché vi fu una vera vita privata, realmente desiderata e in grado di creare da sé le proprie forme; se l’individuo non ha né la capacità né la possibilità di vivere per sé stesso, i termini della psicologia diventano i termini delle forze della società che determinano la psiche. In queste circostanze, voler applicare la psicologia all’analisi di eventi sociali e politici, significa dare al problema un’impostazione cui gli eventi stessi hanno tolto ogni validità. Si presenta piuttosto il compito opposto: sviluppare la sostanza politica e sociologica delle nozioni psicologiche (EC 47).
Marcuse è convinto che le posizioni di Freud sul rapporto fra principio di realtà e principio di piacere, fra civiltà e repressione siano state accolte troppo acriticamente dagli interpreti, quando invece il pensiero stesso del fondatore della psicoanalisi offre spunti per superare sia l’equiparazione fra civiltà e repressione sia il conflitto lacerante fra principio di realtà e principio di piacere, nella direzione di una “civiltà non repressiva” caratterizzata da nuovi rapporti fra uomo e uomo, fra uomo e natura (cfr. EC 51-52).
Vi è per Marcuse un “fatalismo non incondizionato” di Freud nell’assunzione della insuperabilità della civiltà repressiva: “Freud non credeva in cambiamenti sociali progressivi tali da modificare sufficientemente la natura dell’uomo in modo da liberarlo da oppressioni esterne e interne; ma il suo ‘fatalismo’ non era incondizionato” (EC 279). Proprio tale fatalismo non incondizionato e gli spiragli che esso suggerisce consentono di riprendere criticamente e fruttuosamente le indicazioni freudiane.
In un libro assai discutibile dedicato alla Scuola di Francoforte, Giuseppe Bedeschi ritiene, al contrario, che non solo la lettura marcusiana di Das Unbehagen in der Kultur, ma anche quella operata da tutti i francofortesi della psicoanalisi siano responsabili di un totale capovolgimento e stravolgimento delle tesi freudiane. Non viene neppure in mente a Bedeschi che l’unico modo di rendere omaggio davvero alla psicoanalisi freudiana non è quello di ripeterne pappagallescamente le tesi o di assumerne acriticamente le posizioni, ma di stabilire con essa un confronto critico, produttivo e creativo.
La Scuola di Francoforte viene altresì, nella sua interezza, sbrigativamente e superficialmente liquidata da Lucio Colletti (con il quale Bedeschi è sostanzialmente d’accordo) come “critica romantica della scienza e della società industriale”, “utopismo escatologico” culminante nello sterile “Gran Rifiuto” marcusiano.(24)
A noi sembra però che sfuggano completamente a posizioni come quelle di Bedeschi e di Colletti la ricchezza e la fertilità delle tematiche marcusiane (e, più in generale, francofortesi). In particolare, Colletti nei suoi scritti dimostra di aver sempre colpevolmente ignorato la distinzione tra la sana tensione all’utopia concreta -costantemente propria di Marcuse ed essenziale per non rimanere impantanati nella quotidianità alienata (come è capitato e capita a molti dei critici più aspri di Marcuse, Colletti compreso) – e l’“utopismo escatologico”, astratto e ideologico.
In piena sintonia con l’interpretazione marcusiana del Freud de Il disagio della civiltà e in polemica col marxismo di Lukács che ha escluso di prendere in considerazione nel proprio orizzonte teorico – con una esclusione densa di nefaste conseguenze per il marxismo stesso – la meditazione del tardo Freud circa il rapporto fra civiltà e repressione, Tito Perlini osserva invece che
il sano cinismo di Freud (…), dicendo pane al pane, chiamando la repressione col suo vero nome, pone implicitamente, oscuramente l’esigenza di un mondo diverso in cui la civiltà non debba necessariamente porsi come repressione, in cui si dia la possibilità di una conciliazione del principio del piacere col principio della realtà (non più riducentesi al principio di prestazione), in cui la sublimazione non sia più necessariamente frutto della repressione, ma si affermi come auto-sublimazione dell’istinto liberato, in cui l’istinto di morte venga riconciliato con il proprio opposto, in cui Eros e Thanatos non appaiano più l’uno ciecamente contro l’altro (25).
Freud si è fermato sulla soglia di un possibile trascendimento della formazione storico-sociale data e non ha saputo scorgere un orizzonte alternativo alla civiltà e alla razionalità del dominio e del principio di prestazione, a cui si tratta invece per Marcuse di contrapporre una nuova razionalità intrecciata alla sensualità, alla ricettività, alla contemplazione, al godimento, facendo leva sul principio di piacere, che sopravvive nell’Es, il quale va controllato e liberato insieme (cfr. EC 117, 160, 179-180, 255).
Da Aristotele a Hegel, la filosofia occidentale ha concepito l’essenza dell’essere come logos, ma una tale concezione non può che condurre alla centralità della ragione intesa essenzialmente non come apertura al mondo, ma come ordine e controllo, dominio su uomini e natura (cfr. EC 155).
Pur non intravedendo un orizzonte alternativo alla civiltà repressiva e pur tendendo a interpretare i processi storici come processi naturali-biologici, svelando l’ampiezza e la profondità della costrizione e della mancanza di libertà nella civiltà, Freud ha negato “l’identità di ragione e repressione”, ha difeso “le aspirazioni represse dell’umanità” e ha individuato nel ritorno del represso “la storia ostracizzata e sotterranea della civiltà” (cfr. EC 63-64, 79, 171).
La civiltà come “dominio organizzato”, l’individuo e il soggetto. Manipolazione di massa e questione della libertà
Dopo Copernico e Darwin, era solito ripetere Freud, che avevano sfrattato l’uomo dal centro dell’universo prima, e dell’evoluzione naturale poi, era arrivato – con la psicoanalisi – un terzo, più drammatico e improrogabile sfratto che aveva tolto al soggetto l’illusione di essere, con la luce della sua coscienza, padrone in casa propria. A registrare quello sfratto, d’altronde, aveva provveduto – come ha suggerito Lacan – trent’anni prima la poesia, quando uno di coloro ‘che magari non sanno quello che dicono, ma lo dicono prima degli altri, aveva proclamato che ‘Io è un altro’. Da allora ogni possibile conoscenza di sé era apparsa come una conquista che sarebbe stata comunque parziale, lacunosa, viziata, ottenuta a tentoni tra sfingi misteriose e intrattabili (26).
Con e a partire da Freud è avvenuta una straordinaria rivoluzione epistemologica, non è più possibile riproporre una nozione di uomo inteso come pura luce, razionalità e coscienza, pienezza d’essere, soggetto trasparente, interamente padrone di sé. Il “soggetto”, anzi, si detronizza, perde ogni arroganza e padronanza, appare irrimediabilmente lacerato, scisso, contraddittorio, aperto alla ricerca, al mondo, agli altri, alle cose, alla verità. Gli è impossibile una identità statica e rigida, una ricomposizione totale di sé, attraversato come è, costitutivamente, da luci e ombre, chiarori e tenebre, forze e lacune, pieni e vuoti, passività e attività.
Il terzo sfratto operato dalla psicoanalisi pare dunque decisivo, foriero di vaste e profonde conseguenze in tutti i campi e in tutte le discipline, ma Marcuse, nella sua pur stimolante rilettura critica di Freud, forse a causa del suo hegelismo (27) di fondo (che, sia ben chiaro, gli garantisce anche tanti buoni apporti nel lavoro del pensiero, dalla forte coscienza della potenza del negativo al vivo senso delle contraddizioni, etc.) e mosso dall’urgenza “politica” dellaliberazione e della lotta contro la civiltà repressiva, è interessato esclusivamente ad un integrale divenir soggettivo-razionale del mondo e ad una nozione forte di soggetto (il soggetto rivoluzionario, appunto). Nonostante le ragioni comprensibili da un punto di vista politico e i suoi innegabili grandi apporti critici, ne risulta però in Marcuse, a nostro avviso, una insufficiente radicalità di pensiero – anch’essa densa di conseguenze in campo filosofico e politico – circa il tema del soggetto e della soggettività.
Ma torniamo all’interpretazione marcusiana de Il disagio della civiltà. L’analisi freudiana dello sviluppo dell’apparato psichico repressivo (che vede il prevalere traumatico del principio di realtà sul principio di piacere) si svolge per Marcuse sui due piani, strettamente correlati, dello sviluppo dell’individuo, della ontogenesi (ossia della “crescita dell’individuo represso dalla prima infanzia fino alla sua esistenza conscia nella società”) e dello sviluppo della specie, dellafilogenesi (ossia della “crescita della civiltà repressiva dall’orda primitiva fino allo stato civilizzato completamente costituito”, EC 66).
Repressione esterna e repressione interna come “autorepressione dell’individuo represso”, che interiorizza il comando padronale o l’autorità del potere, costituiscono le dinamiche fondamentali delle civiltà, la cui essenza consiste nel “dominio organizzato” – esercitato da gruppi particolari per garantire la difesa di privilegi di potere – ben diverso dall’esercizio razionale dell’autorità, necessario in qualsivoglia società.
Il principio di prestazione – come forma storicamente prevalente del principio di realtà – e la repressione addizionale – dovuta alle forme del potere e del dominio sociale, distinta dalla repressione fondamentale o di base necessaria alla sopravvivenza della specie umana – hanno caratterizzato lo sviluppo storico delle civiltà umane (cfr. EC 79-82, 87).
Il principio di prestazione vige in una società alienata in cui gli individui lavorano come dipendenti di un potere a loro estraneo e di un apparato che essi non controllano. Quando Freud, riprendendo l’ispirazione propria dei primi dialoghi di Platone (che in essi “concepiva la cultura non come sublimazione repressiva dell’Eros, ma come suo libero autosviluppo”, EC 155), valorizza il ruolo dell’Eros, egli di fatto comincia a fuoriuscire dalla logica della ragione intesa come dominio, senza però mettere esplicitamente in discussione il principio di realtà storicamente dato.
Cercando di riprendere criticamente l’Eros freudiano (e platonico), nel corso degli anni Sessanta del XX secolo Marcuse ritiene che la lotta per Eros contro Thanatos sia essenzialmente una lotta politica e si schiera apertamente dalla parte della contestazione giovanile e studentesca di quel periodo.
Già nel 1966, però, nella “Prefazione politica” alla riedizione di Eros and Civilization (cfr. EC 33-45), egli fa autocritica sulla propria visione troppo ottimistica del 1955 che lo aveva indotto a sottovalutare la presenza di efficaci forme di controllo sociale in grado di assorbire e rendere innocue le spinte contestatrici: “Proprio le forze che hanno messo la società in condizione di risolvere la lotta per l’esistenza sono servite a reprimere negli individui il bisogno di liberarsi” (EC 33).
Circa il neo-individualismo o “individualismo senza individuo” oggi dominante, che garantisce soltanto la subalternità della singolarità all’apparato, la totale irrelazione/eterogeneità fra individuo e società, la smentita di fatto dell’autonomia pur esaltata dalle teorie individualistiche, ha rilevato acutamente Tito Perlini: “Per questa larva di individuo (…) libertà e consumismo si identificano. Dalla possibilità di consumare sempre di più e in modo sempre più immotivato, nella rinuncia ad ogni criterio razionale di selezione, dipende la pretesa ‘indipendenza’ dei singoli. L’autonomia viene così fatta derivare da un massimo di eteronomia e quest’ultima viene scambiata per un beato stato d’anarchia. L’individuo dimissionario si illude di realizzare la propria libertà nella scelta cui lo spingerebbe l’assortimento sempre più vasto, differenziato e sofisticato di prodotti che gli vengono messi a disposizione da quell’enorme ‘supermarket’ che è diventata la società stessa nella sua interezza (…).
Nell’esaltazione del consumo per il consumo, come libertà e accrescimento della vitalità, il neo-individualismo nega il proprio stesso concetto, rovesciandosi nel contrario di ciò che presume di essere. Ponendosi contro l’istanza centralizzante dell’io, esso si rivela come un individualismo senza individuo, contrario ad ogni sforzo di preservarne la consistenza, pronto a bollare come ‘nostalgiche’ tutte quelle esigenze per le quali la vita individuale, per non smarrirsi nell’indistinto, deve restare ancorata ad una fondamentale continuità”(28).
Già nel 1966 Marcuse demistifica in modo estremamente lucido e pertinente la forma attuale della “libertà” e della democrazia ridotta al trionfo del Dio-Mercato:
“La gente, efficacemente manipolata ed organizzata, è libera: ignoranza, impotenza e eteronomia introiettata costituiscono il prezzo della sua libertà” (EC 34. Cfr. anche EC 132-133).
Democrazia e libertà, ovunque sbandierate, sono mortificate e svuotate dalla manipolazione sociale operata dal potere e dai mezzi di comunicazione di massa (a cominciare dalla televisione) che perseguono una vera e propria strategia rivolta al ridimensionamento del pensiero critico e al rimbecillimento di massa.
Rispetto agli anni Sessanta e Settanta, in cui Marcuse profeticamente rilevava quanto sopra, la manipolazione sociale ha raggiunto livelli giganteschi e inimmaginabili. Nel capitalismo sviluppato e organizzato le coscienze sono sempre più eterodirette, l’alienazione, il conformismo e il controllo invadono tutti i settori della vita, anche nel cosiddetto “tempo libero”.
Osservava fin dagli anni Sessanta Augusto Vegezzi: “La civiltà opulenta, l’ultima figura della controrivoluzione, debellando la penuria, mentre offre la possibilità oggettiva di una emancipazione sociale dell’uomo, porta a saturazione la sua totale alienazione” (29). Ancora oggi stiamo vivendo più che mai sulla nostra pelle e nella nostra civiltà questa saturazione della totale alienazione umana, senza poterne scorgere il limite massimo.
Anche se non tutti se ne rendono conto, il “Grande Fratello” è già tra noi e opera in modo solerte per irretire, assopire, addomesticare, edulcorare il nostro pensiero e le nostre coscienze, perfino la nostra vita affettiva e sentimentale. Non c’è più bisogno, per reprimere, del manganello o dell’ olio di ricino, della tortura fisica o della prigione, bastano un tubo catodico e l’enfasi retorica sulla libertà svuotata di contenuto, ridotta essenzialmente al consumo e alla produzione sfrenati.
Lo stesso richiamo marcusiano alla “sessualità polimorfa”, che doveva servire per trasformare il corpo umano da strumento di fatica in strumento di piacere, è stato in gran parte vanificato, a causa del prevalere dei meccanismi di mercificazione del sistema. La logica della manipolazione/mercificazione è totalizzante e spietata, concerne e travolge tutto e tutti, piccole e grandi cose, compresi i “valori supremi”, le idee, i corpi, gli affetti, le emozioni, i sentimenti.
Nella “Prefazione politica 1966” a Eros e civiltà, Marcuse insiste molto (cfr. EC 38-39, 42, 44) pure sul nesso tra società opulenta e tendenze alla guerra, alla devastazione, distruzione e inquinamento. Egli sottolinea fin dagli anni Sessanta ciò che è più che mai sotto i nostri occhi e che anzi ha subìto oggi, all’inizio del XXI secolo, un’accelerazione preoccupante: il nesso fra società totalmente amministrata (o organizzazione totale della società) e preparazione permanente per la guerra, lo sviluppo enorme del settore militare e distruttivo, la centralità strategica dell’economia militare nell’economia dei cosiddetti paesi sviluppati. Di fatto, proprio in questi ultimi anni, non a caso ha ripreso vigore nei paesi più ricchi e tecnologicamente avanzati la “cultura della guerra” (e, addirittura, della “guerra preventiva”).
Erotizzazione dei rapporti sociali e dimensione estetica
Simboli di un diverso principio di realtà per Marcuse sono Orfeo e Narciso(30), (cfr. il capitolo “Le immagini di Orfeo e Narciso”, EC 183-193 ed EC 212, 224-225, 248), affini a Dioniso e antitetici a Prometeo(31), giudicato “eroe archetipo del principio di prestazione”; il mito di Orfeo e di Narciso suggerisce immagini di gioia e di canto, di gioco e di contemplazione, di liberazione e di compimento, di bellezza e di armonia, di riunificazione tra uomo e natura.
Qui la liberazione evocata assume un forte tratto lirico-utopico e non concerne solo il mondo umano, ma l’intero mondo naturale, chiamato a un rinnovamento e a una rigenerazione radicali nel segno della gioia, della bellezza e dell’amore. L’Eros orfico e narcisistico – di un narcisismo che non s’identifica col miope e riduttivo amore di sé – vince addirittura, secondo Marcuse, la morte e il dolore.
Il filosofo spinge la sua tensione utopica sino ad opporre alla morte stessa il “Grande Rifiuto” della liberazione, nel tentativo – che appare piuttosto velleitario – di trasformare la morte da “strumento di repressione” (quale essa è nella civiltà repressiva) in “segno di libertà” e in necessità razionale scevra da sofferenza.
Egli condanna da questo punto di vista la “filosofia esistenziale” (il suo bersaglio preferito è soprattutto Heidegger) che, a suo dire, ha trasformato la morte in una “categoria esistenziale” e ha operato come “ancella della repressione”, della capitolazione e della sottomissione all’inumano col suo invito all’accettazione incondizionata della morte (cfr. EC 247-248).
Qui, però, francamente, il discorso marcusiano risulta assai poco convincente e rischia di farsi troppo ideologico e poco radicale dal punto di vista del pensiero. Lo stesso accade, a proposito del problema del tempo, quando Marcuse afferma (cfr. EC 210) che la natura conservatrice del principio di piacere vorrebbe “abolire il tempo nel tempo”, “sconfiggere il corso distruttivo del tempo”. Ma voler sconfiggere il corso distruttivo del tempo è come voler racchiudere il mare in una mano. Qui l’esaltazione del principio di piacere spinge l’autore di Eros and Civilization ad abbracciare un volontarismo che non fa i conti con i duri dati della condizione umana.
Scrive inoltre Marcuse: “la filosofia estetica concepisce un ordine non repressivo tale che la natura (dell’uomo e esterna all’uomo) diventi liberamente suscettibile di ‘leggi’ – leggi di gioco e di bellezza” (EC 212). Ma, anche qui, la natura non è certo governata da mere leggi di gioco e di bellezza, che risultano inevitabilmente antropomorfiche, “umane, troppo umane”, proiezioni illusorie di desideri umani, per quanto nobili e degni. Qui torna ad avere ragione Freud, con la sua lucidità e il suo realismo, rispetto agli slanci utopistici marcusiani.
Quanto alla valorizzazione marcusiana del gioco come veicolo di liberazione, oggi assistiamo non alla negazione del gioco, ma alla sua piena affermazione nell’ambito del sistema dato. Assistiamo anzi alla proliferazione dei giochi nella società sirenico-spettacolare, ma questi sono per lo più giochi truccati o del tutto funzionali alla logica del dominio di una società competitiva e imperniata sul primato dell’homo oeconomicus. I giochi della società sirenico-spettacolare (come l’ha definita Günther Anders) non sono più veicoli di liberazione, ma rientrano pienamente nei giochi predeterminati dal primato del profitto e dalla logica della mercificazione totale delle cose.
La dimensione estetica valorizzata da Marcuse (cfr. il capitolo “La dimensione estetica”, EC 194-214)(32) è invece caratterizzata da un forte irrealismo che garantisce la sua libertà dal dominio del principio di realtà e la sua fruttuosità per il rinnovamento del mondo. La fruizione dell’oggetto estetico grazie al libero gioco dell’immaginazione consente di sottrarci al dominio della ratio strumentale calcolante che vuole assoggettare a sé ogni cosa.
Schiller, il nesso estetica-politica e la sublimazione non repressiva
Moralmente nobile è l’uomo che possiede quei beni che sono belli per sé stessi e che è capace di compiere le cose belle e di compierle per sé stesse; e cose belle sono le virtù e le opere che dalla virtù derivano (…) per colui che è moralmente nobile le stesse cose sono sia vantaggiose che belle; invece per i più questo è in discordanza. Infatti le cose buone in assoluto non sono buone anche per quelli, mentre sono buone per l’uomo buono; e per l’uomo moralmente nobile sono anche belle. A causa di esse, infatti, compie molte e belle azioni. Colui che invece crede che si debbano possedere le virtù in vista dei beni esterni, è per accidente che compie azioni belle. La kalokagathia è pertanto la virtù perfetta” (33).
La cultura estetica presuppone, secondo Schiller, una “rivoluzione totale del modo di concepire e di sentire”, che passa anche attraverso la libera espressione del gioco, la cui inutilità, improduttività e gratuità si contrappongono alla logica del produttivismo e del principio di prestazione.
Contro il lavoro alienato, Marcuse avanza l’ipotesi del lavoro inteso come “libero gioco” (cfr. EC 232, 236-237). Il nesso estetica-politica è essenziale in un’ottica di liberazione piena e integrale dell’esistenza dalle sue condizioni inumane.
Nella sua libertà e irrealtà rispetto al principio di realtà repressivo, l’arte opera la rivalutazione della Sinnlichkeit e rappresenta l’ordine della sensualità, dipende dal principio di piacere e ha “radici erotiche”. La bellezza artistica e la dimensione estetica sono decisive nel dare alla civiltà una nuova forma e consentono la riconciliazione delle due sfere della sensualità e della ragione, rigidamente separate e contrapposte sotto il dominio del principio di realtà repressivo.
Le energie impiegate nella produzione artistica rinviano a ciò che Marcuse chiama lasublimazione non repressiva, una nozione su cui il filosofo insiste molto, anch’essa ricavata dalla reinterpretazione critica radicale di Freud avviata in Eros and Civilization. Nello scritto del 1908 Die ‘kulturelle’ Sexualmoral und die moderne Nervosität, in riferimento soprattutto alle posizioni espresse nella Sexualethik (1907) di Christian von Ehrenfels, Freud aveva sostenuto fra l’altro che la morale sessuale “civile” dominante ammette come meta sessuale soltanto la riproduzione “legittima” attraverso il matrimonio monogamico, predica l’astinenza sessuale prima del matrimonio e per tutti coloro che rimangono non sposati, dà luogo ad una “doppia morale” ipocrita e ingannevole, spinge i membri della società ad occultare pressoché sistematicamente la verità e procura soprattutto l’accrescimento delle frustrazioni, delnervosismo moderno.
La ‘kulturelle’ Sexualmoral finalizza la sessualità alla mera procreazione, ottiene essenzialmente la repressione delle pulsioni e della vita sessuale degli individui attraverso lasublimazione, ossia la “proprietà di scambiare la meta originaria sessuale con un’altra, non più sessuale ma psichicamente affine alla prima”(34). La civiltà borghese moderna si regge dunque per Freud sulla sublimazione, ovvero sulla repressione e insieme sulla dislocabilità delle pulsioni sessuali.
Con le assurde pretese della morale sessuale “civile”, la civiltà garantisce agli individui un gran campionario di rinunce, ipocrisie, falsità, sofferenze, infelicità, nevrosi. La morale sessuale “civile” non merita i sacrifici che essa c’impone, anzi si rende necessaria una sua riforma profonda con urgenza, ma tale compito viene soltanto indicato e non personalmente perseguito dal fondatore della psicoanalisi.
Ora, mentre Freud col concetto di sublimazione si riferisce alle condizioni e ai destini della sessualità sotto il principio di realtà repressivo, Marcuse lavora fruttuosamente attorno alla possibilità di ricavare dagli stessi concetti freudiani la sublimazione non repressiva (o senza desessualizzazione), la quale non comporta la deviazione dell’istinto sessuale dalla sua meta, ma la sua soddisfazione nell’erotismo polimorfo, in attività e rapporti libidici ed erotici in largo senso, che non si esauriscono nell’espressione della mera sessualità genitale.
La sublimazione non repressiva non rinnega o disprezza la sessualità, non comporta alcuna desessualizzazione corporea o deviazione restrittiva della libido, ma consente la libera, creativa ed erotica espressione di sé, la trasformazione del mondo e della società in senso erotico, senza l’ossessione della e il riferimento esclusivo alla sessualità genitale. L’autosublimazione della sessualità o sublimazione non repressiva trasforma la sessualità in Eros (cfr. il capitolo “La trasformazione della sessualità in Eros”, EC 215-235), che è “un ampliamento quantitativo e qualitativo della sessualità” (EC 222).
Da una sessualità meramente genitale si passa così, nelle ottime intenzioni marcusiane, all’erotizzazione dell’intera personalità individuale e dell’intera civiltà. La sublimazione non repressiva è evidentemente caratterizzata da una incomparabile espansione e intensificazionedella soddisfazione, irriducibile alla mera scarica istintuale e non più limitata alla sfera corporea-sessuale.
La nozione di sublimazione non repressiva consente a Marcuse di non sopravvalutare la sessualità e di non limitare la liberazione alla mera liberazione sessuale, concependola invece come un processo individuale, sociale, politico e culturale complesso e pluridimensionale. Giungiamo così a una nozione di piacere non superficiale e non riduttiva: esso non si esaurisce in un mero sfogo biologico o in una semplice soddisfazione immediata, ma mira all’estensione della sfera del compimento e della realizzazione.
La erotizzazione marcusiana, come nota opportunamente Augusto Vegezzi in uno dei primi scritti dedicati in Italia all’analisi di Eros and Civilization, “è agli antipodi di un erotismo decadente letterario alla Bataille, o psicologico alla Reich. L’immediata identificazione operata da questi di repressione e corruzione, lo ha portato a una esaltazione delirante della liberazione sessuale come panacea di tutti i mali dell’uomo e della società. Marcuse è, invece, ben conscio della terribile deformazione subita dagli istinti in funzione del principio di prestazione e del primato della famiglia monogamica e della sessualità genitale(35).
Alla luce della nozione di sublimazione non repressiva – che mira pure a liberare il “contenuto represso della memoria” e attraverso il ricordo intende “redimere” il passato (cfr. EC 244-245) – l’Eros marcusiano trova un significato più ricco. L’Eros, ora, mosso dal ricordo avente in sé un potere di liberazione, vive il presente più responsabilmente e prepara fruttuosamente l’avvenire. Da impulso prevalentemente biologico, l’Eros freudiano diventa ora anche e soprattutto impulso alla creazione di nuova socialità e cultura.
Sul disagio e sulla crisi della nostra civiltà
La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce , e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci” (36).
Per gli uomini dell’età della mercificazione totale – ridotti a meri produttori e consumatori, a funzionari della merce e del denaro, dell’economia e della tecnica, sempre all’inseguimento del mito della crescita – l’abitare non è più il soggiorno dei mortali, l’essenza dell’uomo non è più quella del viandante, la terra non è più il pianeta che ospita, ma un fondo, una risorsa da saccheggiare e sfruttare illimitatamente.
L’alienazione (intesa come Verdinglichung e come Entfremdung) oggi non è diminuita, anzi è diventata onnipervasiva. In Eros e civiltà Marcuse rileva tutto ciò con una frase che sarebbe potuta appartenere allo stesso Heidegger:
l’intero mondo del lavoro e degli svaghi è diventato un sistema di oggetti animati e inanimati – tutti egualmente sottomessi all’amministrazione. L’esistenza umana in questo mondo è diventata puro materiale, materia prima, e non ha più in sé il principio del proprio movimento (EC 136)
La minaccia nichilistica investe insieme la cosità della cosa, la mondità del mondo e l’umanità dell’uomo. Vengono a mancare il coseggiare della cosa, il mondeggiare del mondo, il risplendere dell’esistenza umana nella semplicità e dignità del suo essere. In gioco è sempre il nostro rapporto con noi stessi e con gli altri, con le cose e con gli eventi, con il mondo e con la verità.
Acqua, foreste e terreni fertili sono sempre più in esaurimento, il deserto avanza da ogni punto di vista, fisico e spirituale, naturale e morale. Non si dà – come voleva Marcuse – alcuna erotizzazione dei rapporti umani e sociali né alcuna riconciliazione tra uomo e natura.
Non è ancora in vista, a breve termine, una nuova globalizzazione o l’“uomo planetario” vagheggiato da Ernesto Balducci nei suoi scritti profetici e ammonitori; non si dà alcuna nuova cultura ed etica dell’uomo planetario, che esiste soltanto a livello embrionale. Prevalgono infatti l’ideologia dell’homo oeconomicus, l’“individualismo senza individuo”, la globalizzazione del Dio-mercato, dell’uomo inteso come funzionario della tecnica e dell’economia, del capitale e del denaro, delle merci e del sistema.
Vengono in mente le famose parole di Husserl (ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale) sulla crisi di senso e di direzione dell’esistenza e della civiltà umane, malgrado i “continui successi”, gli indubbi prodigi e conquiste della tecnoscienza. Che ne è del senso della nostra esistenza e della nostra civiltà? Nel suo Das Unbehagen in der Kultur Freud considera scienza e tecnica come prolungamenti naturali dell’azione umana nel mondo.
La situazione ora è ben diversa, il dominio della tecnoscienza si presenta in un modo ben altrimenti scottante e inquietante. Oggi la “questione della tecnica” (o, ancor meglio, della tecnologia) mette in discussione direttamente e radicalmente il destino stesso della natura, degli uomini e di tutti gli esseri viventi. Ciò che nei suoi scritti Martin Heidegger ha chiamato ilGestell(37) – termine sostanzialmente intraducibile che sta a indicare la provocazione impiegante tendenzialmente illimitata propria del mondo della tecnica – assume una forza sradicatrice impressionante.
Nel linguaggio del suo marxismo libertario e critico, creativo e antidogmatico, Marcuse aveva invece parlato in Eros and Civilization di “abolizione dell’individuo da parte della tecnica” nel passaggio e nella trasformazione dal capitalismo “libero” al capitalismo “organizzato” (cfr. EC 130), al mondo totalmente amministrato.
Per ricorrere ancora al linguaggio freudiano, la pulsione di morte o distruttiva oggi si alimenta di una potenza tecnologica del tutto inedita e sconosciuta rispetto ai tempi in cui visse Freud, il quale però, con grande lungimiranza, cominciò a comprendere che l’uomo dell’età della scienza e della tecnica stava riappropriandosi degli ideali di onnipotenza e di onniscienza tradizionalmente riservati ai suoi dei:
Ad essi assegnò tutto quel che pareva irraggiungibile ai suoi desideri, o era proibito. Possiamo dunque dire che questi dei erano ideali di civiltà. Oggi egli è pervenuto assai vicino al raggiungimento di questi ideali, è diventato lui stesso quasi un dio. (…) Le età future recheranno con sé nuovi e forse inimmaginabili passi avanti in questo campo che appartiene alla civiltà, accresceranno ancora la somiglianza dell’uomo con Dio. Pure, nell’interesse della nostra indagine, non dimentichiamo che l’uomo d’oggi, nella sua somiglianza a Dio, non si sente felice. (UK 227-228).
Nel XXI secolo e nelle rappresentazioni che gli uomini stessi si fanno della loro vita e del loro destino, questa “somiglianza dell’uomo con Dio” si è di molto accentuata; la odierna volontà di potenza scientifico-tecnologica ed economico-politico-militare ha raggiunto livelli inauditi, ma rimane più che mai vero e di grande attualità l’ammonimento di Freud, secondo cui “l’uomo d’oggi, nella sua somiglianza a Dio, non si sente felice”. Ciò non va trascurato, nell’interesse della nostra indagine.
Non si sente felice perché in nessun caso l’uomo può ergersi a Dio, a Fondamento di sé stesso, in nessun caso il suo delirio di onnipotenza e di onniscienza può essere soddisfatto. E perché in ogni caso egli, in qualche modo, avverte sempre, prima o poi – magari oscuramente e con nervosismo, senza una piena e lucida consapevolezza -, il senso del limite e della miseria, della propria fragilità e caducità, debolezza e finitezza.
L’uomo d’oggi non si sente felice perché in ogni caso scienza e tecnologia non bastano a garantire la felicità. Anche la tecnoscienza ha i suoi limiti, che prima o poi sempre incontra, pur tentata come è dal delirio di onnipotenza.
Nonostante tutte le sue conquiste e i suoi progressi, tutti i suoi averi e comodità, l’uomo d’oggi attraversa una crisi spaventosa che può essere intesa innanzi tutto come una crisi radicale di fiducia e di speranza in se stesso e negli altri, nella stessa idea di uomo e di società, nella possibilità di costruire forme migliori di convivenza.
Viviamo tutti il disagio profondo (che spesso è ben più che un semplice disagio) di essere alienati, di sentirci come “polli di allevamento”, pedine intercambiabili di un meccanismo infernale e insensato, di un apparato autoriproducentesi tendenzialmente all’infinito, il quale non sa che farsene di noi e ci utilizza freddamente nei propri ingranaggi. È chiaro che in questa situazione storico-culturale la desolazione e la disperazione rischiano di spadroneggiare.
Eppure, in linea teorica, non mancherebbero le mete e alternative praticabili per cambiare il mondo in una direzione migliore: la rivoluzione nonviolenta; la cultura dell’accoglienza e dell’ospitalità, della ricettività e dell’ascolto, della condivisione e della solidarietà; il superamento del maschilismo e del virilismo; il senso del limite e della misura; la cultura e l’etica della responsabilità(38); la rinunzia al primato indiscusso del profitto e al dominio sulla natura; il ripensamento del rapporto fra economia e società; la rimessa in questione degli stili di vita, di lavoro e di consumo; etc..
Per cambiare il mondo in modo davvero proficuo non è sufficiente riferirsi alla ben nota undicesima tesi su Feuerbach di Marx (che invitava non solo a interpretare, ma a trasformare il mondo), perché oggi il mondo viene comunque costantemente cambiato, tende anzi a dominare una prassi cieca e furiosa, ciò che Robert Musil ne L’uomo senza qualità chiamava “il vuoto dinamismo del giorno” e si tratta quindi non solo di cambiare il mondo, ma anche di conservarlo, di salvaguardarlo come mondo.
Urgente diventa, come scrive Günther Anders nel suo Die Antiquiertheit des Menschen. II. Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution (1980), “cambiare il cambiamento” e insieme conservare il pianeta nella sua integrità: “Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d’interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi”(39).
Ciò che ci è molto vicino, alla nostra portata, purtroppo ci appare molto lontano. Nonostante il deserto avanzante, Nietzsche-Zarathustra ci ammoniva a non albergare in noi stessi deserti: “Il deserto cresce: guai a colui che alberga deserti!”(40).
Per Freud il programma impostoci dal principio di piacere, quello di essere felici, non può essere adempiuto, ma l’impossibilità dell’adempimento non deve farci desistere dall’anelito alla felicità (41).
Come Giacomo Leopardi, Freud ci fa amare e tendere più che mai alla felicità, per quanto sia sostanzialmente pessimista circa l’adempimento. Nel suo pensiero rintracciamo non la promessa della felicità né la sua certezza, ma l’anelito ad essa, l’invito alla sua ricerca.
Ora, l’invito è da accogliere, considerando con lo stesso Freud che non vi è e non vi può essere una ricetta della felicità valida per tutti, che ognuno deve trovare la sua via per la realizzazione di sé e che, a questo scopo, la costituzione psichica degli individui – sui cui enigmi difficili continuiamo a interrogarci senza quiete – è una componente ineludibile e decisiva.
Thursday, 10 May 2007
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