L’articolo di Gabriel Tarde, Qu’est-ce que la société?, del 1884, in cui teorizza la natura culturale dei sentimenti e individua la forza dell’influenza sociale nel meccanismo dell’imitazione.
Indice
1. Premessa: sulla natura culturale dei sentimenti
2. Che cos’è la società?
1. Premessa: sulla natura culturale dei sentimenti
In uno scritto del 1884, uscito su una rivista filosofica parigina e intitolato Che cos’è la società, Gabriel Tarde, scienziato sociale a lungo oscurato dalla fama di Durkheim, descriveva la condizione dell’uomo in società come il
«non avere che idee suggerite e crederle spontanee»,
concludendo che
«tale è l’illusione del sonnambulo come dell’uomo sociale».
Le prove addotte da Tarde circa la natura artificiale, non naturale, delle opinioni e dei sentimenti umani sono tratte, come in tutta la sociologia delle origini (a partire dalle Lettere persiane di Montesquieu) dalla diversità culturale. Come mostra il sociologo, anche ciò che sembra più naturale in una cultura è “respinto con orrore” in un’altra, come
«l’amore paterno nei popoli per i quali lo zio materno veniva prima del padre, la gelosia in amore nelle tribù in cui regnava la comunanza delle donne, ecc.».
Sarà Durkheim a rendere ancora più perentoria l’osservazione di Tarde e ad indicare nelle istituzioni sociali il luogo d’origine dei sentimenti, delle convenzioni, delle opinioni umane:
è perché esiste il matrimonio che amo mia moglie .. è perché ho introiettato l’obbligazione sociale di proteggerli che amo i miei figli.
In altre parole,
l’uomo non è, nella sua essenza che l’insieme dei rapporti sociali [Marx, Sesta tesi su Feuerbach]
2. Che cos’è una società?
Che cos’è una società? Si è in genere risposto: un gruppo di individui diversi che si rendono mutui servizi. Da questa definizione chiara quanto falsa sono nate tutte le frequenti confusioni tra le cosiddette società animali, o la maggior parte di esse, e le uniche, autentiche società, delle quali, sotto un certo riguardo, quelle animali costituiscono un piccolo numero.
A questa concezione del tutto economica, che fonda il gruppo sociale sulla mutua assistenza, sarebbe utile contrapporne una del tutto giuridica considerando cioè come associati di un individuo qualsiasi non tutti coloro ai quali egli è utile o che gli sono utili, ma tutti coloro e soltanto coloro che hanno su di lui dei diritti stabiliti dalla legge, dal costume e dalle maniere comunemente accettate, o sui quali egli ha degli analoghi diritti, siano reciproci o meno.
Come però vedremo, questo punto di vista, benché sia preferibile, restringe troppo il gruppo sociale così come l’altro lo estende oltre misura. Sarebbe possibile, infine, una concezione del legame sociale del tutto politica o religiosa. Condividere la stessa fede o collaborare a un unico disegno patriottico comune a tutti gli associati e, che essi si aiutino o meno a soddisfarli, profondamente diverso dai loro bisogni particolari e più disparati: sarebbe questo il vero rapporto di società. Definizione esatta, dal nostro punto di vista, ma incompleta, e che rientra quale caso particolare in una definizione più generale che tenteremo di offrire.
Se il rapporto tra i membri della società fosse essenzialmente uno scambio di servizi, bisognerebbe non solo riconoscere che le società animali meritano questo nome, ma anche che esse sono le società per eccellenza. Il pastore e il contadino, il cacciatore e il pescatore, il panettiere e il macellaio si rendono certo dei servizi, ma molto meno di quanto non facciano i diversi sessi delle termiti.
Tra le stesse società animali, le più autentiche non sarebbero poi le più elevate, quelle delle api e delle formiche, dei cavalli o dei castori, ma le più umili, quelle dei sifonofori, ad esempio, in cui la divisione del lavoro è talmente sviluppata che gli uni mangiano per gli altri, e questi ultimi digeriscono per loro. Non si potrebbe immaginare un servizio degno di maggior considerazione.
Senza alcuna ironia e attenendoci al genere umano, il grado del legame sociale tra gli uomini sarebbe della loro reciproca utilità. Il padrone dà riparo allo schiavo e lo nutre, il signore difende e protegge il servo in cambio di funzioni subalterne che lo schiavo e il servo svolgono a profitto del padrone o del signore: vi è una reciprocità di servizi, imposta con la violenza, è vero, ma ciò ha poca importanza se il punto di vista economico deve avere la meglio, se si crede che sia destinato a prevalere sempre di più su quello giuridico.
Così lo spartano e l’ilota, il signore e il servo, e così anche il guerriero e il commerciante indù sarebbero socialmente molto più legati di quanto non lo siano i liberi cittadini di Sparta o i feudatari di una stessa contrada, o gli iloti, o i servi di uno stesso villaggio che hanno identici costumi, parlano la stessa lingua e professano la stessa religione!
Si è a torto pensato che avanzando nel processo di civilizzazione le società tendessero, in modo sempre maggiore, a privilegiare le relazioni economiche a discapito di quelle giuridiche: dimenticando così che ogni lavoro, ogni servizio, ogni scambio riposa su un vero e proprio contratto garantito da una legislazione sempre più regolamentata e complessa, e che all’accumularsi di prescrizioni legali si aggiungono usi commerciali o altre consuetudini che hanno forza di legge, dimenticando il moltiplicarsi di ogni genere di procedura, dalle formalità semplificate ma generalizzate delle buone maniere alle usanze elettorali e parlamentari.
Ben più che una mutua assistenza, la società è una determinazione reciproca di impegni o di consensi, di diritti e di doveri. Ecco perché essa si stabilisce tra esseri simili o tra loro poco differenti. La produzione economica richiederebbe in verità, secondo il desiderio inespresso ma logicamente inevitabile degli economisti, una specializzazione delle attitudini spinta all’estremo, che dividerebbe il minatore, il contadino, l’operaio tessile, l’avvocato, il medico ecc. in altrettante specie umane.
Ma, per fortuna, la prevalenza tanto affermata e invano negata dei rapporti giuridici evita che questa differenziazione tra i lavoratori si accentui troppo, e anzi agisce per renderla ogni giorno più debole. Qui il diritto è in verità una conseguenza e una forma dell’attitudine umana all’imitazione. Ci si pone forse da un punto di vista utilitaristico quando si insegnano al contadino i suoi diritti, quando lo si istruisce, a rischio di assistere allo spettacolo delle popolazioni rurali che lasciano l’aratro e la vanga, all’inaridirsi della duplice mammella dell’aratura e del pascolo?
No, ma il culto dell’uguaglianza ha avuto la meglio su questa considerazione. Si è voluto che avessero accesso al livello superiore della società le classi che, malgrado uno scambio incessante di servizi, non potevano per molti aspetti appartenergli; e si è pertanto compreso che occorreva assimilarle per contagio imitativo ai membri dell’alta società o, meglio, che occorreva comporre il loro essere mentale e sociale con idee, desideri, parole, con elementi, in breve, di per sé simili a quelli che costituiscono lo spirito e il carattere dei membri di questa società.
Se gli esseri più dissimili possono avere un rapporto servile, come il pescecane e il pesciolino che gli fa da stuzzicadenti, come l’uomo e i suoi animali domestici, se talvolta possono persino collaborare a un’opera comune, come il cacciatore e il cane da caccia, o come i due sessi, spesso così diversi, vi è al contrario una condizione senza la quale due esseri non potrebbero avere obblighi reciproci, riconoscersi l’un l’altro dei diritti: perché ciò si verifichi, essi devono avere una base di idee e tradizioni comuni, una lingua o un traduttore comuni, forti similitudini formate tutte dall’educazione, che è appunto una forma di trasmissione imitativa.
Ecco perché i conquistatori spagnoli o inglesi non hanno mai riconosciuto diritti agli indigeni d’America, né se li sono visti riconoscere da loro. La differenza di razza ha un ruolo secondario rispetto alla differenza di lingua, di costumi, di religione, o ha un ruolo ausiliario nei confronti di questa causa ultima di incompatibilità. Ecco perché, al contrario, una concatenazione serrata di diritti e di obblighi reciproci univa dal ramo più alto alla più bassa radice tutti i membri di una costituzione eminentemente giuridica come quella dell’albero feudale.
Qui in effetti, dall’imperatore al servo, la propaganda cristiana aveva prodotto, nel XII secolo, l’assimilazione mentale più profonda che mai si sia data. Ed è essenzialmente a causa di questa somiglianza, e non tanto di una rete di diritti, che l’Europa feudale formava da un capo all’altro una vera società, la cristianità, Ossia una relazione non meno stretta di quanto fosse stata al tempo dell’impero romano la romanità (romanitas). La prova di ciò?
Gli emigranti cinesi e indù, nelle Antille, possono anche essere legati ai loro padroni bianchi da servizi reciproci, e persino da contratti sinallagmatici, ma tra loro non si stabilisce mai un vero legame sociale, poiché essi non si assimilano mai. Vi è qui un contatto e un’utilizzazione reciproca di due o tre civiltà distinte, di due o tre fasci distinti di invenzioni, imitativamente irradianti nella loro sfera, ma non vi è società nel vero senso della parola.
La divisione delle caste indù era stata stabilita in virtù di una nozione eminentemente economica di società. Le caste erano razze distinte che si davano forti aiuti. Lungi dal denotare, quindi, uno stadio avanzato della civiltà, la tendenza a subordinare la considerazione morale dei diritti a quella utilitaria dei servizi e delle opere perde la propria forza nella misura in cui l’umanità migliora e la grande industria progredisce.
L’uomo civilizzato dei nostri giorni tende in verità a fare a meno dell’assistenza dell’uomo. Egli ricorre sempre meno a un altro uomo profondamente diverso da lui, professionalmente specializzato, e sempre più alle forze della natura asservita. L’ideale sociale del futuro non è forse la riproduzione in grande della città antica, in cui però gli schiavi, come si è detto e ripetuto a sazietà, sarebbero sostituiti da macchine, e in cui il piccolo gruppo di cittadini uguali, simili, continuando a imitarsi e ad assimilarsi, indipendenti, del resto, e almeno in tempo di pace inutili gli uni gli altri, costituirebbe la totalità degli uomini civilizzati?
La solidarietà economica stringe tra i lavoratori un legame più vitale che sociale; e sotto questo aspetto, nessuna organizzazione del lavoro sarà mai paragonabile al più imperfetto degli organismi. La solidarietà giuridica ha un carattere esclusivamente sociale, ma perché? Perché presuppone la somiglianza per imitazione. E se tale somiglianza si dà senza che vi siano diritti riconosciuti, sussiste, nondimeno, un principio di società.
Luigi XIV non riconosceva ai sudditi alcun diritto nei suoi confronti; i sudditi condividevano la stessa illusione; egli era tuttavia con loro in un rapporto sociale, poiché sia l’uno che gli altri erano i prodotti di una medesima educazione classica e cristiana, poiché tutti gli occhi erano per lui, tutti dalla corte e da Parigi fino alla Provenza e alla Bretagna erano pronti a copiarlo, e poiché egli stesso, senza rendersene conto, subiva l’influenza dei propri cortigiani, per una sorta di imitazione diffusa che ricambiava la sua imitazione irradiante.
Lo ripeto, si è in un rapporto di società assai più stretto con le persone a cui più si somiglia per identità di mestiere e di educazione, siano esse persino rivali, che con quelle di cui si ha il maggior bisogno. Lo si vede bene tra avvocati, tra giornalisti, tra magistrati, in qualsiasi professione.
A ragione, quindi, nel linguaggio comune si chiama società un gruppo di persone educate in modo simile, che hanno forse idee e sentimenti discordanti, ma che hanno una base comune, e con piacere si vedono e si influenzano. Gli impiegati di una stessa fabbrica, di uno stesso negozio, che si riuniscono per ragioni di mutua assistenza o di collaborazione, formano invece una società commerciale, industriale, non una società senza epiteti, una società pura e semplice.
Una guerra civile – Dii omen avertant! – può infrangere, tra noi francesi, tutti i legami giuridici ed economici, sconvolgere tutte le amministrazioni, esporre al saccheggio tutte le fattorie e tutte le fabbriche; ma vi è una cosa che non potrebbe distruggere, ed è la nostra unità sociale, più forte e più invulnerabile della nostra unione e della nostra coesione nazionale; è la profondità di questa uniforme cultura che fa di noi, celti o germani, amici o nemici, un popolo di fratelli nel senso spirituale e sociale della parola.
Una cosa è la nazione, sorta di organismo iperorganico, formato da caste, da classi o da professioni collaboranti, un’altra è la società. Lo si vede bene al giorno d’oggi, quando centinaia di milioni di uomini si stanno denazionalizzando e stanno al contempo socializzando sempre di più. Non mi sembra sia stato dimostrato che queste molteplici uniformità verso le quali ci avviciniamo a grandi passi (uniformità di lingua, di istruzione, di educazione ecc.) siano le più adatte a garantire l’assolvimento degli innumerevoli compiti che gli individui associati si sono divisi tra loro, che le nazioni stesse si sono divise tra loro. […]
L’instabilità e il malessere delle nostre moderne società devono sembrare incomprensibili agli occhi degli economisti e, in generale, di qualunque sociologo che fondi la società sull’utilità reciproca. La reciprocità dei servizi che le diverse classi delle nostre nazioni e le diverse nazioni si rendono tra loro è in effetti evidente, e ogni giorno aumenta, grazie al concorso dei costumi e delle leggi, con tutta la rapidità che si possa umanamente desiderare. Ma si dimentica che gli individui di queste classi e di queste nazioni tendono a un’assimilazione imitativa molto maggiore e molto più rapida, che ancora incontra nei costumi e persino nelle leggi ostacoli irritanti, tanto più irritanti, forse, quanto meno insuperabili appaiano.
Sono forse in rapporto sociale con gli altri uomini perché essi appartengono al mio stesso tipo psichico, perché hanno i miei stessi organi e gli stessi sensi? Sono forse in rapporto sociale con un sordomuto non istruito che ha un viso e un corpo molto somiglianti ai miei? No. Gli animali di La Fontaine, la volpe, la cicogna, il gatto, il cane, vivono in società, malgrado la distanza reciproca che li separa, perché parlano la stessa lingua. Si mangia, si beve, si digerisce, si cammina, si grida senza aver imparato a farlo. Il che è puramente vitale. Per parlare, invece, bisogna aver sentito parlare, come dimostra l’esempio dei sordomuti, che sono muti perché sordi. Comincio quindi a sentirmi in un rapporto sociale, certo debole, è vero, e insufficiente, con ogni uomo che parli, anche una lingua straniera, sì, ma a condizione che le nostre due lingue mi paiano risalire a una fonte comune. Il legame sociale va rafforzandosi nella misura in cui gli si aggiungono altri tratti comuni, tutti di origine imitativa.
Ne deriva la seguente definizione di gruppo sociale: una collezione di esseri che si imitano l’un l’altro o che si somigliano anche se attualmente non si imitano, i cui tratti comuni sono antiche copie di uno stesso modello.
[…]
III
A dire il vero, quella che ho appena definito non è tanto la società come la si intende comunemente, quanto la socialità. Una società è sempre in gradi diversi un’associazione, e un’associazione sta alla socialità, alla imitatività, per così dire, come l’organizzazione sta alla vitalità o come la composizione molecolare sta all’elasticità dell’etere. Sono, queste, delle nuove analogie che si aggiungono a quelle che mi è già sembrato presentassero, e così numerose, le tre grandi forme della Ripetizione Universale, ossia l’ondulazione, la nutrizione-generazione, e l’imitazione. Ma per ben comprendere la società relativa, la sola che in gradi diversi i fatti sociali ci presentino, converrebbe forse immaginare un’ipotetica socialità assoluta e perfetta. Essa consisterebbe in una vita urbana così intensa, che la trasmissione a tutti i cervelli della città di una buona idea comparsa da qualche parte in seno a uno di essi sarebbe immediata. L’ipotesi è analoga a quella dei fisici secondo cui se l’elasticità dell’etere fosse perfetta, gli impulsi luminosi o di altro genere vi si trasmetterebbero senza alcun intervallo di tempo. I biologi, da parte loro, non potrebbero forse utilmente concepire un’irritabilità assoluta incarnata in una sorta di protoplasma ideale, che servirebbe loro a stimare la più o meno grande vitalità dei protoplasmi reali?
Partendo da qui, perché l’analogia si conservi nei tre mondi, la vita dovrebbe essere semplicemente l’organizzazione dell’irritabilità del protoplasma, la materia semplicemente l’organizzazione dell’elasticità dell’etere, come la società è l’organizzazione dell’imitatività. […] Una massa di bambini allevati insieme, che abbiano ricevuto la stessa educazione nel medesimo ambiente, non ancora differenziati in classi e professioni, costituisce la materia prima della società. Essa forgia questa massa e, attraverso una differenziazione funzionale, inevitabile e forzata, forma una nazione […] una nazione non è altro che un accordo di tradizioni, costumi, educazioni, tendenze, idee che si propagano imitativamente per vie diverse, ma che si subordinano gerarchicamente e si aiutano fraternamente tra loro.
È dunque qui che interviene la legge di differenziazione. Ma non sarà inutile far notare che l’omogeneità sulla quale essa si esercita […] è un’omogeneità, per quanto reale, superficiale;[…] L’eterogeneo è nel cuore delle cose, e non l’omogeneo. Vi è forse qualcosa di più inverosimile, o di più assurdo, della coesistenza di innumerevoli elementi nati coeternamente simili? Simili non si nasce, si diviene. E del resto la diversità innata degli elementi non è forse la sola giustificazione possibile della loro alterità?
[…] Ogni omogeneità, infatti, è una similitudine delle parti, e ogni somiglianza è il risultato di un’assimilazione prodotta per ripetizione volontaria o forzata di quel che era all’inizio un’innovazione individuale. […] Dopo il proselitismo che assimila un popolo, viene il dispotismo che se ne serve e gli impone una gerarchia; ma il despota e l’apostolo sono allo stesso modo dei refrattari a cui pesava il giogo altrui, fosse esso livellatore o aristocratico. Per una dissidenza, per una ribellione individuale che trionfa, ve ne sono, è vero, milioni e miliardi che vengono soffocate sul nascere; ma queste sono nondimeno il vivaio dei grandi rinnovamenti futuri. Questo lusso di variazioni, questa esuberanza di fantasie pittoresche e di capricciosi ricami che la natura magnificamente dispiega sotto il suo austero apparato di leggi, di ripetizioni, di ritmi secolari, non può avere che una fonte: l’originalità tumultuosa degli elementi mal domati da questi gioghi, la diversità profonda e innata che, attraverso tutte queste uniformità legislative, ricompare sgorgante e trasfigurata sulla bella superficie delle cose.
Non proseguiremo con queste riflessioni, che ci condurrebbero lontano dal nostro tema. Ho solo voluto mostrare che la ricerca delle leggi, cioè di fatti simili, in natura come nella storia, non deve farci dimenticare i loro agenti nascosti, individuali e originali. Lasciando dunque da parte questi ultimi, possiamo dedurre da quanto detto sinora un utile insegnamento: l’assimilazione unita all’egualizzazione dei membri di una società non è, come si sarebbe portati a credere, il termine ultimo di un progresso sociale anteriore, ma, al contrario, il punto iniziale di un progresso sociale nuovo. Ogni nuova forma di civilizzazione inizia da qui: comunità egualitarie e uniformi dei primi cristiani dove il vescovo era un fedele come un altro, e il papa non si distingueva dal vescovo; eserciti franchi in cui la distribuzione del bottino veniva fatta in parti uguali tra il re e i suoi compagni d’armi, società musulmana degli inizi, ecc. I primi califfi che sono succeduti a Maometto si difendevano davanti ai tribunali come semplici maomettani; l’uguaglianza di tutti i figli del profeta davanti al Corano non era ancora divenuta una semplice finzione, quale sarà un giorno, destino inevitabile l’uguaglianza dei francesi o degli europei davanti alla legge. Poi, gradualmente, si è prodotta nel mondo arabo una disuguaglianza profonda, condizione di una solida organizzazione, più o meno come si è formata la gerarchia clericale del cattolicesimo o la piramide feudale del Medioevo. Il passato risponde dell’avvenire. L’uguaglianza è una transizione tra due gerarchie, così come la libertà non è che un passaggio tra due discipline. Il che non vuol dire che la fiducia e la potenza, il sapere e la sicurezza di ogni cittadino non aumentino nel corso degli anni.
Riprendiamo ora, sotto un altro aspetto l’idea appena proposta. Le comunità omogenee e ugualitarie, diciamo, precedono le Chiese e gli Stati per la stessa ragione per cui i tessuti precedono gli organi; la ragione per cui i tessuti e le comunità, una volta formate, si organizzano, si gerarchizzano, coincide inoltre con la causa stessa della loro formazione. La crescita del tessuto non ancora differenziato e utilizzato attesta l’ambizione, la speciale avidità del germe che si è così propagato, come la creazione di un club, di un circolo, di una confraternita di uguali, attesta l’ambizione della mente intraprendente che li ha fatti nascere propagando in tal modo la sua idea personale, il suo piano personale. Ora, se la comunità si consolida in corporazioni gerarchizza- te, se il tessuto diviene organo, è per espandersi ancora di più e difendersi dai nemici reali o presunti. Per l’essere vivente o sociale agire e funzionare sono una condizione sine qua non di conservazione e di estensione dell’idea guida che esso porta in sé, e alla quale inizialmente è bastato moltiplicarsi in esemplari uniformi, perché potesse svilupparsi per un certo tempo. Ma la cosa sociale, come la cosa vitale, vuole innanzitutto propagarsi, e non organizzarsi. L’organizzazione non è che un mezzo, del quale la propagazione, la ripetizione generativa o imitativa, è il fine.
Riassumendo, alla domanda che abbiamo posto all’inizio: Che cos’è una società? Abbiamo risposto: è l’imitazione. Resta da chiedersi: Che cos’è l’imitazione? Qui il sociologo deve cedere la parola allo psicologo.
IV
1. Il cervello, dice molto bene Taine riassumendo i più eminenti fisiologi, è un organo ripetitore dei centri sensitivi ed è composto a sua volta di elementi che si ripetono vicendevolmente. […] La prova diretta è del resto fornita dalle esperienze e dalle numerose osservazioni che mostrano come l’ablazione di un emisfero del cervello e l’asportazione di una porzione considerevole di sostanza nell’altro colpiscono l’intensità delle funzioni intellettuali ma non ne alterano l’integrità. La sezione asportata non collaborava dunque con l’altra; le due non potevano che copiarsi e rafforzarsi reciprocamente. Il loro rapporto non era economico, utilitaristico, ma imitativo e sociale, nel senso in cui intendo quest’ultima parola. Qualunque sia la funzione cellulare che dà origine al pensiero (forse una vibrazione molto complessa?) è indubbio che essa si riproduca, che si moltiplichi all’interno del cervello in ogni istante della nostra vita mentale, e che a ogni diversa percezione corrisponda una diversa funzione cellulare. La continuazione indefinita, inesauribile, di questi irradiamenti intricati, ricchi di interferenze, costituisce a volte solo la memoria e talvolta l’abitudine, a seconda che la ripetizione moltiplicante in questione sia rimasta all’interno del sistema nervoso o che, traboccante, abbia raggiunto il sistema muscolare. La memoria è, se si vuole, un’abitudine puramente nervosa, e l’abitudine una memoria muscolare.
Così ogni atto percettivo, quando implica un atto di memoria, cioè sempre, presuppone una sorta di abitudine, un’imitazione incosciente di sé da parte di sé. Questa, certo, non ha nulla di sociale. Quando il sistema nervoso raggiunge un’eccitazione tale da mettere in movimento un gruppo di muscoli, compare allora l’abitudine propriamente detta, che è un’altra imitazione di sé da parte di sé, anch’essa non sociale. Direi, anzi, presociale o subsociale. Ciò non significa che l’idea sia un’azione abortita, come qualcuno ha potuto sostenere; l’azione è la prosecuzione di un’idea, un’acquisizione stabile di fede. Il muscolo lavora solo per arricchire il nervo e il cervello.
Ma se l’idea o l’immagine ricordata è stata introdotta per la prima volta nella mente grazie a una conversazione o a una lettura, se all’origine dell’atto di abitudine vi è stata la vista o la conoscenza di un’analoga azione altrui, questa memoria e questa abitudine sono fatti sociali e psicologici insieme; ed ecco il genere di imitazione di cui ho già tanto parlato. Si tratta di una memoria e di un’abitudine non individuali ma collettive. Così come un uomo non guarda, non ascolta, non cammina, non sta in piedi, non scrive, non suona il flauto e soprattutto non inventa e non immagina se non in virtù di molteplici e coordinati ricordi muscolari, allo stesso modo la società non potrebbe vivere, avanzare di un passo, modificarsi, senza un tesoro di routine, di scimmiottatura e di pecoraggine insondabile, che aumenta incessantemente con il succedersi delle generazioni.
2. Qual è l’intima natura della suggestione tra cellule cerebrali che costituisce la vita mentale? Non ne sappiamo nulla. Conosciamo forse meglio l’essenza di quella suggestione che costituisce la vita sociale? No. Poiché se noi assumiamo quest’ultimo fatto di per sé, nel suo stato di purezza e intensità superiori, esso risale a un fenomeno tra i più misteriosi che i nostri filosofi alienisti studiano oggi con appassionata curiosità, senza tuttavia poterlo comprendere del tutto: il sonnambulismo. […] Non meraviglierà dunque se passerò in rassegna i principali fenomeni di questi stati singolari, per ritrovarli acuiti e attenuati, dissimulati e insieme evidenti nei fenomeni sociali. […]
Lo stato sociale, come lo stato sonnambolico, non è che una forma di sogno, un sogno su comando e un sogno in azione. Non avere che idee suggerite e crederle spontanee: tale è l’illusione del sonnambulo come dell’uomo sociale. Per riconoscere l’esattezza di questo punto di vista sociologico, non dobbiamo considerare noi stessi; poiché ammettere che una simile verità riguardi anche noi significherebbe sfuggire all’accecamento di cui essa ci parla, e quindi fornire un argomento che la contraddice. Occorre invece pensare ai popoli antichi, che appartengono a civiltà indubbiamente estranee alla nostra. Egizi, Spartani, Ebrei… Forse costoro non si credevano autonomi come noi, pur essendo, senza saperlo, degli automi di cui gli antenati, i capi politici e i profeti facevano ruotare la molla, quando non erano loro stessi a farlo gli uni per gli altri? La nostra civiltà contemporanea ed europea si distingue da queste, straniere e primitive, perché la magnetizzazione è divenuta per così dire, almeno in certa misura, reciproca; siccome poi, nel nostro orgoglio egualitario, esageriamo nell’attribuirci questa reciprocità, e poiché dimentichiamo che diventando reciproca questa magnetizzazione, fonte di ogni fede e obbedienza, si è generalizzata, a torto ci lusinghiamo di essere meno creduli e meno docili, in una parola meno imitativi dei nostri antenati. È un errore, e lo mostreremo. Ma anche se ciò fosse vero, sarebbe ugualmente chiaro che il rapporto tra modello e copia, padrone e suddito, apostolo e neofita, prima di divenire reciproco e alterno come vediamo ogni giorno nel nostro mondo egualizzato, doveva essere in origine necessariamente un rapporto unilaterale e irreversibile. Persino nelle società più egualitarie, l’unilateralità e l’irreversibilità di cui parliamo sussistono ancora alla base dell’iniziazione sociale, nella famiglia. Poiché il padre è e sempre sarà il primo padrone, il primo prete, il primo modello del figlio. Ogni società, anche oggi, comincia da qui.
Alla nascita di ogni società antica, a fortiori, vi è stato dunque un grande dispiegamento di autorità, esercitata da alcuni uomini sovranamente imperiosi e determinati ad affermarsi. È forse, come si sostiene, col terrore e l’impostura che costoro hanno regnato? No, è una spiegazione palesemente insufficiente. Essi hanno regnato col loro prestigio. E soltanto l’esempio del magnetizzatore ci fa capire il senso profondo di questa parola. Il magnetizzatore non ha alcun bisogno di mentire per essere ciecamente creduto dal magnetizzato; non ha bisogno di incutere terrore, per essere passivamente obbedito. Egli è prestigioso, e questo dice tutto. Ciò significa, a mio avviso (e in conformità con alcuni punti di vista psicologici da me stesso esposti diversi anni fa)10, che nel magnetizzato si dà una certa forza potenziale di credenza e di desiderio immobilizzata in ricordi di ogni genere, sopiti ma non scomparsi, che questa forza aspira ad attualizzarsi come l’acqua dello stagno aspira a scorrere, e che soltanto il magnetizzatore, in virtù di alcune peculiari circostanze, può dischiuderle il varco necessario. A parte la differenza di grado, ogni prestigio si equivale. Si esercita prestigio su qualcuno nella misura in cui si risponde al suo bisogno di affermare e di volere qualcosa di attuale.
Perché gli si creda e obbedisca, il magnetizzatore non ha neanche bisogno di parlare: a lui basta agire, basta un gesto, per quanto impercettibile sia. Il suo movimento, insieme al pensiero o al sentimento di cui è il segno, viene subito riprodotto. […] E si noti che il sonnambulo imita il magnetizzatore, ma non viceversa. E soltanto nella vita cosiddetta allo stato di veglia, e solo fra persone che non sembrano esercitare l’una sull’altra alcuna azione magnetica, che si produce questa mutua imitazione, questo mutuo prestigio chiamato simpatia nel senso di Adam Smith12. Se ho dunque posto il prestigio e non la simpatia alla base e all’origine della società è perché, l’ho detto prima, l’unilaterale doveva precedere il reciproco. Benché ciò possa sorprendere, senza un’epoca di autorità non vi sarebbe mai stata un’epoca di relativa fraternità. Ma torniamo indietro. Perché stupirsi, in fondo, dell’imitazione insieme unilaterale e passiva del sonnambulo? Un’azione qualunque di uno qualunque tra noi suscita nei suoi simili che ne sono testimoni l’idea più o meno irriflessa di imitarlo; e se talvolta questi resistono a tale tendenza, sarà perché viene in loro neutralizzata da certe suggestioni antagoniste, nate da ricordi preesistenti o da percezioni esteriori. Momentaneamente privato, a causa del sonnambulismo, di questa forza di resistenza, il sonnambulo può farci utilmente scoprire la passività imitativa dell’essere sociale come tale, dell’essere che si trova cioè unicamente in relazione con i suoi simili, e in primo luogo con uno dei suoi simili.
Se l’essere sociale non fosse al tempo stesso un essere naturale, sensibile e aperto alle impressioni della natura esteriore e quindi anche delle società estranee alla sua, non sarebbe affatto suscettibile di cambiamento. Degli associati simili resterebbero sempre incapaci di variare spontaneamente il tipo di idee e di bisogni tradizionali loro impresso dall’educazione dei genitori, dei capi e dei preti, copie essi stessi del passato. Alcuni popoli si sono avvicinati in modo particolare alle condizioni della mia ipotesi. In genere, i popoli appena nati, come i bambini in tenera età, sono indifferenti, insensibili a tutto quel che non riguarda l’uomo e la specie d’uomo che somiglia loro, l’uomo della loro razza e della loro tribù13.
“Il sonnambulo non vede e non intende – dice Alfred Maury – che quel che rientra nelle preoccupazioni del suo sogno”14.
Detto altrimenti, tutta la sua forza di credenza e desiderio si concentra in un unico polo. Non è questo, appunto, l’effetto dell’obbedienza e dell’imitazione per fascinazione, autentica nevrosi, sorta di polarizzazione inconscia dell’amore e della fede?
Ma quanti grandi uomini, da Ramsete ad Alessandro, da Alessandro a Maometto, da Maometto a Napoleone, hanno polarizzato in tal modo l’anima dei loro popoli! Quante volte la fissazione prolungata di questo punto luminoso, la gloria o il genio di un uomo, ha fatto cadere in catalessi un intero popolo! Il torpore, si sa, è nello stato sonnambolico soltanto apparente,e maschera un’estrema sovreccitazione. Di qui le prove di forza o di massima destrezza che il sonnambulo compie senza rendersene conto. Qualcosa di simile si è visto all’inizio di questo secolo, quando, in un forte stato di torpore e nel contempo sovreccitata, tanto passiva quanto agitata, la Francia militare obbediva ai gesti del suo fascinatore imperiale, e compiva prodigi. Niente come questo fenomeno atavico potrebbe farci facilmente comprendere l’azione esercitata sui loro contemporanei da quei grandi personaggi semifavolosi che le diverse civiltà pongono tutte ai loro inizi, e ai quali le leggende attribuiscono la scoperta dei loro mestieri, delle loro conoscenze, delle loro leggi: Oannes a Babilonia, Quetzalcoatl in Messico, le dinastie divine anteriori a Menes in Egitto, ecc. Osserviamoli da vicino, tutti questi re-dei, principio comune di ogni umana dinastia e di ogni mitologia: sono stati degli inventori o degli importatori di invenzioni straniere, in una parola degli iniziatori. Grazie al profondo e ardente stupore causato dai loro primi miracoli, ogni loro affermazione, ogni loro ordine ha dischiuso una breccia immensa all’immensità delle aspirazioni ancora impotenti e indeterminate che avevano fatto nascere, ai bisogni di fede senza idea, ai bisogni di attività senza mezzi d’azione.
Quando parliamo attualmente di obbedienza, intendiamo un atto cosciente e voluto. Ma l’obbedienza primitiva è tutt’altro. L’operatore ordina al sonnambulo di piangere, e questi piange: non è solo la persona a obbedire, ma l’intero organismo. L’obbedienza del folle a certi tribuni, degli eserciti a certi capi, è a volte quasi altrettanto strana. E non lo è meno la loro credulità.
“E un curioso spettacolo – dice Charles Richet – vedere un sonnambulo che fa dei gesti di disgusto, di nausea, che si sente veramente soffocare quando gli accostiamo al naso un flacone vuoto annunciandogli che contiene dell’ammoniaca, e, d’altro canto, quando gli si annuncia che c’è dell’acqua pura, vederlo respirare l’ammoniaca come se nulla al mondo lo turbasse”16.
Un’analoga stranezza la notiamo nei bisogni tanto fittizi quanto intensi, nelle credenze tanto assurde quanto profonde, tanto stravaganti quanto tenaci dei popoli antichi, anche del più libero e raffinato di tutti, e molto tempo dopo che era terminata la sua prima fase di teocrazia autocratica. Non vediamo qui le più abominevoli mostruosità, l’amor greco per esempio, giudicate degne di essere cantate da Anacreonte e Teocrito o dogmatizzate da Platone, o anche serpenti, gatti, buoi o vacche adorati da popolazioni genuflesse, o anche i dogmi più contrari alle testimonianze dirette dei sensi, misteri, metempsicosi, per non dire di assurdità quali l’arte degli auguri, l’astrologia, la stregoneria unanimemente creduti? E d’altro canto non vediamo che anche i sentimenti più naturali (l’amore paterno nei popoli per i quali lo zio veniva prima del padre, la gelosia in amore nelle tribù in cui regnava la comunanza delle donne, ecc.) vengono respinti con orrore, o che le più sorprendenti bellezze della natura e dell’arte cadono in disgrazia o vengono negate perché contrarie al gusto dell’epoca, come accade anche nella nostra epoca moderna (il pittoresco delle Alpi e dei Pirenei fra i Romani, i capolavori di Shakespeare, della pittura fiamminga, nei nostri secoli XVII e XVIII)? Insomma, non vediamo che le esperienze e le osservazioni più chiare vengono contestate, le verità più palpabili combattute ogni volta che si oppongono alle idee tradizionali, figlie antiche del prestigio e della fede?
I popoli civilizzati si illudono di essere sfuggiti a questo sonno dogmatico. Il loro errore si comprende. Tutti gli sperimentatori hanno infatti notato che la magnetizzazione di una persona è tanto più veloce e facile quanto più spesso sia stata magnetizzata. Questa osservazione ci spiega perché i popoli si imitano sempre più facilmente e rapidamente, cioè in maniera sempre più inconsapevole quanto più si sono civilizzati, e quindi imitati. In questo, l’umanità somiglia all’individuo. Il bambino, non lo si potrà negare, è un autentico sonnambulo il cui sogno si complica con l’età finché a forza di complicazioni egli non crede di svegliarsi. Quando uno scolaro dai dieci ai dodici anni passa dalla famiglia al collegio, crede a un tratto di essersi demagnetizzato, risvegliato dal sogno rispettoso in cui era vissuto fino ad allora, nell’ammirazione dei suoi genitori. Non è affatto così: egli diviene più ammiratore e imitatore che mai, sottomesso all’ascendente di uno dei suoi maestri o piuttosto di qualche compagno prestigioso, e quel presunto risveglio non è che un rivolgimento o una sovrapposizione di sonni. Quando la magnetizzazione-moda si sostituisce alla magnetizzazione-costume, sintomo consueto di una rivoluzione sociale che sta iniziando, si produce un fenomeno analogo, benché su scala più ampia.
Siamo dunque giunti ad affermare che non c’è bisogno di un oggetto tanto lucente, tanto eclatante come la gloria o il genio di un uomo per farci cadere nella fascinazione e nel sonno. Non soltanto un nuovo che entra nel cortile di un collegio, ma un giapponese in viaggio in Europa, un campagnolo sbarcato a Parigi sono colpiti da uno stupore paragonabile allo stato catalettico. A forza di applicarsi a tutto quel che vedono e sentono, soprattutto alle azioni degli esseri umani che li circondano, la loro attenzione giunge a un distacco assoluto da tutto quel che hanno veduto e sentito prima di allora come dagli atti e dai pensieri della loro vita passata. Non che la loro memoria venga abolita, essa anzi non è mai stata tanto viva, tanto pronta a entrare in scena e in movimento al minimo accenno che evochi in loro la patria lontana, l’esistenza trascorsa, il focolare, con una ricchezza di dettagli persino allucinante. Ma quella memoria è ormai del tutto paralizzata, priva di ogni spontaneità propria. In questo stato singolare di attenzione esclusiva e forte, di immaginazione forte e passiva, questi esseri stupefatti e agitati subiscono invincibilmente lo charme magico del loro nuovo ambiente; credono a tutto quel che vedono credere, fanno tutto quel che vedono fare. Pensare in modo spontaneo è sempre più faticoso che pensare attraverso gli altri. Così, ogni volta che un uomo vive in un ambiente animato, in una società intensa e varia, che gli offre spettacoli e concerti, conversazioni e letture sempre nuove, si dispensa gradualmente da ogni sforzo intellettuale; e, insieme intorpidendosi e sovreccitandosi sempre più, la sua mente, lo ripeto, si fa sonnambula. E questo lo stato mentale proprio di molti cittadini. Le vetrine dei negozi, il movimento delle strade e il rumore, la concitazione sfrenata e impulsiva hanno per loro l’effetto di tracce magnetiche. Ora, la vita urbana non è la vita sociale concentrata, la vita sociale per eccellenza?
E se, come in alcuni casi, questi uomini finiscono tuttavia per divenire a loro volta esemplari, ciò non avviene forse ancora per imitazione? Supponete che un sonnambulo spinga l’imitazione del suo medium sino a farsi medium egli stesso e a magnetizzare un terzo il quale a sua volta lo imiti, e così via. Non è questa la vita sociale? Questa cascata di magnetizzazioni successive e concatenate è la regola; la mutua magnetizzazione di cui parlavo poc’anzi è l’eccezione. Di solito un uomo naturalmente prestigioso dà un impulso, presto seguito da migliaia di persone che lo copiano in tutto e per tutto prendendone in prestito persino il prestigio, in virtù del quale agiscono su milioni di uomini inferiori. Ed è soltanto quando questa azione dall’alto al basso si sarà esaurita che vedremo prodursi, in tempo di democrazia, l’azione inversa, e milioni di uomini affascinare collettivamente i loro antichi medium, menandoli a bacchetta. Se in ogni società vi è una gerarchia è perché in ogni società vi è la cascata di cui ho parlato e alla quale, per essere stabile, la sua gerarchia deve corrispondere.
Non è del resto la paura, lo ripeto, ma l’ammirazione, non la forza della vittoria ma lo splendore sensibile della superiorità, la sua presenza ingombrante, a dar luogo al sonnambulismo. Così accade, a volte, che il vincitore sia magnetizzato dal vinto. Come un capo selvaggio in una grande città, un parvenu in un salotto aristocratico del secolo scorso è tutt’occhi e tutt’orecchi, affascinato o intimidito malgrado il suo orgoglio. Ma egli non ha occhi e orecchi se non per tutto ciò che lo stupisce e già lo cattura. Poiché il carattere dominante dei sonnambuli è una singolare miscela di anestesia e iperestesia dei sensi. Egli copia quindi ogni usanza di quel mondo nuovo, ne copia il linguaggio e l’accento. Così i Germani nel mondo romano: dimenticano il tedesco e parlano latino, compongono esametri, fanno bagni in vasche di marmo, si fanno chiamare patrizi. Così i Romani, conquistati da un’Atene vinta dalle loro stesse armi. Così gli Hyksos, invasori dell’Egitto e soggiogati dalla sua civiltà. Ma c’è bisogno di rovistare la storia? Guardiamoci intorno.
Questa sorta di paralisi momentanea della mente, della lingua e delle braccia, questa perturbazione profonda dell’intero essere, questo spossessamento di sé che si chiama intimidazione meriterebbe uno studio a parte. L’intimidito sotto lo sguardo altrui sfugge a se stesso e tende a farsi docile e malleabile; egli ne è consapevole e vuol resistere, ma non riesce a far altro che a immobilizzarsi goffamente, restando forte abbastanza per neutralizzare l’impulso estraneo ma non tanto da riconquistare il proprio. Forse mi si concederà che questa condizione singolare, in cui ci siamo tutti più o meno trovati a una certa età, presenta i più evidenti rapporti con lo stato sonnambolico. Ma quando la timidezza è passata, quando ci mettiamo, come si dice, a nostro agio, vuol dire allora che ci siamo demagnetizzati? Per nulla. Mettersi a proprio agio, in una società, significa attenersi al tono e alla moda di quell’ambiente, parlare il suo gergo, copiare i suoi gesti, significa infine abbandonarsi senza più resistenze a quelle molteplici e sottili correnti d’influenza ambientale contro le quali si nuotava inutilmente poco prima, e abbandonatisi fino a perdere ogni coscienza di questo stesso abbandono. La timidezza è una magnetizzazione cosciente, e perciò incompleta, paragonabile a quel torpore che precede il sonno profondo in cui il sonnambulo parla e si muove. E uno stato sociale nascente, che si produce ogni volta che si passa da una società a un’altra o che si entra nella vita sociale esterna uscendo dalla famiglia. Ecco forse perché le persone cosiddette selvagge, ossia particolarmente ribelli a qualsiasi assimilazione, a dire il vero insocievoli, restano timide per tutta la vita, soggetti semirefrattari al sonnambulismo. All’inverso, coloro che non sono mai stati goffi né per nulla imbarazzati, che non hanno mai provato né una timidezza propriamente detta entrando in un salone o nel cortile di un collegio, né un analogo stupore nell’accedere a una scienza o a un’arte qualunque (poiché il turbamento prodotto dall’iniziazione a un mestiere nuovo, le cui difficoltà spaventano, le cui procedure, che devono essere copiate, fanno violenza ad abitudini antiche, è in tutto e per tutto comparabile all’intimidazione) non sono forse proprio coloro che, socievoli al più alto grado, copisti eccellenti, ossia sprovvisti di una vocazione propria e di un’idea-guida, possiedono in modo eminente la facoltà cinese o giapponese di modellarsi il più rapidamente possibile su quel che li circonda, sonnambuli di prim’ordine, dispostissimi ad addormentarsi?
Sotto il nome di Rispetto, l’Intimidazione ha, come tutti asseriscono, un ruolo socialmente immenso che viene sì talvolta mal compreso ma mai esagerato. Il Rispetto non è soltanto timore né soltanto amore, e neanche la loro sola combinazione, per quanto sia un timore amato da colui che lo prova. Il rispetto è prima di tutto un’impressione esemplare di una persona su un’altra, psicologicamente polarizzata. Si deve indubbiamente distinguere il rispetto di cui abbiamo coscienza da quello che nascondiamo a noi stessi sotto un affettato disprezzo. Tenendo però conto di questa distinzione, si vedrà che noi tutti rispettiamo tutti coloro che imitiamo, e che imitiamo o tendiamo a imitare tutti coloro che rispettiamo. Le deviazioni nelle correnti degli esempi sono il segno più certo del mutare dell’autorità sociale. L’uomo di mondo che ripete il gergo e la trasandatezza dell’operaio, la donna di mondo che cantando riproduce le intonazioni dell’attrice, hanno per l’attrice e per l’operaio più rispetto e deferenza di quanto non siano disposti a credere. Ora, quale società potrebbe vivere un sol giorno senza una continua circolazione di rispetto, nell’una o nell’altra delle forme indicate?
3. Sul paragone col sonnambulismo non voglio però insistere di più. È probabile peraltro che malgrado i miei sforzi questa similitudine appaia un po’ forzata, o addirittura scioccante al pubblico specializzato della “Revue”; i filosofi in effetti, sono particolarmente refrattari all’azione magnetizzante e assai poco imitatori per natura. É il loro tratto distintivo. Sarà forse per questo, tra parentesi, che essi hanno così poco gusto per la vita sociale, e che in Francia, ad esempio, si contano associazioni di tutti i tipi, scientifiche o artistiche, mediche o musicali, antropologiche o archeologiche, società di egittologi, assiriologi, ebraisti, ma non se ne vede neanche una di filosofi? Può essere, certo. Sia quel che sia, spero di aver reso almeno l’idea che il fatto sociale essenziale, quale io lo intendo, può essere ben compreso soltanto attraverso la conoscenza di fatti cerebrali infinitamente delicati, e che la sociologia in apparenza più chiara, anche quella dall’aspetto più superficiale, affonda le sue radici nel cuore della psicologia, della fisiologia più intima e oscura.
La società è imitazione, e l’imitazione è una specie di sonnambulismo; così si potrebbe ricapitolare il nostro articolo. E per quanto concerne la seconda parte della tesi, prego il lettore di tener conto di una certa esagerazione. Devo poi respingere un’obiezione possibile. Mi si dirà, forse, che subire un ascendente non sempre significa seguire l’esempio di colui al quale si obbedisce, e nel quale si ha fede. Ma credere in qualcuno non è credere sempre in quel che egli crede o sembra credere? Obbedire a qualcuno non è volere sempre quel che egli vuole o sembra volere? Ora, l’imitazione è essenzialmente un fenomeno di contagio alla credenza e del desiderio o, con una definizione più specialistica, un fenomeno di trasmissione non logica e non teleologica di due forze intime. Inoltre, gli atti provocati da questo volere e a cui spinge l’ordine ricevuto sono sempre riproduzioni di atti che si sono già prodotti, imitati da altri o anche da se stessi; e le idee alle quali si è indotti a credere dalla persuasione non possono che essere la riproduzione di idee anteriori, siano nostre o di colui che ci persuade. Infatti un’invenzione non si comanda, una scoperta non si suggerisce con la forza della persuasione. Essere creduli e docili, ed esserlo al più alto grado come il sonnambulo o l’uomo in quanto essere sociale, significa quindi innanzitutto essere imitativi. Per innovare, per scoprire, per svegliarsi appena da un suo sogno familiare o nazionale, l’individuo deve sfuggire per un attimo alla propria società. Quando egli ha questa rara audacia, è sovra-sociale piuttosto che sociale.
Ancora una parola soltanto. Abbiamo visto che tra i sonnambuli o i quasi-sonnambuli la memoria è assai viva e altrettanto lo è l’abitudine (memoria muscolare, l’abbiamo definita), mentre la credulità e la docilità sono spinte all’estremo. In altri termini, l’imitazione di se stessi da parte di se stessi (poiché tali sono, in effetti, la memoria e l’abitudine) è in loro tanto notevole quanto l’imitazione degli altri. Non potrebbe esservi un legame tra questi due fatti? “Non si potrà comprendere mai abbastanza chiaramente – insiste Maudsley – che vi è nel sistema nervoso una tendenza innata all’imitazione”. Se questa tendenza è inerente agli ultimi elementi nervosi, sarà lecito avanzare la congettura che le relazioni da cellula a cellula all’interno dello stesso cervello potrebbero non essere senza analogia con la relazione singolare tra due cervelli di cui l’uno affascina l’altro e che, sull’esempio di questa, potrebbero consistere in una particolare polarizzazione della credenza e del desiderio immagazzinati in ognuno di quegli elementi. Così si potrebbero forse spiegare alcuni fatti strani, come ad esempio il modo spontaneeo in cui si compongono le immagini oniriche, combinandosi secondo una logica precisa, sotto il dominio evidente di una di loro che si imporne e dà il tono, ossia per la virtù indubbiamentre predominante di quell’elemento nervoso in culi essa risiedeva e dal quale proviene.
Osserviamo, infine, l’unita del tutto naturale che il nostro punto di vista introduce nei fatti sociali. La vita dei popoli dominati dal peso della tradizione […] è in qualche modo una magnetizzazione da parte degli antenati scomparsi. Di qui la sua immutabilità. Giacché il magnetizzato non agisce se non seguendo l’impulso del magnetizzatore, nel caso in cui quest’ultimo trasmetta o paia trasmettere sempre soltanto lo stesso impulso, anche gli atti del primo resteranno gli stessi. Ma quando, grazie alle più numerose invenzioni o scoperte dei contemporanei, la moda (nel senso ampio che conferisco a questo termine) si è gradualmente sostituita al costume per dissolvere l’antica forma di società e prepararne una nuova, allora la magnetiz:zazione sociale si fa naturalmente mutevole come la volontà dei magnetizzatori, che sono essseri viventi. Oggi, dunque, quando i dogmi tradizionali, immutabili, stanno arretrando di fronte a teorie scientifiche che cambiano dalla sera alla mattina, quando le leggi tradizionali vengono sommerse da leggi parlamentari votate il lunedì e respinte il martedì, benché l’irraggiamento imitativo delle azioni e delle idee possa anche essere regolare e vincolante com’era una volta, il volto delle società contrasta nettamente con quello del passato. Ma è pur sempre in virtù delle stesse leggi dell’imitazione che sia la loro attuale instabilità sia la loro antica immutabilità (in attesa di un’immutabilità futura) sono state prodotte.
Queste leggi dell’imitazione non le abbiamo ancora formulate. Saranno forse l’oggetto di un nuovo lavoro.
Postfazione, di Andrea Cavalletti
Somnambuli in somnis plurima agant…
“Abbiamo osservato in una notte d’estate, alla luce di una lampada, le formiche da giardino eseguire, usando dei fili d’erba come carpenteria, le loro delicate costruzioni. Occorre erigere un piccolo arco per superare una pagliuzza, e una sola tra le lavoratrici inizia con certezza ad averne l’idea: tutta presa dal suo progetto, si dà da fare trasportando i granelli di terra che le servono, e che sottrae a volte senza farci caso alle costruzioni delle sue vicine. Neanche le altre, sulle prime, le prestano attenzione. Ma una formica disoccupata che passa da quelle parti si unisce subito a lei, poi due, poi tre: evidentemente l’idea è stata compresa, ed ecco che le formiche lavorano insieme, guidate dal solo esempio della prima, all’esecuzione di un’unica opera”.
Gabriel Tarde amava questa pagina delle Sociétés animales di Alfred Espinas, che ha ispirato e insieme racchiude la sua visione filosofica. Chi sono, per lui, le formiche? Gli uomini, certo. Perché sono immersi nella notte? Così agiscono, nel loro sogno: vivono tutti e si muovono come instancabili sonnambuli. Ma che nome dare a questa notte rischiarata? È il “campo sociale”, dice Tarde, e “qui abbiamo a portata di mano, per un privilegio eccezionale, le cause vere, gli atti individuali di cui i fatti sono fatti”. A chi somiglia allora quella prima formica? E a chi l’altra che passava lì per caso? Non è con questa che tutte le somiglianze hanno inizio?
Quando nel 1884 Tarde affida Qu’est-ce qu’une société? alla “Revue philosophique” di Ribot compie il gesto decisivo: il saggio, che diverrà sei anni dopo il terzo capitolo del capolavoro Les lois de l’imitation, rappresenta la formula iniziale e precisa di una disciplina ancora nuova, della vera alternativa (e minoritaria) al grande cantiere che Durkheim e la sua scuola avrebbero innalzato: non la scienza delle mentalità collettive, non la psicologia sociale, bensì la scienza che non scinde l’individuale dal sociale scoprendo i micro-rapporti da cui le individualità non potrebbero affrancarsi, e le risonanze minime dell’“inter-psicologia”, le correnti intermentali o infra-sociali. Non lo studio di quella suggestione che, dirà Marcel Mauss, risale a sua volta “a cause di natura collettiva”, ma della suggestione (o del sonnambulismo) sociale in senso primario, come primario è il sociale stesso. Non la scienza dei “fatti sociali” ma quella delle minime variazioni o influenze ipnotiche che fanno di ogni fatto un fatto.
Che cos’è all’origine di tutto? Cos’è, in fondo, indubitabile? Non tanto, spiega Tarde, la percezione di un oggetto ma
“il rapporto di un soggetto con un oggetto che è egli stesso un soggetto, […] la sensazione di una cosa senziente, il volere una cosa volente, la credenza in una cosa credente, in breve in una persona in cui la persona che percepisce si riflette, e che essa non potrà negare senza negare se stessa”.
A chi somiglia dunque quella formica di passaggio, sola e un po’ annoiata? A un bambino. Se infatti un bambino
“per caso, solo nella sua culla, si trova immerso nel più bel paesaggio del mondo, e volge il suo sguardo a destra, poi a sinistra, lentamente, nulla sembra dirgli gran che; ma se fra tutti gli oggetti inanimati che riempiono il suo campo visivo gli appare un volto […] questo piccolo punto lucente farà eclissare tutto il resto; egli ha trovato la sua rima vivente, la sua risonanza psichica che rinforza la sua povera piccola personalità, la precisa e la fa crescere”.
L’incontro con un non-io che non ha il carattere semplice dell’oggetto, ma è un “oggetto-soggetto”, è l’incontro con chi ricambiando il nostro sguardo esercita una forza e stabilisce una relazione : si attua così la
“trasmissione di qualcosa di interiore, di mentale, che passa da uno dei due soggetti all’altro , senza, caso strano, che nel primo si perda o diminuisca”.
Solo questo rapporto è l’inconcussum quid [l’incondizionato, NDR] cge cercava Cartesio e che l’io individuale non poteva fornirgli. Certo, dopo Cartesio, all’inizio dell’Ottocento, Maine de Biran aveva cercato un nuovo fatto primario, un nuovo cogito; e spingendosi fino al luogo in cui coscienza e esistenza si riuniscono, dove la psicologia fa ritorno all’ontologia, egli aveva scoperto una concezione nuova del corpo e della sensazione, il corpo proprio come dualità interiore, luogo o faglia della differenza. Non l’“io penso”, ma il dato irrecusabile del senso intimo, l’“io agisco”, la forza che appare ai sensi nel contrasto con la resistenza opposta dalla massa corporea, dunque il “fatto interno”, o la sensazione del mio corpo resistente che è al tempo stesso apparizione evidente dello sforzo che esercito. Tale è l’appercezione prima e immediata, ovvero la “prima manifestazione e l’infanzia dell’io, che nasce da se stesso cominciando a conoscersi.
Non ancora trentenne, nel 1872, Tarde pronuncia una conferenza su Biran, offrendo la sua interpretazione singolare: proprio l’intimità dello “sforzo per noi”, egli suggerisce, è quel che ci accomuna agli altri. Più tardi, ormai stabilite le Lois sociales (è il libro del 1898), definite le linee dell’inter-psychologie (il saggio omonimo è del 1903), il rapporto primario non potrà più apparire un rapporto interno al sé: Maine de Biran aveva infatti trascurato l’essenziale, ossia che “il bambino sa l’io altrui prima ancora di conoscere il proprio corpo”. Se questo corpo esiste è solo a partire dalla sua rima o risonanza, se un’intimità esiste non è mai personale, ma già sempre sociale.
Alla base sta dunque un sapere-essere che è insieme nascita, crescita, affermazione e dispersione dell’io in una miriade di relazioni ogni volta inedite. Vi è già sempre un corpo sociale, luogo di trasmissione inter-mentale, corpo o eco delle idee, e al fondo di questo corpo la prima cattura. Vi è infatti, in principio, un rapporto di possessione o di fascinazione esercitata da quell’oggetto singolare che resiste al nostro sguardo, mentre ci colpisce in virtù della sua forza di soggetto. Poiché questo raddoppiamento in base al quale vedendo l’altro io scopro me stesso non sarebbe tale (non si darebbe alcuna coscienza di sé) se non implicasse una “fede irresistibile” nella realtà dell’altra coscienza. Guardando un fiore, una montagna, un albero, dice Tarde, posso dimenticare me stesso, smarrirmi del tutto in quel che vedo. Non è così quando guardo un uomo (“o anche un animale superiore”): non posso vederlo senza dirmi che anche l’altro sarà ugualmente padrone di guardarmi. E sono già in sua balia. Certo, incrociando la massa anonima in una strada parigina posso anche raccontarmi che quei volti sconosciuti mi sono tutti ugualmente indifferenti: se non fosse che proprio allora mi sto preoccupando di loro, e la loro presenza rinforza e plasma la mia autocoscienza, detta le mie idee. Essi esercitano un’azione a distanza il cui effetto non è mai eterogeneo, ma è la sua riproduzione o ripetizione. O meglio, è la sua “imitazione” o il suo differenziarsi. Perché sin da quella prima rima, eco di una coscienza che si rispecchia e si scopre in un’altra coscienza, differenza e ripetizione sono da sempre intrecciate.
“Exister c’est différer”, si legge in Monadologie et sociologie (1893), “la différence est l’apha et l’omega de l’univers”…
sono molte le formule di Tarde che Deleuze ha insegnato ad apprezzare. E ancora:
“l’identità non è che un minimo della differenza, come il riposo non è che un caso del movimento e il cerchio una varietà singolare dell’ellissi”,
come l’opposizione non è d’altra parte che un massimo della differenza e un minimo della ripetizione. Esprimo così un’idea e subito quell’idea o il suo contrario si disegnano nel volto dell’altro. E la differenza, la differenza in sé, non empirica, cioè il gioco della forza e della resistenza, si sviluppa ora in circoli sempre più ampi, e in essi ancora si insegue, e differenziandosi a sua volta si ritrova come quel che abbiamo di più comune. E così, “ab interioribus ad exteriora”, che procede normalmente l’imitazione.
In un articolo del 1913 che Freud aveva a suo modo apprezzato, Raoul Brugeilles obiettava a Tarde che l’imitazione è in fondo soltanto suggestione e che solo in questa giace l’“essenza del fenomeno sociale”. In realtà, Tarde è molto più sottile: in Qu’est-ce qu’une société? – uscito lo stesso anno del libro rivoluzionario di Hyppolite Bernheim, De la suggestion dans l’état hypnotique et dans l’état de veille – egli non solo associa già l’imitazione alla suggestione, concependo l’idea di un sonnambulismo sociale universale, pensando la società come imitazione e l’imitazione quale dominio multiforme di mille suggestioni; oltre a questo, egli anche isola e interpreta come “ipnosi”, cioè come rapporto semplice tra operatore e soggetto passivo, la formula minima del rapporto sociale, lo stadio puro di ogni imitazione.
Sappiamo che un’aspra diatriba segna la nascita della scienza psicologica. Si affrontano due maestri del giovane Freud, che non resta peraltro un osservatore neutrale. Da un lato Bernheim, appunto, e dall altro Charcot, da un lato la teoria della suggestione e dall’altro quella del Grand hypnotisme. A Nancy, Bernheim e Liebéault concepiscono l’ipnosi come caso speciale della suggestione e quest’ultima come relazione complessa, di mutua influenza del medico e del paziente. A Parigi, alla Salpêtrière, vige invece l’idea di un rapporto senza reciprocità, diviso nei suoi tre stadi famosi (letargia, catalessia, sonnambulismo) e confinato entro i limiti sperimentali e insieme teorici del sonno indotto e dell’isteria.
Ora, ripubblicando Qu’est-ce qu’une société? nelle Lois de l’imitation, Tarde potrà accostare senza difficoltà le due scuole nemiche: i nomi di Bernheim e di Delboeuf a quelli di Binet e Fréré, che avevano compiuto le loro ricerche e scritto la loro opera maggiore nel 1887 “dans l’atmosphère de la Salpêtrière”. Nello spettro ampio dell’imitazione, le teorie diverse si riuniscono infatti senza doversi contraddire: se la società è la sfera delle suggestioni molteplici e persino reciproche, il primo rapporto sociale resta però unilaterale, è il rapporto di forza che l’ipnotizzatore esercita sul soggetto dormiente e passivo. L’idea del sonnambulismo sociale o di una società di sonnambuli, cioè (nel 1884 i due termini erano sinonimi) di ipnotizzati, si fonda sul primato di quel rapporto di potere che Tarde definisce anche, come d’altro canto Le Bon, col termine “prestigio”. Ogni società, anche la più egualitaria, anche la più democratica, è in fondo “un sogno su comando”. E ben prima che Freud scandisse il suo “quel che cominciò col padre, si compie nella massa”, Tarde aveva indicato all’inizio di ogni società il primo padrone, il primo prete, il primo modello del figlio.
Il bambino dunque sa l’io del padre prima di conoscere il proprio corpo. E se questo suo primo sapere viene dalla fascinazione che il padre stesso esercita è perché questa consiste nel potere più imperioso che possa esserci: nella cattura e nel risveglio delle potenzialità latenti. La forza, scrive Tarde nel frammento giovanile Les possibles, è la possibilità dei fenomeni, o meglio l’eccesso della potenza sull’atto. “La distinction aristotélicienne de la puissance et de l’acte s’impose toujours”: sia per la prima rima o imitazione, sia per la forza dell’esempio; si tratta, in ognuno dei casi, di una relazione di attività-passività nel senso preciso del De anima, non didascalica (trasmissione di un contenuto) ma propriamente teoretica, ossia dell’attività come rapporto con una virtualità, dell‘atto come conservazione di una potenza specifica. Comunicare davvero un’idea non significa impartirla agli altri, ma risvegliarla in loro. E sapere significa in senso primario patire quell’esercizio di potere capace di conservare la nostra potenza di sapere.
Dunque l’indubitabile quid, la radice di tutte le differenze e le imitazioni risale in fondo all’omologia fondamentale che lega e insieme distingue, per Aristotele, potenza e atto. Nei termini precisi del giovane Tarde: tutto risponde all’intima partecipazione del virtuale possibile al reale in atto, alla “solidarité du possible et du réel incorporés l’un à l’autre”. Si tratta di un rapporto propriamente smisurato: sì, il virtuale (o condizionale necessario) sta al reale come l’ombra sta al corpo, ma come l’ombra più lunga del crepuscolo. Se in fondo il rapporto di potere appare sempre sbilanciato, unilaterale, se ha un carattere paterno, esemplare o prestigioso, non sarà quindi per una violenza mitica originaria (teoria dell’orda, uccisione del padre) ma per l’eccesso della potenza o della passività. In questa condizione crepuscolare vivono appunto i sonnambuli.
Ora, il passaggio dal condizionale necessario all’attualità del reale, la conservazione o il risveglio di una potenza è al tempo stesso oblio di altre potenzialità latenti. Tra le tante possibili, un’idea che si manifesta ne rende impossibile la maggior parte. E, aggiunge Tarde, ne rende invece concepibili altre mille che non lo erano appena prima. Nessun ritorno: la genealogia delle idee è selettiva e irreversibile, la storia è una differenziazione continua. Così, se per questo nuovo monadologista non viviamo forse nel migliore dei mondi possibili, viviamo certo nel più differenziato. Il passaggio all’atto si decide allora ogni volta nel gioco di due poli fondamentali: si tratta della “credenza” e del “desiderio”, che Tarde emancipa da ogni dipendenza dalla sensazione e non cerca di definire se non come disposizioni, “modi” della mente, come “forme o forze innate e costitutive” o anche, stravolgendo Maine de Biran, come nuove “forze intime”. Cosa vuol dire? Non, certo, che le due forze risiedono ancora nel segreto del corpo, ma che un rapporto di intimità, e ancora di forza, caratterizza e scinde la forza stessa; che la dynamis è ancora al fondo di tutto, sì, perché ogni dynamis è in sé divisa nelle polarità del credibile e del desiderabile.
Dal gioco o dal contrasto incessante dei due poli derivano quindi la capacità di osare (spinta rivoluzionaria del desiderio) o la costanza delle abitudini (inerzia conservatrice delle credenze), poi i giochi rispettivi delle imitazioni, i loro stili e loro ritmi (epidemie veloci dell’imitazione-moda, evoluzioni lente dell’imitazione-costume), cioè le attrazioni, le repulsioni (o controdesideri), le imitazioni-simpatia, le imitazioni- obbedienza e i loro reciproci intrecci. Così “suggestione” non significa più, come nel gergo psichiatrico: l’induzione di un’idea grazie alla riattivazione psichica di un’eccitazione periferica ormai sopita (Binet e Fréré); non è più il richiamo di un sensibile, ma la polarizzazione di un virtuale.
“Non avere che idee dettate e crederle spontanee”… Non è per un atto di lucida volizione che gli uomini divengono sovra-sociali, inventivi, esercitano il loro prestigio.
“Rivelandoci tutto quel che dobbiamo agli altri, inventori in alcuni momenti ma imitatori in una vita intera, la filosofia di Tarde illumina, fortifica in noi il sentimento della solidarietà”.
Sono parole di Bergson. Ma bisogna aggiungere: Tarde ha spiegato che l’invenzione stessa non è che un adattamento, ossia la migliore imitazione possibile o la possibilità dell’imitazione stessa, la forma reale, potremmo dire, della virtualità imitativa. Egli ha chiamato appunto solidarietà la più intima coappartenenza dell’atto e della potenza. Ogni nostro atto si afferma sulle potenze ormai dimenticate per non potersi liberare da una nuova ombra di virtualità. La sua conseguenza immediata non è a sua volta un atto ma una variazione nell’alone dei virtuali, e sarà questa scia mutevole – lungo sogno dei possibili – a fissarsi in un atto ancora nuovo.
Così, immersa in uno stordimento tutto suo, una formica inizia a usare dei fili d’erba per superare un ostacolo. Si muove come in sogno, finché un’altra formica passando per caso si lascia andare, nell’indolenza, all’imitazione. E quest’ultima che attiva l’idea come idea, che imitandola la inventa come tale. Sogno di un sogno, riflesso di un soggetto sognante nel sogno di un altro, idea che non si erge sulle altre se non per via di un’immersione più decisa, l’invenzione è sempre sonnambolica, è anzi, come la possibilità stessa, davvero sociale.
Ricordiamo l’attacco della giovane Edith Stein contro Theodor Lipps e la teoria dell’empatia. L’allieva di Husserl doveva salvaguardare i limiti dell’Io e del suo vissuto, respingendo l’immedesimazione come esperienza “non originaria”. La coscienza era sempre coscienza dell’Ego e non poteva identificarsi o confondersi con quella di un soggetto estraneo. Era il 1916.
Ventanni dopo, Sartre sconvolgerà il dominio fenomenologico e le sue gerarchie. La coscienza è ora una coscienza assoluta e impersonale, pura spontaneità rispetto alla quale l’Ego stesso si rivela un oggetto, un derivato, un semplice prodotto della riflessione. Dotato di un’attività soltanto illusoria, a sua volta riflessa, l’io è una figura fondamentalmente passiva: per questo, può cadere in balia della suggestione. Se incontra un altro io, allora due passività (sia poi l’una o l’altra a prevalere) si stringono in un vincolo. Tale è per Sartre la stregoneria o, nel suo senso profondo, la “partecipazione” di Lévy-Bruhl, tale è l’imitazione: quando la fantasista del music-hall imita con successo Maurice Chevalier, è quest’ultimo, assente, che per manifestarsi sceglie il corpo di una donna. L’imitatore non è che “un posseduto”.
Nella sua forma egologica o impersonale, in Edith Stein come in Sartre, la spontaneità originaria della coscienza continua così a plasmarsi sul negativo della suggestione (sia imitativa o empatica): essa emerge – figura mitica – dal contrasto con quel che la fenomenologia stessa decreta illusorio o derivato, “dégradée, c’est-à-dire passive” (Sartre).
Per Tarde l’incontro con la rima vivente, l’espressione di un volto che si imprime nell’altro non ha invece nulla di secondario: è l’istante dal quale, soltanto, il bambino scoprirà il suo stesso corpo come corpo proprio. Ed è anche il canone dell’esperienza dei popoli primitivi: un volto si imprime sul volto dell’uomo e da quel primo incontro l’uomo proietterà un volto nel mondo, scoprendo in quel volto il mondo intero. La vita dell’animista, che adora o tende al contrario a esecrare gli esseri di cui ha popolato la natura, costituisce un capitolo a sé dell’inter-psicologia, quello fondamentale dell’inter-psicologia immaginaria.
Se vi è qualcosa come un vissuto originario, coincide per Tarde con questa magia singolare, che non deve nulla all’Ego. Se vi è qualcosa di spontaneo e impersonale è proprio questa possessione, che sarà sempre prima così come la potenza eccede sempre l’atto. “Essere è partecipare”, la formula più radicale di Lévy-Bruhl, significa ora: “essere è differire”. Nella società dei sonnambuli la passività non è una prigione.
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