Quando nel 1609 Galilei intraprende le osservazioni astronomiche che descriverà nel Sidereus Nuncius (1610), è già un matematico e professore rinomato, ma sono proprio queste scoperte, che rivelano il suo copernicanesimo, a metterlo in urto con gli aristotelici e con le gerarchie ecclesiastiche.
Sei anni dopo la pubblicazione dell’opera gli giunge infatti l’ammonizione del cardinale Bellarmino che lo diffida dal «difendere e tenere» la nuova astronomia (febbraio 1616) mentre, pochi giorni dopo, il De revolutionibus viene messo all’indice.
Indice
1. Il Sidereus nuncius e la distruzione della cosmologia aristotelico-tolemaica
2. La critica del principio d’autorità e l’autonomia della scienza
2.1 Contro gli aristotelici
2.2 Il rapporto tra fede e scienza
3. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il copernicano
3.1 Il Saggiatore
3.2 Il Dialogo sui massimi sistemi
4. Il metodo della scienza
1. Il Sidereus nuncius e la distruzione della cosmologia aristotelico-tolemaica
Il Sidereus nuncius è il ragguaglio astronomico che Galilei scrisse nel 1609 per comunicare alla comunità dei dotti le straordinarie scoperte realizzate con il canocchiale che si era costruito seguendo indicazioni olandesi.
In quest’opera, che è considerata il primo rapporto scientifico della tradizione occidentale, un emozionato Galilei comunica «all’osservazione e alla contemplazione di quanti studiano la natura» – ovvero al pubblico dotto -, nella lingua veicolare del tempo – il latino -,
grandi cose […]e per l’eccellenza della materia stessa e per la novità non mai udita nei secoli e, infine, per lo strumento mediante il quale queste cose stesse si sono palesate al nostro senso –
oltre alle istruzioni per costruirlo.
Il cannocchiale aveva fatto vedere a Galilei, «con la certezza della senzata esperienza», innumerevoli stelle
prima non mai vedute e che il numero delle antiche e note superano più di dieci volte,
il corpo della Luna, non ricoperto da una superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale e, proprio come la faccia della terra, piena di grandi sporgenze, profonde cavità e anfratti» e, «quel che di gran lunga supera ogni meraviglia […] quattro astri erranti […] che a somiglianza di Venere e Mercurio intorno al sole, hanno le loro rivoluzioni intorno a Giove
e che l’astronomo intitolò alla famiglia dei Medici.
Il successo dell’opera fu immediato. Uscito il 13 marzo con una tiratura di 550 copie, dopo meno una settimana era già introvabile. Quando la notizia della pubblicazione giunse a Keplero, il matematico arrossì per lo stupore e incapace di trattenere la gioia, cominciò a ridere senza finire di ascoltare l’amico che gliene parlava [Keplero, Dissertatio cum Nuncio Sidereo, Torino, 1972, pp. XXXII-XXXIV].
Fu tradotta immediatamente in più lingue, l’anno stesso se ne contarono esemplari in Norvegia e Russia, tre anni dopo in India, Corea, Giappone e Cina, dove il nome di Galilei viene reso con Chia-Li-Lueh, non diversamente dall’uso umanista di latinizzare i nomi degli autori.
Smentendo la gerarchia degli spazi, distinti dall’antichità e dal Medioevo in celesti e terrestri, sacri e profani, Galilei non combatteva solo delle teorie erronee e insufficienti, ma rovesciava un atteggiamento mentale ovvio e in accordo con i sensi, sostituendogliene un altro che non lo era affatto [A. Koyré, Studi Galileiani, Torino Einaudi, 1976].
Il Sidereus infliggeva, inoltre, un duro colpo all’antropocentrismo correlato all’idea che la terra fosse al centro del cosmo e metteva un’ipoteca sia sulla medicina e sull’astrologia del suo tempo, sia sul disegno divino di salvezza basato sul sacrificio dell’unigenito figlio di Dio per la redenzione degli uomini, implicazione che, peraltro, Galilei non trae ancora dalla sua astronomia.
2. La critica del principio d’autorità e l’autonomia della scienza
Ed è proprio per difendersi dalle accuse che gli giungono dopo la pubblicazione del Sidereus nuncius, che Galilei perviene al primo risultato storicamente decisivo della sua opera: la rivendicazione dell’autonomia della scienza, cioè la salvaguardia della ricerca da ogni ingerenza esterna.
Una lotta, la sua, combattuta sul duplice fronte delle autorità del tempo, quella religiosa, personificata nella Chiesa, e quella culturale, rappresentata dall’accademia aristotelica.
2.1 Contro gli aristotelici
Per quanto riguarda la battaglia culturale contro gli aristotelici, pur non essendo tra quelli che si vogliono «lasciar infinocchiar da Aristotile» (Dialogo dei massimi sistemi), Galilei mostra stima per lo stagirita e per gli altri scienziati antichi che considera uomini amanti della verità e della ricerca.
Il suo disprezzo colpisce invece il pedantismo dogmatico dei loro seguaci che invece di osservare la natura si limitano a consultare testi nelle biblioteche nella convinzione che
«il mondo sta come scrisse Aristotile e non come vuole la natura» (ivi).
Nel Dialogo sui massimi sistemi il filosofo stigmatizza
la ferma credenza che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinione di qualche celebre autore, si che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso di un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile e infeconda
e rappresenta questo conflitto con il racconto di una celebre dissezione di cadavere che smentiva la teoria aristotelica dell’origine dei nervi e proprio per questo non poteva essere presa in considerazione:
quando il testo di Aristotile non fusse in contrario […] bisognerebbe confessarla per vera.
Le parole di Galilei su Aristotele sono una critica esplicita al principio d’autorità: appare infatti chiarissimo allo scienziato pisano che solo mettendo in parentesi la sapienza degli antichi e svincolando l’osservazione della natura dall’immagine biblica il sapere umano potrà procedere sulla via della verità.
2.2 Il rapporto tra fede e scienza
Più ardua fu, come è noto, la battaglia contro la Chiesa. La Controriforma aveva stabilito, infatti, che ogni sapere dovesse essere in armonia con le Sacre Scritture (e non solo in riferimento ai suoi contenuti etico-religiosi) nella precisa interpretazione che ne aveva dato la Chiesa cattolica.
Galilei si muove dunque proprio contro questa interpretazione, sostenendo che una simile posizione avrebbe ostacolato non solo il progresso delle scienze, ma anche la saldezza della stessa religione che avrebbe finito per perdere credibilità davanti alle nuove conquiste scientifiche.
Nelle cosiddette Lettere copernicane (a Benedetto Castelli, a Monsignor Dini e alla granduchessa Cristina di Lorena) Galilei affronta il problema del rapporto tra fede e scienza pervenendo alla seguente soluzione:
Sia la natura che la Bibbia provengono da Dio, sono dunque entrambe vere e non possono oggettivamente contraddirsi tra loro.
Eventuali contrasti tra verità scientifica e verità religiosa sono quindi soltanto apparenti e vanno risolti rivedendo l’interpretazione della Bibbia, perché le Scritture sono scritte in un linguaggio povero, ad uso del popolo ignorante che porta a conclusioni cosmologicamente erronee, anche perchè il loro scopo non è di illustrare la struttura del cosmo, ma di dare indicazioni per la salvezza dell’anima.
Con le parole che Galilei scrisse a padre Benedetto Castelli e a Cristina di Lorena:
1. Le Scritture hanno dovuto
«accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati»,
usando un linguaggio povero e antropomorfico, relativo alle condizioni del «vulgo», mentre la natura e le sue leggi hanno un corso immutabile che non si piega alle esigenze umane (Lettera a Benedetto Castelli);
2. La Bibbia non contiene principi che riguardino le leggi di natura, ma verità che si riferiscono al destino ultimo dell’uomo: essa vuole infatti insegnarci
«come si vadia in cielo, e non come vadia il cielo» (Lettera a Cristina di Lorena).
Conseguenza di queste parole è che la Bibbia è arbitra nel campo etico e religioso e la scienza in quello delle verità naturali, in relazione alle quali non è la scienza che deve adattarsi alla Bibbia, ma questa alla scienza.
Quando la Bibbia appare in contrasto con la scienza essa dunque va reinterpretata andando «al di là del nudo senso delle parole».
3. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il copernicano
3.1 Il Dialogo sui massimi sistemi
Nel 1632, Galilei pubblica l’opera che lo metterà definitivamente in urto con la Chiesa: il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632). L’opera, infatti, deluse le aspettative di Urbano VIII, poiché conteneva una chiara opzione per il copernicanesimo, corredata di prove fisiche decisive.
L’opera è divisa in quattro giornate nelle quali Simplicio, il pedante tradizionalista che difende il geocentrismo – nel quale alcuni videro il papa che Salviati-Galilei tratta da pari con insopportabile ironia – Salviati, il libero ricercatore di convinzioni copernicane, e Sagredo, il moderatore equidistante con mentre sgombra da pregiudizi, discutono gli argomenti delle opposte cosmologie.
Nella prima giornata Galilei mette sotto accusa la distinzione aristotelica tra mondo celeste e mondo terrestre, utilizzando soprattutto gli argomenti del Sidereus nuncius e i suoi studi di meccanica dei movimenti.
La seconda giornata è dedicata invece alla confutazione degli argomenti aristotelici contro il movimento della terra, sintetizzabili nell’argomento del “vento” che la terra solleverebbe se ruotasse su se stessa, degli “uccelli” che la terra si lascerebbe indietro se non fosse ferma, e della “caduta perpendicolare del grave“ che dovrebbe invece cadere indietro a causa dell’eventuale moto della terra.
A queste obiezioni Galilei risponde che aria, uccelli e grave partecipano del moto della terra tant’è vero che un sasso, lasciato cadere dalla cima di un albero sulla tolda di una nave in movimento, cade anch’esso perpendicolarmente, benché la nave si muova.
Si tratta dell’enunciazione del principio della cosiddetta relatività galileiana, già intuito da Ipazia di Alessandria, secondo il quale sperimentando esperienze meccaniche in un sistema chiuso (cioè privo di riferimenti a qualcosa di esterno) è impossibile decidere se questo sia in quiete o in moto rettilineo uniforme.
Con sorpresa, nel febbraio 2015, abbiamo visto rinverditi gli argomenti dei pedanti confutati da Galilei nella seconda giornata e confutati dal pisano con il principio di relatività galileiano [notare che anche l’utente italiano che ha confezionato il video scambia Galilei con Copernico …].
Ma il “civile” Occidente non sembra dare miglior prova, come mostra questo video di uno spettacolo televisivo francese dal quale risulta che il 55% del pubblico scarta l’idea che sia la luna a ruotare intorno alla terra e sceglie il sole (il 2% addirittura Marte).
Nel video linkato, un imam saudita ripropone le stesse obiezioni fatte a Galilei dagli aristotelici.
Tornando a Galilei, ciò che è straordinario è che l’astronomo ed “empirista” del Sidereus nuncius, diventa nel Dialogo il teorico capace di mettere in questione l’attestazione dei sensi che ha già maturato il metodo della scienza.
3.2 Il Saggiatore e il metodo della scienza
Sempre nel 1632, lo scienziato pubblicò Il Saggiatore in cui soppesa ad una ad una (di qui il titolo che alude a un bilancino) le tesi di un avversario sulla comparsa di alcune comete nel 1618 ed espone il proprio metodo di ricerca.
Benché Galilei non abbia dedicato molto spazio alla teorizzazione del metodo – cosa che faranno Bacone e Cartesio – in molti passaggi delle sue opere e della sua corrispondenza emerge una visione chiara delle modalità attraverso cui l’intelligenza umana può pervenire a conoscenza certa.
Nel Saggiatore, nel Dialogo e nei Discorsi Galilei articola il lavoro della scienza in un momento analitico (o risolutivo), che consiste nello scomporre il problema in elementi semplici formulando un’ipotesi matematica sulla legge da cui dipende, e in uno sintetico (o compositivo) che consiste nella verifica e nell’esperimento attraverso cui si tenta di riprodurre il fenomeno, così che se l’ipotesi supera la prova, essa sia veri-ficata (cioè fatta vera) e accettata come legge, e se non supera la prova, essa sia sostituita da un’altra ipotesi matematica.
Questo approccio fa sì che Galilei non possa essere considerato né pienamente induttivista, come vorrebbe il cliché dello scienziato osservatore che smentisce con il cannocchiale le fumose teorie filosofiche del passato, né totalmente deduttivista.
Galilei fu invece uno scienziato capace di tenere sistematicamente insieme «sensata esperienza», cioè l’esperienza dei sensi passata al vaglio dell’esperimento, e «necessarie dimostrazioni», cioè le ipotesi matematiche, astratte dalla pura empeiria:
Pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in modo alcuno esser revocato in dubbio. Lettera a Madama Cristina di Lorena
Galilei dà prova di sapersi valere di entrambi i momenti della ricerca sperimentale: i risultati del Sidereus nuncius possono sembrare infatti propriamente induttivisti (anche se il genio di Galilei non consiste nella fabbricazione del canocchiale, ma nella decisione di puntarlo sulle stelle) sembrano, cioè esperienze – astronomiche – che smentiscono teorie – aristoteliche -, ma se Galilei non avesse adottato anche il punto di vista ipotetico-deduttivista, non sarebbe pervenuto alla formulazione del principio della relatività galileiana che presuppone la messa in questione dell’attestazione dei sensi, né del principio d’inerzia.
L’esperienza di cui parla Galilei non è quindi l’esperienza immediata, ma l’elaborazione teorico-matematica dei dati che si conclude con la verifica sperimentale. Solo chi conosce il linguaggio matematico della realtà può quindi conoscerla veramente.
Come scrive nel Saggiatore,
la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto davanti agli occhi (io dico l’Universo), ma non si può intender se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.
Galilei, come si vede, condivide l’idea democritea, già propugnata da Keplero, che solo gli aspetti quantitativi della natura (quantità, figura, grandezza, luogo, tempo, movimento, quiete, contatto, distanza) abbiano realtà oggettiva, caratterizzino cioè i corpi in quanto tali– e possono dunque essere oggetto di vera scienza –, mentre le qualità (sapori, odori, colori, suoni) esistono solo in relazione ai nostri sensi:
stimo che, tolti via gli orecchi, le lingue e i nasi, restino bene le figure, i numeri e i moti, ma non già gli odori, né i sapori, né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non credo che sieno altro che nomi, come punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle sotto il naso. Il Saggiatore
Con il suo metodo, Galilei perviene dunque a quella struttura concettuale che costituisce lo schema teorico della scienza moderna: la natura è un ordine oggettivo e causalmente strutturato di relazioni governate da leggi e la scienza è un sapere sperimentale-matematico intersoggettivamente valido.
Lo scienziato dovrà quindi occuparsi delle leggi o relazioni causali tra fatti (causa efficiente), rinunciando a cercare le essenze o i perché (causa finale) delle cose.
5. Il processo, la condanna, l’abiura
Nell’ottobre del 1632, venne intimato a Galilei di recarsi a Roma e di mettersi a disposizione del commissario generale del Santo Uffizio. Allo scienziato, ormai vecchio e malato, fu risparmiato il carcere e il trattamento riservato a Bruno e Campanella. Fu accusato di non aver rispettato la diffida di Roberto Bellarmino a «difendere e tenere» la dottrina copernicana. Galilei si difese obiettando che tale ammonizione non conteneva il divieto di insegnare la teoria copernicana, ma solo di difenderla e che nel Dialogo sui massimi sistemi egli aveva, infatti, voluto mostrare la sua erroneità.
L’inquisitore ebbe facile gioco nel dimostrargli, libro alla mano, il contrario, cosicché Galilei ammise di essere andato contro l’ammonizione e di aver difeso il sistema copernicano. Il 22 giugno 1633 fu quindi emessa la seguente condanna:
Diciamo, pronunziamo, sentenziamo e dichiariamo che tu, Galilei suddetto, per le cose dedotte il processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo Santo Uffizio veementemente sospetto di eresia, cioè di aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’Sole sia centro della Terra e che non si muova da oriente a occidente, e che la Terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo essere stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dei sacri canoni e altre costituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, purché prima con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi tu abiuri, maledichi e detesti li suddetti errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà data.
Lo stesso giorno, Galilei, in ginocchio davanti ai cardinali della Congregazione, pronunciò la sua abiura del copernicanesimo:
[…] volendo io levar dala mente delle Eminenze vostre e d’ogni fedel cristiano questa veemente sospizione, giustamente da me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e eresie e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcuno eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
Della tragedia dello scienziato pisano, ridotto al silenzio dall’Inquisizione che gli comminò il carcere a vita, poi tramutato in confino, testimonia il dramma teatrale scritto da Bertold Brecht nel 1938, Vita di Galilei.
Una celebrazione postuma di Galilei: al Museo della Scienza di Palazzo Strozzi (FI) è conservato il dito medio dello scienziato.
Dal Sidereus Nuncius
Lettera dedicatoria al Serenissimo Cosimo II de’ Medici, IV Granduca di Toscana
… gradisca pertanto, o Clementissimo Principe, l’Altezza vostra questa gloria gentilizia a lei dagli Astri riserbata, e quanto più a lungo doga di quei divini beni, che non tanto dalle Stelle, quanto da Dio, Artefice e Moderatore delle Stelle, le son destinati.
Di Padova, li 12 di Marzo 1610
Dell’Altezza Vostra
Devotissimo Servo
Galileo Galilei
AVVISO ASTRONOMICO
CHE CONTIENE E CHIARISCE RECENTI OSSERVAZIONI FATTE PER MEZZO DI UN NUOVO OCCHIALE NELLA FACCIA DELLA LUNA, NELLA VIA LATTEA E NELLE STELLE NEBULOSE, IN INNUMEREVOLI, FISSE, NONCHÉ IN QUATTRO PIANETI NON MI FINORA VEDUTI, CHIAMATI COL NOME DI ASTRI MEDICEI
Grandi invero sono le cose che in questo breve trattato io propongo alla visione e alla contemplazione degli studiosi della natura. Grandi, dico, sia per l’eccellenza della materia per se stessa, sia per la novità loro non mai udita in tutti i tempi trascorsi, sia anche per lo strumento, in virtù del quale quelle cose medesime si sono rese manifeste al senso nostro.
Gran cosa è certo l’aggiungere, sopra la numerosa moltitudine delle Stelle fisse che fino ai nostri giorni si son potute scorgere con la naturale facoltà visiva, altre innumerevoli Stelle, non mai scorte prima d’ora, ed esporle apertamente alla vista in numero più che dieci volte maggiore di quelle antiche e già note.
Bellissima cosa e oltremodo a vedersi attraente è il poter rimirare il corpo lunare, da noi remoti per quasi sessanta semidiamentri terrestri, così da vicino, come se distasse di due soltanto di dette misure; sicché il suo diametro apparisca di quasi trenta volte maggiore, la superficie quasi novecento, il volume poi approssimativamente ventisettemila volte più grande di quando sia veduto od occhio nudo; e quindi con la certezza che è data dall’esperienza sensibile, si possa apprendere non essere affatto la luna rivestita di superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e alo stesso modo della faccia della Terra, presentarsi ricoperta in ogni parte di grandi prominenze, di profonde valli e anfratti.
Di più, l’aver rimosso le controversie riguardo alla Galassia o Via Lattea, con l’aver manifestato al senso, oltre che all’intelletto, l’essenza sua, non è da ritenersi, mi pare, cosa di poco conto; come anche il mostrare direttamente, essere la sostanza di quelle Stelle, che fin qui gli astronomi hanno chiamato Nebulose, di gran lunga diversa da quel che fu creduto finora, sarà cosa molto bella e interessante.
Ma quello che supera di gran lunga ogni immaginazione e che principalmente ci ha spinto a farne avvertiti tutti gli Astronomi e Filosofi, è l’aver appunto noi scoperto quattro Stelle erranti, da nessun altro prima di noi conosciute né osservate, le quali, a somiglianza di Venere e Mercurio intorno al Sole, hanno lor propri periodi intorno a una certa Stella principale del numero di quelle conosciute, e ora la precedono, or la seguono, senza mai allontanarsi da essa fuor dei loro limiti determinati. Le quali cose furono tutte da me ritrovare e osservate or non è molto, mediante un occhiale che io escogitai, illuminato prima dalla divina grazia.
Dalla “Seconda giornata” del Dialogo sui massimi sistemi del mondo
«Simplicio. Ma quando si lasci Aristotele, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore.
Salviati. Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si deva avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica più a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ‘l sentir nelle pubbliche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili, uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago infinito, del quale in tutt’oggi non si uscirebbe. Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta» [Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, “Giornata seconda”, 1632].
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