George Orwell, Un impiccato

by gabriella

George-Orwell

George Orwell (1903 – 1950)

Appena ventenne, Eric Arthur Blair (noto con lo pseudonimo di George Orwell) lasciò gli studi per tornare in India, dov’era nato, ed arruolarsi nella polizia imperiale di stanza in Birmania.

L’esperienza, traumatica, gli rivelò l’arroganza imperialista e la funzione repressiva della polizia. Si dimise, sostenendo in seguito di aver capito che dal quel momento il suo posto sarebbe stato «davanti ad una baionetta, mai più dietro».

L’Impiccato è incluso nella raccolta George Orwell, Nel ventre della balena e altri saggi, Milano, RCS, 2010, pp. 257-261.

Il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra
è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca.

George Orwell

Accadde in Birmania, un fradicio mattino durante la stagione delle piogge. Una luce malaticcia, come stagnola giallastra, da sopra l’alto muro pioveva di sbieco nel cortile della prigione. Eravamo in attesa davanti alle celle dei condannati a morte: una fila di cubicoli, chiusi da doppie inferriate, come piccole gabbie per animali. Ogni cella era poco più di tre metri per tre e non conteneva che un tavolaccio e una brocca d’acqua da bere. Alcune erano occupate da silenziosi uomini dalla pelle scura, accovacciati presso l’inferriata interna, con una coperta drappeggiata intorno al corpo. Erano i condannati a morte, che sarebbero stati impiccati quella settimana o la settimana successiva.

Un prigioniero era stato fatto uscire dalla cella. Era un indù, uno scampolo d’uomo con la testa rapata e liquidi occhi smarriti. Aveva un paio di baffi folti, irsuti, assolutamente sproporzionati al suo corpo. Facevano pensare ai baffi posticci di un qualche attore comico del cinema. Sei alte guardie indiane lo sorvegliavano e lo acconciavano per l’impiccagione.Due stavano un po’ in disparte, impugnando fucili con la baionetta innestata. Gli altri gli misero le manette, passandovi una catena che fissarono alla loro cintura, e gli legarono le braccia al torace.  Gli stavano tutti molto vicino, gli mettevano di continuo le mani adddosso con una cauta stretta carezzevole, come per rassicurarsi il condannato non si dileguasse. Facevano pensare a un pescatore, che afferri un pesce ancora vivo e tema che, in un momento di distrazione, questo possa con un balzo rituffarsi in acqua. Ma il prigioniero non opponeva resistenza, si lasciava legare le braccia inerti, quasi non si accorgesse di ciò che gli facevano.

Scoccarono le otto e una tromba, melanconica e fioca nell’aria umida, squillò un segnale nella lontana caserma, Il sovrintendente del carcere, fermo a pochi passi da noi, picchiava la ghiaia con il bastone. A quel suono sollevò la testa. Era un medico militare con ispidi baffi grigi e una voce burbera.

“Nel nome di Dio, spicciatevi, Francis, ordinò irritato. “Dovrebbe già essere spacciato a quest’ora. Non siete ancora pronti?”

Francis, il capocarceriere, un grasso dravida in uniforme bianca e occhiali d’oro, fece un cenno con la mano.

“Signorsì, signorsì,” borbottò. “Tutto è a posto. Il boia è già pronto. Ci mettiamo subito in marcia.”

“Forza, allora. Non si può servire la colazione ai prigionieri, finché tutto non è finito.”

Ci mettemmo in marcia verso la forca. Due carcerieri camminavano ai due lati del prigioniero con il fucile a spalla; due altri gli stavano alle calcagna e gli afferravano braccia e spalle, come per spingerlo e sostenerlo al tempo stesso. I restanti, magistrati e ufficiali, chiudevano il corteo. Improvvisamente, quando non si erano percorsi dieci meni, il corteo si fermò senza un ordine né un avvertimento. Era capitato un contrattempo increscioso: un cane, chissà mai di dove sbucalo, era entrato nel cortile. Si precipitò verso noi a gran salti abbaiando festosamente, e ci balzava intorno dimenando l’intero corpo, folle di gioia per essersi imbattuto in tanti uomini tutti riuniti. Era un grosso cane lanoso, mezzo airedale, mezzo bastardo. Per un momento ci saltò intorno e poi, prima che qualcuno potesse fermarlo, corse verso il prigioniero e, spiccando balzi, cercava di leccargli il viso. Tutti sembravano atterriti, troppo sorpresi per aver l’idea di afferrare il cane.

“Chi ha lasciato entrare questo dannato animale?” chiese irritato il sovrintendente. “Svelti, acchiappatelo!”

Un carceriere si staccò dal gruppo e corse goffo verso il cane, clic, saltando e correndo, si allontanò da lui, quasi considerasse l’inseguimento un gioco. Un giovane secondino eurasiatico raccolse una manciata di ghiaia e la buttò contro il cane, che evitò le pietruzze e nuovamente si accostò a noi. I suoi guaiti echeggiavano per tutto il cortile. Il prigioniero, sempre stretto tra i due carcerieri, guardava la scena senza alcuna curiosità, quasi si trattasse di una necessaria fase della cerimonia. Trascorsero alcuni minuti prima che qualcuno riuscisse ad abbrancare il cane. Allora gli infilai il fazzoletto nel collare e si riprese la marcia, mentre il cane dava strattoni per liberarsi e mandava guaiti.

Eravamo a circa quaranta metri dalla forca. Stavo osservando la nuda schiena abbronzata del prigioniero, che mi camminava davanti. Con le braccia legate procedeva goffo ma deciso, con quella ballonzolante andatura degli indiani, che non raddrizzano mai il ginocchio. Ad ogni passo vedevo i muscoli muoversi normalmente, il ciuffo di capelli dondolargli in su e in giù, i piedi posarsi con sicurezza sulla ghiaia bagnata. A un tratto, nonostante i due carcerieri che lo tenevano per le spalle, si fece leggermente da parte per evitare una pozzanghera.

Per quanto strano possa sembrare, fino a quel momento non avevo veramente capito che cosa significhi distruggere un uomo sano e cosciente. Quando vidi il prigioniero farsi da parte per evitare la pozzanghera, capii, come per un’improvvisa illuminazione, l’enorme ingiustizia di stroncare una vita in piena attività. Quell’uomo non era moribondo, era vivo come lo eravamo noi. Tutti gli organi del suo corpo funzionavano: le budella digerivano il cibo, la pelle si rinnovava, le unghie crescevano, i tessuti si riformavano e tutto partecipava a una farsa incredibilmente assurda. Le unghie avrebbero continuato a crescergli quando già avrebbe avuto la corda al collo, quando sarebbe precipitato nel vuoto con solo più un decimo di secondo da vivere. Gli occhi vedevano la ghiaia giallastra e i muri grigi, il cervello ricordava, prevedeva, ragionava, notava persino le pozzanghere. Lui e noi eravamo un gruppo di uomini che si camminava insieme, si vedeva, udiva, sentiva, capiva le stesse cose e, tra due minuti, con un improvviso strattone, uno di noi sarebbe morto, un cervello di meno, un mondo di meno.

La forca sorgeva in un piccolo spiazzo, separato dal cortile maggiore della prigione e coperto da alte gramigne spinose. Era una specie di capanno costituito da tre pareti in muratura coperte alla sommità da assi, sopra le quali si trovavano due travi e una traversa, da cui pendeva la fune. Il boia, un prigioniero dai capelli grigi nella bianca uniforme del carcere, attendeva accanto al suo arnese. Quando entrammo ci salutò con un inchino servile. A un ordine di Francis i due carcerieri afferrarono anche più stretto il prigioniero e lo condussero, lo spinsero sino alla forca, aiutandolo goffamente a salire la scaletta. Poi anche il boia salì e gli accomodò la corda attorno al collo.

Noi si attendeva a cinque metri di distanza; i carcerieri si erano disposti in circolo attorno. Ed ecco, quando il nodo scorsoio gli era ormai attorno al collo, il condannato cominciò a invocare il suo Dio. Era un nitido, iterato richiamo:

“Ram, Ram, Ram”.

Non affannoso e pavido come una preghiera o un’invocazione d’aiuto. Sicuro piuttosto, ritmico, continuo, quasi il rintocco d’una campana. Il cane gli rispose con un guaito. Il boia, sempre sotto la forca, estrasse un cappuccio di cotone, simile a un sacchetto per la farina, e lo calò sulla testa del prigioniero. Ma l’invocazione, sebbene affiochita, continuava senza una pausa:

“Ram, Ram, Ram”.

Il boia scese e si tenne pronto con la mano sulla leva. Si aveva l’impressione che il tempo si fosse fermato. L’invocazione soffocala dii prigioniero continuava:

“Ram, Ram, Ram”,

senza un istante di pausa. Il sovrintendente, la testa piegata sul petto, picchiava la ghiaia con bastone. Forse stava contando le invocazioni e aveva deciso di concederne un certo numero: cinquanta, magari cento. Tutti eravamo terrei. Il volto degli indiani aveva assunto una tinta cinerea, due baionette tremavano. Legato e con la testa nel cappuccio, il condannato stava fermo sulla botola. Noi lo guardavamo in silenzio, ascoltando il suo grido. Ogni “Ram” un altro secondo di vita. Un solo pensiero era nella mente di tutti: ammazzatelo presto, fatela finita, fate tacere quel grido insopportabile.

Improvvisamente il sovrintendente si decise. Alzato il capo fece un brusco movimento con il bastone.

“Cialò!” urlò quasi con violenza,

Si udì lo scatto della botola e poi fu silenzio. Il condannalo era scomparso alla vista, la corda girava lentamente su se stessa. Lasciai libero il cane che, con un balzo, si portò dietro la forca. Ma quando vi giunse si fermò di colpo, abbaiò una volta, poi si ritrasse in un angolo del cortile e si fermò tra le gramigne, guardandoci con occhi atterriti. Anche noi ci recammo dietro la forca, per esaminare il cadavere. Dondolava appena, con i piedi puntati verso la terra e girava lentamente come un sacco.

Il sovrintendente protese il bastone e diede una spinta al cadavere che oscillò appena.

“E a posto,” disse.

Poi, arretrando, si allontanò dalla forca ed emise un profondo respiro. L’aspetto crucciato del volto era di colpo scomparso. Lanciò uno sguardo all’orologio da polso.

“ Le otto e otto. Grazie a Dio, per stamane è finita.”

I guardiani rimossero le baionette e si allontanarono. Il cane, guardingo e conscio d’essersi comportato male, li seguì in silenzio. Noi uscimmo dal cortile della forca, passammo davanti alle celle dei condannati a morte ed entrammo nel cortile centrale del carcere. Sotto la sorveglianza di guardiani armati di lathis (pesante bastone usato dai poliziotti per picchiare gli indiani che opponevano solo una resistenza passiva, NDT] si stava già servendo la colazione ai prigionieri. Accoccolati in lunghe file, ognuno reggeva una gavetta di stagno e due guardiani vi scodellavano mestolate di riso, Dopo l’impiccagione tutto aveva un’aria distesa, allegra. Adesso che il lavoro era finito, ci sentivamo invasi da un senso di immenso sollievo.

Si aveva voglia di cantare, mettersi a correre, ridere. Improvvisamente cominciammo a chiacchierare allegri.

II giovane eurasiano che mi camminava accanto, accennando verso la forca con un sorriso mi disse:

“Lo sapete, signore, che il nostro amico (alludeva all’impiccato), quando senti che il suo appello era stato respinto, pisciò sul pavimento della cella? Di paura. — Prego, signore, volete una sigaretta? Non vi piace il mio nuovo portasigarette d’argento, signore? L’ho acquistato da un merciaio ambulante, due rupie e ottanta. Elegante e di gusto veramente europeo, non trovate?”

Parecchi si misero a ridere, nessuno sapeva bene perché.

Francis camminava accanto al sovrintendente e parlava con volubilità:

“Stamane, signore, tutto si è svolto in modo più che soddisfacente. Tutto è filato liscio, senza un intoppo. Ma non va sempre cosi, ve lo assicuro. Ricordo casi, quando il dottore doveva andare sotto la forca e tirare le gambe del condannato per essere sicuro che fosse morto. Piuttosto sgradevole”.

“Le gambe guizzano ancora. È brutto, quando è così,” osservò il sovrintendente.

“Ma è peggio ancora, signore, quando rifiutano di cooperare. Ricordo un tale, che si era afferrato alle sbarre della cella, quando entrammo per portarlo via. Forse non mi crederete, signore, ma occorsero sei guardie per tirarlo fuori. Tre per gamba a tirarlo. Noi si cercava di farlo ragionare. ‘Amico’, gli dicevamo, ‘pensate a tutto il fastidio che ci date!’ Ma lui non se ne dava per inteso. E’ stata una di quelle fatiche…” .

M’accorsi che m’ero messo a ridere allegro. Tutti ridevano. Persino il sovrintendente ridacchiava tollerante.

“Meglio se venite con me a bere qualcosa,” disse cordialmente. “Ho una bottiglia di whisky in macchina. Un sorso non vi fa male.”

Attraverso il doppio cancello del carcere uscimmo nella strada.

“Tirargli le gambe!”

esclamò a un tratto un magistrato birmano e si mise a ridere di gusto. Tutti scoppiarono a ridere. In quel momento l’aneddoto di Francis sembrava incredibilmente spiritoso. Tutti si bevve insieme, indigeni ed europei, con grande cordialità. Il cadavere non distava cento metri.

(1931)

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