Dal Rasoio di Occam, una riflessione sul rapporto tra estetica ed etica, bellezza-comunità nella struttura della città.
In apertura di una conferenza intitolata La pratica della bellezza, James Hillman lamenta il fatto che generalmente parlare di “bello” e di “bellezza” in filosofia ha significato per troppo tempo, e in maniera piuttosto retorica, riferirsi a una dimensione ideale, elevata, così elevata da rendere la discussione su questi temi «noiosa, ottundente, narcotizzante». Molto più interessante potrebbe essere, quindi, parlare di bellezza come «pratica», soprattutto in un momento storico (eravamo all’inizio degli anni Novanta) in cui – sostiene Hillman – il represso non è ciò che abitualmente si immagina (la violenza, la misoginia, la sessualità, l’infanzia, le emozioni, i sentimenti, lo spirito), ma la bellezza[1]. Questa idea di repressione della bellezza sollecita l’esercizio della ricerca dei luoghi in cui tale repressione sembra essere più vistosa, più profonda, più radicale. Lo spettro è decisamente ampio, ma credo che uno dei contesti in cui la repressione della bellezza ha provocato conseguenze radicali sul piano pratico, della qualità della vita e, in definitiva, etico sia la città. Procedere in questo senso, tuttavia, comporta un ripensamento critico del profilo della città, delle sue modalità di sviluppo, delle sue profondità, della sua anima, partendo dall’idea che essa sia il prodotto visibile (la «parvenza sensibile», si direbbe hegelianamente) di un’idea architettonica e urbanistica. Ciò significa collocare tali due dimensioni tecnico-pratiche lungo la linea di confine tra l’estetica e l’etica, tra pratiche della bellezza e modalità d’esistenza, tra stili espressivi e stili di vita. In questo quadro, componenti estetiche, etiche, politiche, sociali e funzionali si intrecciano, acquistando un senso complessivo del tutto nuovo.
Rispetto alla connessione tra bellezza e moralità, tra estetica e comunità, è inevitabile ripartire da un testo chiave, autentico spartiacque nella storia dell’estetica, la Critica del Giudizio (1790) di Immanuel Kant[2]. Secondo una linea interpretativa che, tra gli altri, ha visto impegnata Hannah Arendt (mi riferisco naturalmente alla serie di lezioni che ella tenne, nel 1970, presso la New York School of Social Research, nelle quali si interrogò sui legami tra estetica e politica), la Critica del Giudizio rappresenterebbe il tentativo di Kant di intraprendere un nuovo e originale percorso rispetto a quanto aveva caratterizzato le due precedenti Critiche. Essa inaugurerebbe una dimensione etica e intersoggettiva non più normativa, ma politica, nella quale si renderebbe manifesto un
«ripensamento complessivo della filosofia trascendentale, più precisamente […] un ripensamento che ne [riqualificherebbe] in modo più esplicito e radicale il punto di vista, presentandolo come uno sguardo indissociabile dal movimento di un’esperienza in atto, con un correlativo passaggio da un pensiero che tematizza l’Uomo a un pensiero che tematizza la pluralità degli uomini»[3].
Tale ripensamento (e il corrispondente passaggio dalla singolarità alla pluralità) è da ricondurre alla natura del giudizio estetico (disinteressato, contemplativo, necessario e universale), il quale vale universalmente e necessariamente senza poter essere dimostrabile logicamente, senza potersi richiamare a un concetto dell’intelletto che dimostri questa sua universalità e necessità. Il giudizio di gusto gode però di una particolare universalità, che non è né concettuale né oggettiva bensì soggettiva, fondata
«sulla comunicabilità del sentimento, su un “senso comune” che non deriva da considerazioni d’ordine empirico-psicologico bensì dalla trama trascendentale dell’accordo intersoggettivo che fonda la soggettività universale e necessaria del giudizio estetico»[4].
Nelle pagine kantiane della terza Critica emerge quindi un soggetto aperto e orientato verso la comunicazione con gli altri soggetti; in esse si fa strada «una nuova teoria della soggettività comunicabile attraverso il sentimento e non i concetti»[5]. Visto sotto questo angolo visuale, il soggetto, senza ledere la propria e altrui individualità, è teso verso l’istituzione della comunità.
Ma oggi, i temi legati alla comunità e alla vita metropolitana, nelle loro relazioni con la dimensione etica ed estetica, acquisiscono nuovi e inediti caratteri. Basti pensare alla positiva relazione (perduta) tra spazi urbani ed equilibri sociali, architettonici e comunitari. Tale relazione è andata dissolvendosi anche in connessione con l’ambigua dialettica tra apertura e chiusura, che nella contemporaneità ha assunto caratteri quasi tragici. È nello spazio aperto o nello spazio chiuso che meglio può generarsi la comunità? Lo spazio chiuso e delimitato favorisce la creazione di comunità, però, al tempo stesso, segnala un bisogno di isolamento e di privacy. D’altronde, l’apertura richiama l’idea del flusso, della mobilitazione, della comunicazione, del confronto, del transito, ma anche l’idea dell’indistinzione e dell’indifferenza. Sebbene la megalopoli contemporanea si sia costituita come “erede” del modello della civitas[6], l’uomo contemporaneo è posto davanti al seguente dilemma: coltivare l’idea della pólis, della città-dimora, dello spazio ben delimitato che possa consentire «scambi sociali, relazioni ricche e partecipate», oppure «la grande idea romana, gente che viene da tutte la parti, che parla tutte le lingue, che ha tutte le religioni, un’unica legge però, un senato, un imperatore e una missione?»[7]. L’attuale condizione, per la quale l’uomo non abita più la città (della quale non esistono più i confini) ma territori, rappresenta il trionfo del cosmopolitismo e la realizzazione del sogno di unire gli uomini in un’unica sterminata città oppure la fine di «ogni ‘forma’ comunitaria»[8]?
Nella città tradizionale vigeva la «corrispondenza tra i tempi delle funzioni dei lavori, delle relazioni, e la qualità dell’architettura, dove l’architettura arricchiva, potenziava la qualità dell’insieme»[9]. Lo sviluppo post-metropolitano, invece, ha distrutto questo equilibrio tra spazi, temi, luoghi e funzioni, realizzando una falsa democrazia, abbattendo la positiva e identificativa discontinuità degli spazi e dei volumi, favorendo una continuità che è, in realtà, appiattimento e omologazione. Tale continuità è anche alla base dell’assenza di spazi ed oggetti architettonici riconoscibili. Alla forma della città tradizionale si è sostituita la megalopoli informe, dove l’elemento della misurabilità viene meno e il continuum urbanizzato favorisce la privatizzazione dello spazio pubblico, la parcellizzazione del vuoto in spazi senza forma, negando le strutture architettoniche urbane di tipo gerarchico, nelle quale vigano differenti relazioni di importanza all’interno del sistema.
Sembra, dunque, che le parole chiave della nuova architettura urbana non possano che essere discontinuità, relazionalità, polivalenza, multifunzionalità. Ma non solo. C’è anche la bellezza. Ed esattamente al problema, esteticamente ed eticamente rilevante, della bellezza delle città si dedica, da oltre un ventennio, Marco Romano, il quale ha elaborato un’originale teoria della bellezza urbana[10]. Le premesse di tale teoria, secondo Romano, sono di natura osservativa e sono incontrovertibili: tutte le città europee hanno avuto le stesse strade e piazze tematizzate, sempre lo stesso criterio di costruzione. I temi collettivi si sono presentati, nella storia, in successione, e in relazione ad essi ci si è posto costantemente il problema di come e in che modo disporli per poter avere il risultato più bello, esprimendo un profondo ed evidente desiderio di bellezza.
«La bellezza, intesa come “nobile semplicità” e creativa genialità, non è un elemento supererogatorio, ma sostanziale. Il componimento architettonico palesa i contenuti cultuali, cagiona un’esperienza estetica, dirige gli animi verso il divino e muove i sentimenti verso la comunione fraterna»[11].
Ha ragione Romano nel sostenere che sullo sfondo dei ragionamenti sull’ecologia c’è forse da mettere in primo piano il fatto che prima della dimensione tecnica, nella nostra vita, c’è una dimensione simbolica. In un discorso sull’architettura e sull’urbanistica, questo significa che le società costruiscono degli ambienti che sono appropriati alla loro organizzazione. La società europea, sostiene Romano, ha costruito città contraddistinte da temi collettivi che ritornano in tutte le città e che consentono ad ognuna di esse di collocarsi nella geografia europea: il palazzo municipale, la strada monumentale, la chiesa principale, il teatro, il museo, la biblioteca, ecc. Da ciò discende che la mobilità del cittadino europeo (e la possibilità di integrarsi con facilità in qualsiasi città) è garantita dal fatto che egli nella nuova città riconoscerà quegli stessi temi collettivi che aveva nella città di provenienza. Si è potuto costruire delle città belle perché si è puntato sulla realizzazione di sequenze che articolavano in maniera coerente il tessuto urbanistico e che, grazie alla presenza di temi collettivi analoghi a quelli presenti al centro della città, consentivano la qualificazione delle aree più lontane dal centro, favorendo nei propri abitanti un senso di riconoscimento e appartenenza. Esattamente al polo opposto vi è, invece, la periferia contemporanea, intesa come zona degradata, come deserto di senso che si caratterizza proprio per l’assenza di temi collettivi e di segni simbolici che possano definire un sentimento di appartenenza. Sentire di appartenere a una città significa poter portare “dentro di sé” quella città, quel contesto urbano nel quale i tracciati e gli spazi sono ben identificabili, nel quale si rende possibile ciò che la megalopoli contemporanea nega: l’interiorizzazione, da parte dell’abitante, della mappa strutturale della città, per poi poterla identificare con la propria mappa psichica[12].
La sfida dell’architettura contemporanea è, in fondo, quella di creare una reale condivisione, è quella di favorire l’emergere di un sensus communis, facendo perno sulla forza di quegli elementi simbolici che la megalopoli contemporanea non presenta, nella quale, invece, «la perdita di ‘valore simbolico’ […] cresce proporzionalmente; assistiamo, o ci sembra di assistere, a uno sviluppo senza meta, cioè, letteralmente, insensato, ad un processo che non presenta alcuna dimensione ‘organica’»[13]. Migliorare l’abitare, però, non significa semplicemente realizzarlo sicuro, stabile e sostenibile, ma anche bello, sostenendo un’architettura che promuova un generale e profondo processo tanto di rigenerazione etica quanto di «rigenerazione estetica»[14]. Bellezza e funzione possono convergere.
Il nuovo assetto urbano e architettonico delle megalopoli contemporanee ha avuto numerose ricadute negative, tanto a livello di efficacia puramente architettonica quanto a livello di relazioni sociali. I timori manifestati a inizio Novecento, legati ad un irrefrenabile accrescimento del livello di inumanità e alienazione dei rapporti umani nelle neonate metropoli, emergono chiaramente, intrecciati in una sintesi esemplare, dalle pagine del saggio di Georg Simmel Le metropoli e la vita dello spirito (1903). La metropoli di cui parla Simmel presenta caratteri, pericoli e patologie che, al di là di ovvie e storiche differenze, sono riscontrabili nelle metropoli o nelle megalopoli contemporanee. Esse, come la metropoli simmeliana, sono i luoghi all’interno dei quali le tendenze dell’epoca presente si concentrano e si potenziano. La metropoli, sottoponendo l’uomo a inattese esperienze, a bruschi contrasti, all’alternarsi rapido di immagini e stimoli, creando, in definitiva, delle nuove e diverse condizioni psichiche in «profondo contrasto con la città di provincia e con la vita di campagna»[15]. Queste differenze rivelano un carattere duplice, segnale, allo stesso tempo, di libertà e di solitudine. L’uomo metropolitano si è liberato dalle «piccinerie» e dai «pregiudizi» tipici dell’uomo di provincia, ma, al contempo, questa stessa libertà fa emergere una profonda diffidenza e indifferenza tra gli individui, tra i membri di una stessa (seppure elefantiaca) comunità. Smarrito in un oceano di indistinzione e di conformismo, l’uomo metropolitano è spinto a mettere in risalto la propria personalità, attraverso le «eccentricità più arbitrarie», le «stravaganze tipicamente metropolitane della ricercatezza, dei capricci, della preziosità, il cui senso non sta più nei contenuti di tali condotte, bensì solo nell’apparire diversi, nel distinguersi e nel farsi notare»[16].
Lo spazio urbano contemporaneo è uno spazio de-relazionale, difficile da penetrare e comprendere, che può essere spiegato solo facendo riferimento a categorie tra loro anche opposte. Non è più lo spazio dai confini certi, delle gerarchie, delle transizioni “soft”, contraddistinto da una generale monofonia. È, invece, «uno spazio polifonico fatto di situazioni differenti, in cui pezzi di territorio si muovono, con andature e velocità diverse, intrecciandosi tra loro a diverse scale e diversi livelli, mediante sistemi di relazioni molteplici, variabili e discontinue»[17]. Tutto è cambiato. Gli spazi non sono più vissuti, abitati e percorsi allo stesso modo, perché non c’è più un unico modo di viverli, abitarli e percorrerli. L’eterogeneità dei territori, la multiformità dei volumi, l’impossibilità di concepire il «tutto unico» indicano che si è compiuto un passaggio. Non si è più attori bensì semplici comparse, eterodirette in una dimensione incerta, fluttuante e puntiforme. In perfetta sintonia con questi cambiamenti “strutturali” – sostiene Lidia Decandia – è entrata in crisi anche la modalità di decodifica percettiva degli spazi che a partire dal Quattrocento ha rappresentato il modo di leggere, interpretare e comprendere la realtà: lo sguardo prospettico:
«La nostra cultura, permeata dal pensiero visivo prospettico e abituata a leggere la città come un testo sottoponibile a un unico sguardo, non riesce più a cogliere il senso di questa nuova geografia assurda e inafferrabile»[18]. A questo corrisponde, poi, la differente modalità di rappresentazione e simbolizzazione di questa nuova dimensione, nella quale «saltano evidentemente le valenze simboliche attribuite alla stessa idea di centralità e di marginalità. Spesso sono i luoghi periferici e marginali, i territori “scartati dalla modernità”, le aree a più denso contenuto di naturalità ad accogliere nuove funzioni urbane»[19].
La struttura urbana, allora, non è innocente. Vi è un nesso diretto tra tipologie e modalità dell’abitare e comportamenti sociali, un nesso tale da produrre sviluppi sociali diversi e opposti a seconda che esso si presenti nella sua versione positiva o negativa («c’è una connessione – sostiene Franco La Cecla – tra il modo in cui le periferie sono fatte e la bruttezza della vita sociale che provocano»[20]). È alla relazione, intesa come orizzonte teorico e obiettivo pratico, che è doveroso richiamarsi, allo scopo di interrompere e riconvertire dinamiche nelle quali tagli, separazioni, chiusure, assenza di forma vengano spacciate per elogio delle differenze, e, al contrario, l’omologazione e la mancanza di gerarchie e differenziazioni degli spazi e dei moduli vengano spacciate per esempi di democrazia sociale ed urbana. Tanto i confini quanto le aperture non possono e non devono venire meno, dal momento che non si dà apertura se non dei confini e non si danno confini se non in uno spazio inutilmente illimitato. I territori vanno rivisti e rivissuti nella loro mobilità,
«elastici, deformabili, capaci di accogliersi l’un l’altro, di penetrare gli uni negli altri, spugnosi, molluscolari. Non si tratta di un’operazione di soppressione del confine: qualsiasi corpo presenta confini, pena l’annullarsi. Né si tratta di confondere anarchicamente le relazioni fra i diversi tempi dei diversi luoghi. Si tratta piuttosto di accordare senza confondere, facendo vivere l’intero nella qualità di ogni parte»[21].
Ecco perché per l’estetica, tanto come teoria della sensibilità quanto come riflessione sulle arti, non può rinunciare a trattare le questioni connesse all’abitare, inteso come elemento fondamentale e discriminante per il miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo.
[1] J. Hillman, La pratica della bellezza, in Id., Politica della bellezza, a cura di F. Donfrancesco, trad. it. di P. Donfrancesco, Moretti&Vitali, Bergamo 20053, pp. 85-101.
[2] Bisogna comunque tenere presente che per Kant «la bellezza è solo un simbolo della moralità, e tra i giudizi morali ed estetici c’è solo un rapporto di analogia. Kant trattò in modo interessante le differenze morali ed estetiche in modi sistematicamente paralleli» (P. Pellegrino, La bellezza tra arte e tradizione. Storia e modernità, Congedo Editore, Galatina 2008, p. 113).
[3] P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007, p. 21.
[4] E. Franzini, L’estetica del Settecento, il Mulino, Bologna 1995, p. 160.
[5] V. Fazio-Allmayer, «Vico e Kant e l’universale estetico», in Id., Moralità dell’arte e altri saggi, Sansoni, Firenze 1972, p. 83.
[6] Mentre la pólis era «fondamentalmente l’unità di persone dello stesso génos» (M. Cacciari, La città, Pazzini Editore, Villa Verucchio 20083, p. 9), rinviando, pertanto, ad un «tutto organico» che precede l’idea di polítes, la civitas era il risultato dell’aggregazione di persone diverse per religione, etnia, costumi, e rappresentava un’idea che segue quella di cives. La pólis guardava al passato (incarnato dal génos) mentre la civitas era proiettata verso il futuro: ciò che reggeva la civitas non era «un fondamento originario quanto un obiettivo» (ivi, p. 15), un fine, quello dell’imperium sine fine, della civitas mobilis augescens.
[7] Ivi, p. 24.
[8] Ivi, p. 55.
[9] Ivi, p. 64.
[10] Cfr. M. Romano, L’estetica della città europea. Forme e immagini, Einaudi, Torino 1993; Costruire le città, Skira, Milano 2004; La città come opera d’arte, Einaudi, Torino 2008; Ascesa e declino della città europea, Raffaello Cortina, Milano 2010.
[11] C. Chenis, L’architetto poeta dello spazio, in «L’Architetto», a. xvii, n. 151, novembre 2000, p. 21.
[12] Cfr. K. Lewin, Principi di psicologia topologica, trad. it. di A. Ossicini, Organizzazioni speciali, Firenze 1980 (2a rist.).
[13] M. Cacciari, La città, cit., p. 58.
[14] M. Romano, Costruire le città, cit., p. 19.
[15] G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, trad. it. di P. Jedlowski e R. Siebert, Armando Armando, Roma 1995, p. 36.
[16] Ivi, pp. 52-53.
[17] L. Decandia, Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica, Meltemi, Roma 2008, p. 11.
[18] Ivi, p. 144.
[19] Ivi, p. 126.
[20] F. La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 60.
[21] M. Cacciari, Nomadi in prigione, in A. Bonomi, A. Abruzzese (a cura di), La città infinita, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 51-59: 58.
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