Giorgio Mariani, I reietti migranti di Steinbeck nella Grande Depressione

by gabriella

okies

La recensione all’edizione italiana [I Nomadi, Il Sag­gia­tore, pp. 113] di alcuni articoli dedicati da John Steinbeck alla condizione sociale degli okies nel 1938. Da Il Manifesto del 11 ottobre 2015.

furoreNel ten­ta­tivo di costruire un cor­pus elet­tro­nico del romanzo di lin­gua inglese del Nove­cento, posti di fronte a una mole enorme di testi, Mark McGurl e Frank Algee-Hewitt hanno deciso di com­bi­nare tra loro un numero di elen­chi già in cir­co­la­zione – per esem­pio «i 100 migliori romanzi del ven­te­simo secolo della Modern Library» – per ovviare agli inte­ressi impli­ci­ta­mente o espli­ci­ta­mente par­ti­giani su cui ognuno di que­sti cata­lo­ghi si basa. Dall’analisi quan­ti­ta­tiva svolta si sco­pre che un solo testo ricorre in tutti gli elen­chi accor­pati: que­sto unico testo, che incon­tra l’approvazione dei cri­tici di ten­denze più dispa­rate (acca­de­mici inna­mo­rati dello spe­ri­men­ta­li­smo, cri­tici fedeli al rea­li­smo, stu­diosi delle let­te­ra­ture post­co­lo­niali e «etni­che») e che al tempo stesso è stato un enorme suc­cesso com­mer­ciale, è Furore di John Steinbeck.

Pro­vare a spie­gare il per­ché non rien­tra tra i com­piti dell’analisi di McGurl e Algee-Hewitt, che si limi­tano a indi­care come il romanzo di Stein­beck sia un «caso let­te­ra­rio» meri­te­vole di ulte­riori indagini.

Que­sto dato dovrebbe essere di per sé suf­fi­ciente a giu­sti­fi­care l’interesse per i sette arti­coli di inchie­sta e di denun­cia civile che Stein­beck scrisse per il «San Fran­ci­sco News» tra il 5 e il 12 Otto­bre del 1936, in piena Grande Depres­sione, e che rap­pre­sen­tano a tutti gli effetti la pre­messa ideale e la base con­creta di Furore.

Dorotea Lange, Migrant Mother

Dorotea Lange, Migrant Mother (Florence Thompson) 1930

Rac­colti per la prima volta nel 1938 in un volu­metto dal titolo Their Blood is Strong (Hanno il san­gue forte), che com­pren­deva alcune foto di Doro­thea Lange (a tutti nota per la sua «Migrant Mother», una delle foto più cele­bri del secolo scorso), e suc­ces­si­va­mente ripub­bli­cati col titolo The Har­vest Gyspies (I gitani del rac­colto) nel 1988, ven­gono ora per la prima volta resi dispo­ni­bili al let­tore ita­liano con il titolo I Nomadi, in una eccel­lente tra­du­zione di Fran­ce­sca Cosi e Ales­san­dra Repossi (Il Sag­gia­tore, pp. 113, euro 14,00). L’edizione nella col­lana Le Siler­chie, otti­ma­mente curata, com­prende sia le foto di Lange sia altri scatti di foto­grafi ano­nimi, ed è cor­re­data dall’interessante intro­du­zione alla edi­zione dell’88 di Char­les Wol­len­berg, non­ché da una più breve ma inci­siva post­fa­zione di Cin­zia Scarpino.

Chi ha letto Furore ritro­verà in que­sti arti­coli in primo luogo un’analoga atten­zione per le scon­vol­genti con­di­zioni sociali e umane nelle quali ver­sano gli okies, i lavo­ra­tori migranti giunti in Cali­for­nia in cerca di lavoro dal Texas, dall’Arkansas, dal Mis­sis­sippi e natu­ral­mente dall’Oklahoma: da quelle zone agri­cole, cioè, che erano state deva­state dal Dust Bowl, le ter­ri­bili tem­pe­ste di sab­bia degli anni trenta. Come Furore, anche I Nomadi denun­cia le pra­ti­che bru­tali (Stein­beck le eti­chetta come «fasci­ste») messe in atto dai lati­fon­di­sti, inte­res­sati solo allo sfrut­ta­mento più bieco di una forza lavoro dispo­sta a tutto pur di non morire – let­te­ral­mente – di fame e malattie.

Frutto di un’attenta ricerca sul campo e di inter­vi­ste sia con i migranti sia con assi­stenti sociali come Tom Col­lins (che ispirò uno dei per­so­naggi di Furore) impe­gnati nella crea­zione di accam­pa­menti sta­tali dove le con­di­zioni di vita fos­sero per­lo­meno accet­ta­bili, e dove fosse pos­si­bile rice­vere un minimo di assi­stenza sani­ta­ria, il volume si situa, come nota Scar­pino, «agli albori del libro documentario». Negli anni a venire, infatti, si mol­ti­pli­che­ranno i photo-essay book, frutto di col­la­bo­ra­zioni tra foto­grafi come Lange o Wal­ker Evans, e scrittori-giornalisti come Stein­beck, Erskine Cald­well e James Agee.

Ciò che acco­muna tutti que­sti testi a un romanzo come Furore è un intento docu­men­ta­rio che non resta mai fine a se stesso e che, com’è par­ti­co­lar­mente evi­dente negli arti­coli di Stein­beck, vuole fun­zio­nare da pun­golo alla ricerca di solu­zioni con­crete ai pro­blemi descritti. Lo scrit­tore, pur non man­cando di lan­ciare allarmi sui rischi di can­cel­la­zione della demo­cra­zia in uno stato come quello della Cali­for­nia, i cui cen­tri di potere sono mano­vrati dagli inte­ressi delle lob­bies dell’agri­bu­si­ness mono­po­li­stico, sce­glie di rivol­gersi al buon senso, e al buon cuore, della classe media e medio-alta.

La sua spe­ranza è che essa com­prenda come que­ste migliaia di lavo­ra­tori migranti siano non una minac­cia, bensì una risorsa indi­spen­sa­bile. Da que­sta scelta reto­rica, discen­dono – come oppor­tu­na­mente sot­to­li­nea Scar­pino – non solo un certo popu­li­smo ma anche le «ambi­guità raz­ziali non del tutto tra­scu­ra­bili» che segnano in una certa misura i ragio­na­menti di Steinbeck.

Lo scrit­tore non manca certo di ricor­dare che, per decenni, prima dei migranti del MidWest, a essere sfrut­tati in modo se pos­si­bile ancora più bestiale, erano stati, a turno, i cinesi, i giap­po­nesi, i mes­si­cani e i filip­pini; ma l’appello che nei suoi arti­coli rivolge al let­tore affin­ché prenda atto delle dispe­rate situa­zioni in cui ver­sano que­sti nuovi migranti «della migliore razza ame­ri­cana» – insi­stendo sul fatto che «i futuri brac­cianti saranno bian­chi e ame­ri­cani» – appare non solo discu­ti­bile nell’implicita invo­ca­zione di una soli­da­rietà raz­ziale e nazio­na­li­sta, ma anche poco sen­sato politicamente.

Per un verso, difatti, la per­ce­zione del migrante come «altro», «sporco» e peri­co­loso è deter­mi­nata dalla sua col­lo­ca­zione sociale, indi­pen­den­te­mente dalla sua iden­tità etnica. Ridotti in con­di­zioni sub-umane (alcune pagine di Stein­beck sono così agghiac­cianti da ricor­dare quelle di Primo Levi, soprat­tutto quando illu­strano come, pri­vate di ogni dignità, que­ste fami­glie sci­vo­lino ine­so­ra­bil­mente verso una con­di­zione ani­male), gli okies erano pre­sen­tati dalla mag­gior parte della stampa come una minac­cia, in quanto sup­po­sti por­ta­tori di malat­tie e poten­ziali ele­menti di una massa rivoltosa.

Inol­tre, la fede un po’ inge­nua che Stein­beck nutre nella even­tua­lità che que­sti migranti pre­ten­dano un giorno di essere trat­tati come i cit­ta­dini ame­ri­cani che effet­ti­va­mente sono, rifiu­tando il miser­rimo tenore di vita cui si pie­ga­vano «i lavo­ra­tori stra­nieri a basso costo», non fa i conti con la realtà.

Come scrive Wol­len­berg nella sua intro­du­zione, «gli okies si dimo­stra­rono meno inten­zio­nati a orga­niz­zarsi e ade­rire ai sin­da­cati rispetto ai mes­si­cani e filip­pini che li ave­vano pre­ce­duti. (…) I migranti della Dust Bowl si con­si­de­ra­vano ancora agri­col­tori indi­pen­denti e tro­va­vano dif­fi­cile abban­do­nare il tra­di­zio­nale indi­vi­dua­li­smo rurale». Ugual­mente mal ripo­sta era l’aspettativa di Stein­beck (e di Tom Col­lins) che a que­ste fami­glie potes­sero essere con­cessi pic­coli appez­za­menti di terra che ripri­sti­nas­sero le con­di­zioni sociali e ambien­tali dalle quali erano state vio­len­te­mente sra­di­cate. L’economia agri­cola cali­for­niana era estra­nea alla tra­di­zione dei pic­coli pro­prie­tari di stampo jef­fer­so­niano, ed era piut­to­sto domi­nata da enormi aziende agri­cole i cui inte­ressi erano rivolti al mer­cato internazionale.

Il testo di Stein­beck ci parla, ovvia­mente, di tempi pas­sati; ma sono fin troppo evi­denti le ana­lo­gie con l’oggi, e ciò che acco­muna, per esem­pio, gli okies di allora e i migranti afri­cani che rac­col­gono i pomo­dori nel nostro mez­zo­giorno per paghe da fame, in con­di­zioni lavo­ra­tive e abi­ta­tive indecenti.

Forse è anche per que­sto che l’importanza del lavoro di Stein­beck è uni­ver­sal­mente rico­no­sciuta: per­ché ci ricorda quella «tra­di­zione degli oppressi» per la quale, come ammo­niva Wal­ter Ben­ja­min, lungi dall’essere un’eccezione, lo stato di emer­genza era (ed è tut­tora) la regola.

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