Giovanni Arrighi, Lu Zhang, Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del sud del mondo

by gabriella

Questo capitolo sulla Cina è contenuto nel libro che raccoglie gli ultimi scritti di Giovanni Arrighi [Cap. 5 di Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, 2010]. Arrighi e Zhang vi analizzano il declino delle politiche neoliberali del Washington consensus e le radicali differenze con il possibile ordine futuro di un Beijing consensus.

Questo capitolo analizza quel che si può chiamare la “strana morte” del Washington consensus, con particolare riferimento al rafforzamento economico della Cina e a un cambiamento fondamentale nelle relazioni tra il Nord e il Sud del mondo1. Ciò che è “strano” riguardo questa morte è che essa sia avvenuta in un momento in cui le dottrine neoliberiste promosse dal consensus godono di un’autorità apparentemente incontrastata. Proprio per questa ragione, questa morte è stata poco notata, e le sue cause e conseguenze rimangono avvolte in una gran confusione.

Parte della confusione sorge dalla persistente influenza sulla politica mondiale di vari aspetti del defunto consensus. Come notato da Walden Bello, “il neoliberismo [rimane], semplicemente per forza d’inerzia, il modello standard per molti economisti e tecnocrati che… non hanno più fiducia in esso”. Inoltre, nuove dottrine stanno emergendo, principalmente nel Nord del mondo, che tentano di rianimare aspetti del vecchio consensus in forme più realistiche ed accettabili2. La nostra analisi non esclude né la residuale influenza del neoliberismo, come modello “standard”, né la possibilità di una sua rinascita in forme nuove. Semplicemente essa evidenzia che la contro-rivoluzione neoliberista dei primi anni Ottanta, della quale il Washington consensus è stato parte essenziale, ha fallito, creando le condizioni per un’inversione delle relazioni di potere tra il Nord e il Sud del mondo che sta già cambiando sia la politica mondiale che la teoria e la pratica dello sviluppo nazionale.Inizieremo con lo schematizzare le origini e gli obiettivi della svolta, o contro-rivoluzione, neoliberista del 1979-82 nelle politiche e nell’ideologia statunitense. Dopo aver sottolineato l’impatto della svolta neoliberista nelle relazioni Nord-Sud, focalizzeremo l’attenzione sull’ascesa economica della Cina, quale sua conseguenza imprevista più importante, profondamente radicata nelle tradizioni cinesi, compresa quella rivoluzionaria dell’era di Mao. Concluderemo indicando l’impatto dell’ascesa cinese sulle relazioni Nord-Sud, con particolare riferimento al possibile emergere di una nuova alleanza fra i paesi del Sud su fondamenta più solide di quella stabilita a Bandung negli anni Cinquanta, e considerando le sfide e opportunità che l’attuale crisi economica crea per la Cina e altri paesi in via di sviluppo.

1. Il Washington consensus e la contro-rivoluzione neoliberista

La svolta neoliberista iniziò nell’ultimo anno dell’amministrazione Carter, quando una seria crisi di fiducia nel dollaro statunitense indusse Paul Volcker, allora presidente della Federal Reserve, a passare a politiche monetarie fortemente restrittive, dopo quelle molto permissive degli anni Settanta. La svolta si è materializzata pienamente soltanto quando l’amministrazione Reagan, traendo ispirazione ideologica dallo slogan di Margaret Thatcher “Non c’è alternativa” (There is no alternative), dichiarò obsolete tutte le varianti del modello sociale keynesiano, e procedette a liquidarle ravvivando la fede d’inizio ventesimo secolo nella “magia” di presunti mercati capaci di regolarsi da sé3.

Tale liquidazione avvenne attraverso una drastica contrazione dell’offerta di moneta, un altrettanto drastico incremento dei tassi di interesse, ampie riduzioni della tassazione sulle imprese, l’eliminazione dei controlli sui movimenti di capitale, e un improvviso cambiamento delle politiche statunitensi nei confronti del Terzo mondo, dalla promozione del “progetto sviluppo”, lanciato nei tardi anni Quaranta e primi Cinquanta, a quella dell’agenda neoliberista, che più tardi divenne nota come Washington consensus. Direttamente o attraverso il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale, il governo statunitense ritirò il suo appoggio alle strategie “stataliste” e “autocentrate” (come l’industrializzazione per sostituzione delle importazioni) sostenute dalla maggior parte delle teorie dello sviluppo dagli anni Cinquanta e Sessanta, iniziando a promuovere “terapie shock” favorevoli al capitale, miranti a trasferire la proprietà di attività economiche dal pubblico al privato a prezzi stracciati e a liberalizzare il commercio estero e i movimenti del capitale4.

Il cambiamento è stato comunemente caratterizzato come una “contro-rivoluzione” nel pensiero economico e nell’ideologia politica5. La svolta neoliberista è stata contro-rivoluzionaria sia rispetto al lavoro che al Terzo mondo. Come retrospettivamente ammesso pubblicamente da Alan Budd, allora consigliere della Thatcher, “ciò che fu costruita era, in termini marxisti, una crisi del capitalismo che ha ricreato un esercito industriale di riserva, consentendo ai capitalisti di ottenere, da allora in poi, alti profitti6. Nel caso del governo degli Stati Uniti, tuttavia, questo indebolimento del lavoro, più che un fine in sé, era un mezzo per invertire il declino relativo della ricchezza e del potere degli Stati Uniti che aveva preso slancio con la sconfitta in Vietnam ed era culminato alla fine degli anni Settanta con la rivoluzione iraniana, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la svalutazione del dollaro.

Benché il Washington consensus fosse prima di tutto una strategia volta a ristabilire il potere degli Stati Uniti, è stato presentato come una nuova strategia di sviluppo. Prendendo per buona questa pretesa, le discussioni sull’impatto della svolta neoliberista si sono generalmente focalizzate sulle tendenze, dopo il 1980, nella disuguaglianza del reddito a livello mondiale, misurata da indicatori sintetici come l’indice di Gini o di Theil. Malgrado sia emerso un accordo abbastanza generale sul fatto che la disuguaglianza interna ai singoli paesi sia aumentata, le tendenze a proposito della disuguaglianza tra paesi rimangono oggetto di controversie. Il consenso, comunque, è che:

i miglioramenti nella disuguaglianza di reddito e nella povertà mondiale [dal 1980] non sono stati distribuiti ampiamente, ma sono dipesi fortemente, come la crescita complessiva del reddito mondiale, dall’impressionante performance della Cina e dalla considerevole crescita dell’India. Escludendo la Cina dal calcolo, la disuguaglianza aumenta secondo la maggior parte delle misure. Escludendo anche l’India, non soltanto c’è un deterioramento più marcato nella distribuzione del reddito mondiale, ma l’incidenza della povertà rimane all’incirca costante7.

In breve, riassume Albert Berry, “si può considerare che [la Cina e l’India] abbiano salvato il mondo da una pessima performance complessiva nel corso dei [due] ultimi decenni”8. I dati forniti da Berry mostrano anche che la modesta diminuzione nell’indice di Gini tra il 1980 e il 2000 non ha influenzato negativamente il 10% più ricco della popolazione mondiale (che, in realtà, ha ulteriormente migliorato la propria posizione relativa), ma dipende esclusivamente da una redistribuzione dai paesi a medio reddito verso quelli a reddito più alto e più basso9.

Fonte: Calcoli basati sui dati della Banca mondiale (WDI – 2001-2006)
Pnl in dollari Usa a valori costanti del 1995 per il periodo 1960-1995, Pnl in dollari Usa correnti secondo il metodo Atlas per il 2000 e il 2005.
*Paesi inclusi nel Terzo mondo:
Africa sub-sahariana: Benin, Botswana, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Zaire, Congo, Costa d’Avorio, Gabon, Ghana, Kenya, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mauritania, Mauritius, Niger, Nigeria, Ruanda, Senegal, Sudafrica, Tanzania, Togo, Uganda, Zambia, Zimbabwe
 America latina: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costarica, Repubblica Dominicana Ecuador, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Giamaica, Mexico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Trinidad e Tobago, Uruguay, Venezuela
Asia occidentale e Africa del nord: Algeria, Egitto, Marocco, Arabia Saudita (1971 per il 1970), Sudan, Siria, Tunisia (1961 per il 1960), Turchia
Asia del sud: Bangladesh, India, Nepal, Pakistan, Sri Lanka
Asia orientale: Cina, Hong Kong, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia, Filippine, Singapore, Taiwan (Taiwan National Statistics), Thailandia
**Paesi inclusi nel Primo mondo: America del nord: Canada, Stati uniti
Europa occidentale: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno Unito
Europa meridionale: Grecia, Irlanda, Israele, Italia, Portogallo, Spagna
Australia e Nuova Zelanda
Giappone

 ***Paesi inclusi nell’Europa orientale ed ex-Urss:
Europa orientale: Albania, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania, Repubblica Slovacca, Slovenia
 Ex-Urss: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Estonia, Georgia, Kazakistan, Kirghizi-stan, Lettonia, Lituania, Moldova, Federazione Russa, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina, Uzbekistan

La tabella 1 fornisce maggiori dettagli su questa redistribuzione. Come mostra la tabella, nella misura in cui si guardi al divario di reddito complessivo tra Nord e Sud, la contro-rivoluzione neoliberista ha fatto poca differenza, portando inizialmente a una piccola diminuzione, e poi a un lieve incremento nel reddito pro-capite del Terzo mondo rispetto a quello del Primo. La contro-rivoluzione ha avuto invece grossi effetti per regioni specifiche del Nord come del Sud. Per i nostri scopi, è sufficiente focalizzare l’attenzione su tre tendenze principali. Primo, negli anni Novanta gli Stati uniti sono riusciti a invertire il loro declino relativo degli anni Sessanta e Settanta, ma l’inversione è stata interamente compensata da un deterioramento della posizione relativa dell’Europa occidentale e meridionale e del Giappone. Secondo, negli anni Ottanta l’Africa sub-sahariana e l’America latina hanno subito entrambe un ampio declino relativo, dal quale non si sono più riprese, seguito da un egualmente significativo declino relativo della dissolta Unione Sovietica negli anni Novanta. Terzo, i guadagni più grandi sono stati quelli dell’Asia orientale e del Giappone fino al 1990 e di India e Cina negli anni Ottanta e Novanta, con l’avanzata della Cina che è stata assai più grande di quella dell’India10.

Queste tendenze sono state largamente interpretate come il risultato della più stretta integrazione di Cina, India ed ex-Unione Sovietica nell’economia globale. Richard Freeman, per esempio, ha sostenuto che tale maggiore integrazione abbia raddoppiato la forza lavoro che produce per il mercato mondiale senza incrementare l’offerta di capitale. Poiché il doppio dei lavoratori compete per lavorare con lo stesso capitale, non soltanto i rapporti di forza si sono spostati verso quest’ultimo, ma sono anche peggiorate le prospettive per la crescita economica dei paesi a medio reddito che erano già integrati nell’economia globale.

I paesi che avevano sperato di crescere esportando beni a bassi salari devono ora guardare a nuovi settori in cui avanzare, se vogliono farcela nell’economia globale… Messico, Colombia o Sudafrica non possono competere con la Cina nella manifattura finché i salari cinesi sono un quarto dei loro -specialmente perché il lavoro cinese è grosso modo produttivo quanto il loro11.

Se vera, questa tesi fornirebbe una spiegazione molto elegante della doppia redistribuzione di reddito sopra osservata: dai gruppi a basso reddito a quelli ad alto reddito all’interno dei paesi e, tra paesi, da quelli a medio reddito a quelli a basso e alto reddito. L’affermazione, tuttavia, non regge all’esame empirico perché, prima e dopo l’adozione della dottrina neoliberista da parte degli Stati uniti, la caratteristica predominante dell’economia globale è stata un’ampia e crescente offerta di capitale eccedente, tanto quanto (se non di più) l’illimitata offerta di lavoro eccedente. Mentre negli anni Settanta questa crescente offerta di capitale eccedente fluiva anzitutto dai paesi ad alto reddito a quelli a basso e soprattutto medio reddito, comprimendo i profitti anziché i salari, la svolta neoliberista ha spostato la pressione al ribasso dai profitti ai salari, e, soprattutto, ha prodotto un massiccio ri-orientamento dei flussi di capitale verso gli Stati uniti. Questo ri-orientamento ha reso il neoliberismo una profezia che si auto-avvera: che esistesse o meno un’alternativa prima del 1980 alla competizione selvaggia per assicurarsi capitali sempre più mobili, è diventata una questione irrilevante una volta che l’economia più grande e ricca ha spinto tutto il mondo a fare concessioni sempre più sfrenate al capitale. Questo è stato il caso specialmente dei paesi del Terzo e Secondo mondo (prevalentemente a medio reddito) che, come risultato dei cambiamenti nelle politiche Usa, hanno subito una netta contrazione sia nella domanda per le loro risorse naturali, sia nella disponibilità di credito e investimenti a condizioni favorevoli.

La misura del ri-orientamento dei flussi di capitale può essere colta a partire dal cambiamento nei conti correnti della bilancia dei pagamenti Usa. Come mostra la figura 1, per gli Stati uniti la presunta espansione dell’offerta mondiale di lavoro a basso costo è stata accompagnata da un’offerta di capitale virtualmente illimitata da parte del resto del mondo. Inoltre, come mostra la figura 2, negli anni Ottanta e specialmente dopo la crisi dell’Asia orientale del 1997-98, quest’offerta illimitata di capitale è venuta dai paesi del Terzo e Secondo mondo. Qualche che sia la ragione dello spostamento nell’equilibrio del potere tra lavoro e capitale negli Stati uniti – dove lo spostamento è giunto prima ed è stato più marcato che in altri paesi ricchi – esso non può essere attribuito a un’espansione dell’offerta mondiale di lavoro a basso costo senza una parallela espansione proporzionale dell’offerta globale di capitale, come Freeman, tra gli altri, ritiene.

I paesi a basso e medio reddito hanno fronteggiato una situazione completamente differente. In questi paesi, il ri-orientamento dei flussi globali del capitale verso gli Stati uniti ha trasformato “l’inondazione” di capitale sperimentata negli anni Settanta nell’improvvisa “siccità” degli Ottanta. Segnalata in primo luogo dall’insolvenza del Messico nel 1982, tale siccità è stata probabilmente il fattore più rilevante nel favorire sia l’escalation nella competizione tra gli Stati per il capitale, sia l’ampia divergenza tra le regioni del Sud mostrata nella tabella 1. Alcune regioni (l’Asia orientale in particolare) sono riuscite a trarre vantaggio dall’incremento della domanda statunitense di prodotti industriali a basso costo che è derivata dalla liberalizzazione del commercio e dal crescente deficit nella bilancia commerciale degli Usa. Queste regioni hanno beneficiato del ri-orientamento dei flussi di capitale verso gli Stati uniti, perché il miglioramento nella loro bilancia dei pagamenti ha ridotto il loro bisogno di competere con gli Stati uniti sui mercati finanziari mondiali e, di fatto, ha trasformato alcuni di loro nei maggiori creditori degli Usa. Altre regioni (soprattutto l’America latina e l’Africa sub-sahariana), al contrario, non hanno avuto successo nella competizione per una porzione della domanda nordamericana e sono incorse in difficoltà nella bilancia dei pagamenti che le hanno messe nella posizione, senza speranza, di dover competere direttamente con gli Stati uniti sui mercati finanziari mondiali.

Le imprese e le agenzie governative statunitensi hanno potuto trarre vantaggio da entrambi questi esiti riguardanti il Sud: sono stati in grado di sfruttare il credito e i beni a basso costo che i “vincitori” del Sud erano ben felici di fornire, così come le proprietà e i beni patrimoniali che i “perdenti” del Sud sono stati costretti, volenti o nolenti, a mettere in vendita a prezzi stracciati. Come mostra la tabella 1, il risultato complessivo è stato che, mentre gli Stati uniti sono riusciti a invertire il loro declino economico relativo, i guadagni e le perdite delle regioni del Sud rispetto al Nord si sono in gran parte reciprocamente bilanciati.

In breve, il primo motore dell’intensificarsi delle pressioni competitive sul lavoro e sui paesi del Sud non è stato l’integrazione nei mercati mondiali dell’illimitata offerta di lavoro di Cina e India, bensì la controrivoluzione neoliberista sostenuta dagli Usa. L’enfasi di Freeman sull’illimitata offerta di lavoro a basso costo evidenzia il fatto che le regioni del Sud che hanno ottenuto risultati migliori nella competizione aperta dalla contro-rivoluzione possedevano ampie riserve di lavoro agricolo a bassa produttività che potevano essere spostate verso lavori a maggiore produttività nell’industria e nei servizi. Jeffrey Sachs e Wing Thye Woo hanno sostenuto che l’esistenza di un grande settore agricolo sia la differenza cruciale che spiega il maggior successo delle riforme economiche in Cina rispetto alla Russia12.

Argomenti di questo tipo possono essere criticati su due piani. Primo, come si è chiesto Thomas Rawski con specifico riferimento all’interpretazione di Sachs e Woo dei successi cinesi, “se milioni di agricoltori scarsamente educati, sotto-occupati e sottoposti ad eccessiva regolazione rappresentano ‘i vantaggi dell’arretratezza’, perché non osserviamo un’esplosione nella crescita di Egitto, India, Bangladesh, Pakistan, Nigeria e altre nazioni che da lungo tempo godono di tali ‘vantaggi’?”13. Secondo, un’ampia riserva di lavoro agricolo a bassa produttività non è la sola fonte di lavoro sfruttabile. I marxisti, per esempio, da molto tempo hanno sottolineato che lo sviluppo capitalistico tende a creare un crescente esercito industriale di riserva che può impedire che i salari reali crescano tanto velocemente quanto la produttività del lavoro, e hanno considerato l’esistenza di una grande riserva di lavoro agricolo con accesso ai mezzi per produrre mezzi di sussistenza non come un vantaggio, ma come un ostacolo allo sviluppo economico14. Sorge allora la questione se una gran massa di contadini, soltanto parzialmente separata dai mezzi per produrre la propria sussistenza, come quella cinese, costituisca, nell’attrarre capitale e promuovere lo sviluppo economico, un vantaggio competitivo più grande rispetto alle masse urbane e semiurbane di lavoratori disoccupati o sotto-occupati di cui l’Africa sub-sahariana e l’America latina sono più fornite rispetto alla Cina. Se è così, dovremmo allora rivedere o respingere le teorie marxiste dell’esercito industriale di riserva e dell’accumulazione attraverso l’espropriazione? E se non è così, quali altre circostanze possono spiegare il successo della Cina, a confronto dell’Africa sub-sahariana e dell’America latina, nel volgere a proprio vantaggio la congiuntura economica creata dalla contro-rivoluzione neoliberista?

2. Le riforme della Cina e il Washington Consensus

I sostenitori istituzionali del Washington consensus – la Banca mondiale, l’Fmi, i ministeri dell’economia statunitense e britannico, appoggiati dal Financial Times e dall’Economist – si sono vantati del fatto che la riduzione della disuguaglianza nel reddito mondiale e della povertà, che ha accompagnato la crescita economica cinese a partire dal 1980, possono essere ricondotti all’adesione della Cina alle politiche da loro prescritte15. Come sottolineato da James Galbraith, questa tesi è contraddetta dalla lunga lista di disastri economici provocati dall’adesione a tali raccomandazioni nell’Africa sub-sahariana, in America latina e nella dissolta Urss, e dal fatto che Cina e India, innanzi tutto, “si sono liberate dalle banche occidentali negli anni Settanta, risparmiandosi la crisi del debito; in secondo luogo, dal fatto che Cina e India “hanno continuato a mantenere fino a oggi i controlli sui movimenti di capitali, cosicché il capitale speculativo non può fluire liberamente dentro e fuori dai paesi”; infine, dal fatto che entrambi “continuano ad avere un esteso settore statale nell’industria pesante”. Nell’insieme Cina e India hanno ottenuto buoni risultati, “ma sono dovuti alle riforme oppure alle regolamentazioni che hanno continuato a imporre? Senza dubbio, la risposta giusta è: in parte a entrambe le cose16.

Per la Cina, la posizione di Galbraith concorda con quella di Joseph Stiglitz secondo cui il successo delle riforme cinesi – rispetto al fallimento di quelle nell’ex-Unione Sovietica – è legato al non aver abbandonato il gradualismo a favore delle terapie d’urto sostenute dal Washington consensus; all’aver riconosciuto che la stabilità sociale può essere mantenuta soltanto se la creazione di posti di lavoro procede insieme alle ristrutturazioni; all’aver cercato di assicurare nuovi impieghi produttivi alle risorse divenute inutilizzate per la più intensa competizione17. Certamente, le riforme della Cina hanno esposto le imprese di proprietà dello stato (State-owned enterprises) alla competizione, tra loro, con le imprese straniere e soprattutto con una varietà di nuove imprese private, semi-private e di comunità locali. Tuttavia, se la crescente concorrenza ha fatto diminuire la quota di occupazione e produzione delle imprese statali rispetto al periodo 1949-1979, il ruolo del governo cinese nel promuovere lo sviluppo non è diminuito. Al contrario, esso ha investito grandi somme per lo sviluppo di nuovi settori industriali, per la creazione dei nuovi distretti industriali di esportazione (Export Processing Zones), per l’espansione e modernizzazione dell’educazione superiore, e per grandiosi progetti infrastrutturali, in una misura senza precedenti nei paesi con reddito pro-capite comparabile.

Grazie alla dimensione continentale e all’immensa popolazione del paese, queste politiche hanno consentito al governo cinese di combinare i vantaggi dell’industrializzazione orientata all’esportazione, ampiamente controllata dall’investimento estero, con i vantaggi di un’economia nazionale auto-centrata informalmente protetta da lingua, usanze, istituzioni e reti di rapporti accessibili agli stranieri soltanto attraverso intermediari locali. Un buon esempio di questa combinazione sono i grandi distretti industriali di esportazione che il governo cinese ha costruito dal nulla e che ora ospitano due terzi del totale dei lavoratori di tali aree a livello mondiale. Le dimensioni della Cina le hanno consentito di costruire tre complessi manifatturieri, ciascuno con la propria specializzazione: il delta del Fiume delle Perle, specializzato in manifatture ad alta intensità di lavoro, produzione di componenti e loro assemblaggio; il delta del fiume Yangze, specializzato in produzioni ad alta intensità di capitale e nella produzione di automobili, semi-conduttori, telefoni cellulari e computer; e lo Zhongguan Cun, vicino a Pechino, la Silicon Valley della Cina, dove il governo interviene direttamente per favorire la collaborazione tra università, imprese e banche di Stato nello sviluppo delle tecnologie dell’informazione18.

La divisione del lavoro tra i distretti industriali di esportazione mostra anche la strategia del governo cinese di promuovere lo sviluppo delle industrie basate sulla conoscenza senza abbandonare quelle ad alta intensità di lavoro. Nel perseguire questa strategia, il governo cinese ha modernizzato ed espanso il sistema educativo a un ritmo e a una scala senza precedenti perfino nell’Asia orientale. Sulla base degli eccezionali successi nell’educazione primaria dell’era di Mao, il numero di laureati è triplicato tra il 2001 e il 2005, fino a superare i tre milioni l’anno. Il risultato è che le università statali cinesi producono laureati in un numero comparabile a quello di paesi molto più ricchi. Anche se l’aumento quantitativo ha indubbiamente comportato un peggioramento nella qualità dell’offerta formativa, l’estensione alla fine del 2002 dell’istruzione obbligatoria a nove anni a un’area nella quale vive il 90% della popolazione rappresenta comunque un successo impressionante. Inoltre, la Cina ha il più gran numero di studenti stranieri negli Stati Uniti, con gruppi in rapida crescita in Europa, Australia, Giappone e altrove. Il governo cinese ha offerto molti incentivi per spingere gli studenti cinesi all’estero a ritornare dopo aver completato i loro studi, e molti di loro, inclusi scienziati e manager, sono stati attratti dalle opportunità offerte da un’economia in rapida crescita19.

In breve, il gradualismo con cui le riforme economiche sono state realizzate, e le azioni di bilanciamento con cui il governo ha cercato di promuovere la sinergia tra un mercato nazionale in espansione e una nuova divisione sociale del lavoro, sono in netto contrasto con la fede utopica del credo neoliberista nei benefici di terapie d’urto, governi ridotti al minimo, e mercati auto-regolati. Nel promuovere le esportazioni e l’importazione di conoscenze tecnologiche, il governo cinese ha chiesto la collaborazione degli interessi del capitale estero e della diaspora cinese. In queste relazioni, tuttavia, il governo cinese ha conservato una posizione di forza, divenendo esso stesso uno dei principali creditori dello Stato capitalista dominante (gli Usa) e accettando assistenza a termini e condizioni conformi all’interesse nazionale della Cina. Nessuno sforzo d’immaginazione sarebbe sufficiente a caratterizzare il governo cinese come servo degli interessi del capitale straniero20. Anche la diffusa idea che tutte le industrie cinesi ad alta tecnologia siano controllate da capitali stranieri ignora l’ampia e crescente partecipazione di imprese e joint ventures cinesi nella produzione di beni tecnologici, come telefoni cellulari, computer e ogni tipo di elettrodomestico21.

La crescente competizione tra imprese pubbliche e private ha indubbiamente causato notevoli peggioramenti nella sicurezza dell’impiego che gli operai urbani godevano nell’era di Mao, così come innumerevoli episodi di super-sfruttamento, specialmente dei lavoratori migranti22. Tali difficoltà devono tuttavia essere considerate nel contesto di politiche governative che nemmeno sotto questo aspetto hanno accolto le prescrizione chiave del neoliberismo di sacrificare il benessere dei lavoratori ai profitti. Come David Schweickart ha evidenziato,

La Cina è entrata nel suo periodo di riforme senza che vi fosse alcuna classe capitalista. Questo fatto è stato enormemente importante. Non solo [non c’era alcuna] classe proprietaria che potesse bloccare il cambiamento strutturale, ma la classe capitalista cui è stato consentito di emergere, incoraggiandola, è stata molto più imprenditoriale di quanto tendano ad essere le classi capitaliste che sono dominanti da lungo tempo, e quindi è stata più utile alla società in generale.

Inoltre, la storia della Cina del ventesimo secolo ha insegnato ai suoi gruppi dominanti che un malcontento su larga scala di operai o contadini può mettere seriamente a rischio i successi della rivoluzione e le conseguenti riforme, e che la sola repressione non basta come rimedio. “Questa condizione – la minaccia reale di rivolte di massa e caos – è assente in Occidente. Essa è presente in molte parti del Sud del mondo, ma qui la struttura delle classi e i rapporti di forza sono alquanto differenti rispetto alla Cina”23.

Come risultato di quest’equilibrio fra le classi, l’assistenza medica, le pensioni e altri benefici sociali per i lavoratori nelle joint ventures sono più generosi, e i licenziamenti sono più difficili nel settore del lavoro regolare in Cina rispetto ad altri paesi con livello comparabile o addirittura maggiore di reddito pro-capite. Ancora più importante, l’espansione dell’educazione superiore, il rapido incremento di opportunità alternative d’impiego nelle nuove industrie, i benefici fiscali per le campagne, e altre riforme che incoraggiano gli abitanti dei villaggi a impiegare più lavoro nell’economia rurale, si sono combinati nel creare carenze di manodopera che stanno minando le fondamenta del super-sfruttamento del lavoro migrante. “Stiamo assistendo alla fine del periodo d’oro del lavoro estremamente a basso costo in Cina”, ha recentemente dichiarato un economista della Goldman Sachs. “C’è abbondanza di lavoratori, ma la riserva di operai non qualificati sta diminuendo… i lavoratori cinesi… stanno risalendo la catena del valore più velocemente di quanto ci si aspettasse”24.

Tra i fattori che hanno contribuito all’emergere di questa scarsità di lavoro c’è il gradualismo delle riforme e l’azione dello Stato per allargare e migliorare la divisione sociale del lavoro, la grande espansione dell’educazione, la subordinazione degli interessi capitalistici alla promozione dello sviluppo nazionale e l’attivo incoraggiamento della competizione inter-capitalistica. Ma il fattore decisivo è stato probabilmente l’espansione del mercato interno e il miglioramento delle condizioni di vita nelle aree rurali associati alle riforme.

La riforma chiave è stata l’introduzione, nel 1978-1983, del Sistema di responsabilità familiare (Household Responsibility System), che ha riportato il potere decisionale e il controllo sui surplus agricoli dalle comuni alle famiglie rurali. In combinazione con forti incrementi dei prezzi per gli approvvigionamenti agricoli nel 1979 e nel 1983, il risultato è stato un rilevante aumento dei guadagni nell’agricoltura, che ha rafforzato la precedente tendenza delle comuni e delle imprese agricole collettive a produrre beni non agricoli. Anche se il governo ha incoraggiato il lavoro rurale a “lasciare la terra senza lasciare il villaggio” attraverso vari impedimenti alla mobilità, nel 1983 ai residenti rurali venne concesso il permesso di cercare mercati per i loro prodotti effettuando trasporti e vendita a lunga distanza, e nel 1984 sono state ulteriormente semplificate le regole per consentire ai contadini di lavorare nelle città vicine e nelle nuove imprese di municipalità e di villaggio a proprietà collettiva (Township and Vil-lage Enterprises)25.

L’emergere delle imprese di municipalità e di villaggio è stato stimolato da due altre riforme: il decentramento fiscale, che ha garantito autonomia ai governi locali nella promozione della crescita economica enell’uso degli avanzi fiscali come incentivi; e il passaggio alla valutazione dei quadri del partito sulla base delle performance economiche delle loro regioni, che ha fornito ai governi locali forti incentivi a favorire la crescita. Le imprese di municipalità e di villaggio sono così divenute i luoghi primari del ri-orientamento delle energie imprenditoriali dei quadri di partito e delle autorità governative verso obiettivi di sviluppo. Perlopiù autosufficienti finanziariamente, esse sono anche divenute la principale agenzia per riallocare i surplus delle attività agricole verso attività industriali ad alta intensità di lavoro, capaci di assorbire produttivamente l’eccesso di lavoro agricolo26. Il risultato è stato una crescita esplosiva della forza lavoro rurale impiegata in attività non agricole, da 28 milioni nel 1978 a 176 milioni nel 2003. La maggior parte dell’incremento è avvenuto nelle imprese di municipalità e di villaggio, che tra il 1980 e il 2004 hanno creato almeno il quadruplo dei posti di lavoro persi nel settore statale e nelle cooperative urbane, e alla fine di tale periodo impiegavano più del doppio dei lavoratori di tutte le imprese urbane straniere, private e in comproprietà27.

Come ammesso da Deng Xiaoping nel 1993, la crescita esplosiva delle imprese di municipalità e di villaggio prese di sorpresa la dirigenza cinese. Soltanto nel 1990 il governo intervenne per legalizzarle e regolarle, assegnandone la proprietà collettivamente a tutti gli abitanti della città o del villaggio, ma conferendo ai governi locali il potere di nominare e licenziare i manager o di delegare quest’autorità a un’agenzia governativa. L’allocazione dei profitti delle imprese di municipalità e di villaggio è stata anch’essa regolata, imponendo di reinvestirne più della metà nell’impresa stessa per modernizzare ed espandere la produzione e incrementare i fondi per l’assistenza e gli incentivi, e di usare il resto per la costruzione di infrastrutture agricole, servizi tecnologici, assistenza pubblica e investimento in nuove imprese. Verso la fine degli anni Novanta ci sono stati dei tentativi di trasformare i diritti di proprietà vagamente definiti, in qualche forma di società per azioni o proprietà privata. Ma tutte le regole sono state difficili da applicare, e le imprese di municipalità e di villaggio sono ora caratterizzate da una varietà di assetti proprietari locali tale da rendere difficile la loro categorizzazione28.

Eppure, a dispetto della loro variabilità organizzativa, o forse grazie ad essa, le imprese di municipalità e di villaggio hanno contribuito in modo cruciale al successo delle riforme. Primo, il loro orientamento verso attività ad alta intensità di lavoro ha permesso loro di assorbire il surplus di lavoratori e di aumentare i redditi rurali senza un massiccio incremento delle migrazioni verso le aree urbane. Di fatto, la quota maggiore della mobilità del lavoro negli anni Ottanta è stata determinata dal trasferimento dei contadini dall’agricoltura al lavoro in imprese collettive nelle campagne. Secondo, poiché le imprese di municipalità e di villaggio erano relativamente poco regolate, il loro ingresso in numerosi mercati ha aumentato la pressione competitiva complessiva, spingendo tutte le imprese urbane, non solo quelle a proprietà statale, a migliorare le proprie performance29. Terzo, divenendo una tra le maggiori fonti di entrate fiscali nelle campagne, le imprese di municipalità e di villaggio hanno ridotto il peso delle tasse sui contadini, contribuendo così alla stabilità sociale30. Quarto, e per molti aspetti il più importante, reinvestendo i profitti e le rendite localmente, le imprese di municipalità e di villaggio a proprietà pubblica hanno ampliato il mercato interno, creando le condizioni per un nuovo ciclo di investimenti, creazione d’occupazione e divisione del lavoro. Come osservato da Lily Tsai, sulla base di ampie ricerche nella Cina rurale, la famiglia di origine o l’affiliazione con un particolare tempio religioso sono efficaci sostituti delle istituzioni formali, democratiche e burocratiche, nel vincolare le autorità governative locali a regole e norme informali che le obbligano a fornire il livello di beni pubblici necessario a mantenere la stabilità sociale31. La peculiare posizione delle imprese di municipalità e di villaggio come imprese a proprietà pubblica è dunque stata una caratteristica centrale dell’“età dell’oro” cinese (1978-1996) nell’era delle riforme del dopo-Mao.In nessun’altra economia di transizione” – nota Barry Naughton – “le imprese pubbliche hanno svolto il ruolo fondamentale che le imprese di municipalità e di villaggio hanno avuto in Cina32.

Certamente, l’intero settore delle imprese di municipalità e di villaggio ha subito straordinarie trasformazioni dopo la metà degli anni Novanta. Di fronte a un contesto più difficile (che includeva un cambiamento delle politiche governative verso la costituzione di istituzioni di regolamentazione e la crescita dell’integrazione dei mercati e della competizione) il tasso di crescita complessivo delle imprese di municipalità e di villaggio è significativamente rallentato. Molte sono state ristrutturate e trasformate in imprese a prevalente proprietà privata. Tuttavia, alcune imprese di municipalità e di villaggio a proprietà pubblica sono state convertite in società per azioni cooperative di proprietà dei lavoratori. Nel 2003 3,7 milioni di lavoratori erano impiegati in questo tipo di cooperative33. In molte aree il governo ha mantenuto una partecipazione nell’impresa, realizzando joint venture con manager privati. In effetti, può essere difficile determinare quali siano le imprese private, oggi, tra le imprese di municipalità e di villaggio cinesi, poiché i governi locali possono mantenere partecipazioni oscillanti tra il 20% e il 50%34.

Dopo il 1996 le imprese di municipalità e di villaggio hanno continuato a crescere, benché con tassi d’incremento più vicini alla crescita media del Pil. Il valore aggiunto delle imprese di municipalità e di villaggio come quota del Pil è aumentato dal 26% del 1996 al 30% del 1999, rimanendo poi stabile fino al 2004. Anche dopo la ristrutturazione, le imprese di municipalità e di villaggio sono rimaste radicate nei rapporti personali tra i membri delle comunità rurali, continuando a reinvestire nelle comunità locali35. Le nostre osservazioni nella provincia di Shan-dong nel 2005 confermano queste affermazioni. Quando uno degli autori di questo capitolo ha domandato al dirigente e proprietario di una impresa di comunità privatizzata – una fabbrica di cavi che è stata tra i maggiori produttori nazionali dalla metà degli anni Novanta – che cosa spingesse l’impresa a reinvestire i profitti localmente, anche dopo essere stata privatizzata, questi rispose che “anche se il governo incoraggia innanzi tutto a diventare ricchi, non puoi ignorare la tua gente se vuoi continuare a vivere nel villaggio. Qui le persone sono così vicine l’una all’altra che, semplicemente, non è possibile andare avanti se si è accusati di arricchirsi senza pensare alla propria gente”. In aggiunta a tali incentivi sociali, abbiamo scoperto che le ricompense politiche -divenire membri del Partito comunista, rappresentanti al Congresso del popolo, o essere nominati quadri rurali – costituiscono incentivi rilevanti che spingono i dirigenti delle imprese di comunità e gli imprenditori a reinvestire i profitti nelle comunità locali36.

Nel riassumere i punti di forza per lo sviluppo della Cina rispetto al Sudafricadove i contadini sono stati da lungo tempo espropriati dei mezzi di produzione, senza che una corrispondente domanda di lavoro li potesse assorbire nel lavoro salariato – Gillian Hart ha sottolineato il contributo delle imprese di municipalità e di villaggio nel reinvestire e ridistribuire i profitti nei circuiti locali, nelle scuole, cliniche e altre forme di consumo collettivo. Inoltre, una distribuzione relativamente egualitaria della terra tra le unità familiari ha permesso ai residenti di molte imprese di municipalità e di villaggio di procurarsi da vivere attraverso una combinazione di coltivazione intensiva di minuscoli lotti e di lavoro nell’industria e in altre attività non agricole. In realtà, “una forza chiave nello spingere la crescita [delle imprese di municipalità e di villaggio] è che, a differenza delle loro controparti urbane, esse non hanno bisogno di fornire alloggio, assistenza sanitaria, pensioni ed altri benefici sociali agli operai. In effetti, gran parte del costo di riproduzione del lavoro non è a carico delle imprese”.

Questo schema, Hart suggerisce, potrebbe essere osservato non soltanto in Cina ma anche a Taiwan:

Ciò che è specifico di Cina e Taiwan – e drammaticamente differente dal Sudafrica – sono le riforme per la redistribuzione della terra iniziate alla fine degli anni Quaranta che hanno effettivamente rotto il potere dei proprietari terrieri. Le forze politiche che hanno guidato le riforme agrarie in Cina e Taiwan erano strettamente legate, anche se opposte. Sia nella Cina socialista e post-socialista sia nella ‘capitalista’ Taiwan, le riforme che hanno definito le trasformazioni agrarie sono state affiancate da un’accumulazione industriale rapida e decentrata senza espropriazione della terra… Il fatto che alcuni degli sviluppi più spettacolari della produzione industriale nella seconda metà del ventesimo secolo abbiano avuto luogo senza l’espropriazione dei contadini-operai mette in evidenza le forme distintivamente ‘non-occidentali’ di accumulazione su cui si fonda la competizione globale… Inoltre, [ciò dovrebbe anche spingerci a] rivedere le assunzioni teleologiche sull’’accumulazione originaria’, in cui l’espropriazione della terra viene vista come naturalmente associata allo sviluppo capitalistico37.

Il suggerimento di Hart che il successo economico della Cina si fondi su uno schema di accumulazione senza espropriazione ci riporta alla questione se un’ampia classe contadina soltanto parzialmente separata dai mezzi di produzione della sua sussistenza, come quella cinese, costituisca un vantaggio competitivo maggiore nel favorire la crescita economica rispetto alle masse urbane e semi-urbane di disoccupati e sotto-occupati di cui l’Africa sub-sahariana e l’America latina sono più fornite rispetto alla Cina. La risposta che emerge dalla precedente analisi è che in effetti le cose stanno così, purché le politiche governative riescano a mobilitare i contadini come una fonte, non soltanto di abbondante offerta di lavoro a basso costo, ma anche e specialmente di energie imprenditoriali e capacità manageriali necessarie ad assorbire tale offerta in modi capaci di espandere il mercato nazionale e le opportunità della nuova divisione del lavoro. Benché le riforme di Deng siano state un grande successo sotto questo aspetto, la loro riuscita è dipesa in modo critico da due tradizioni che hanno preceduto e ispirato le medesime riforme: la tradizione della rivoluzione industriosa della Cina del diciottesimo secolo e la sua più recente tradizione della rivoluzione socialista. È a queste tradizioni che ora volgiamo l’attenzione.

3. L’eredità della rivoluzione industriosa e della rivoluzione socialista in Cina

Kaoru Sugihara ha sostenuto che nel diciottesimo secolo e nella prima parte del diciannovesimo la Cina abbia sperimentato una “rivoluzione industriosa, che ha prodotto una traiettoria tecnologica e industriale specifica dell’Asia orientale e definito le sue risposte alle sfide e alle opportunità della rivoluzione industriale occidentale. Particolarmente significativo, sotto questo riguardo, è stato lo sviluppo di un quadro istituzionale che assicurava l’assorbimento del lavoro, centrato sull’unità familiare e, in misura minore, sulla comunità di villaggio. Contrariamente all’opinione diffusa secondo cui la produzione su piccola scala non può sostenere lo sviluppo economico, questo quadro istituzionale ha avuto importanti vantaggi rispetto alla produzione su larga scala, a base di classe, che stava diventando dominante in Inghilterra nello stesso periodo. Mentre in Inghilterra gli operai venivano privati dell’opportunità di condividere le responsabilità dei manager e di sviluppare le capacità interpersonali necessarie per una specializzazione flessibile, nell’Asia orientale

la capacità di svolgere bene compiti molteplici, anziché la specializzazione in uno solo, era preferita, ed era incoraggiata la volontà di cooperare con altri membri della famiglia più che la promozione del talento individuale. Soprattutto, era importante per ogni membro della famiglia inserirsi nel sistema di lavoro agricolo, rispondendo con flessibilità a necessità ulteriori o d’emergenza, mostrando comprensione per i problemi relativi alla gestione della produzione, e anticipando o prevenendo potenziali problemi. Le capacità manageriali, con un generale background di abilità tecnica, erano attivamente sviluppate a livello familiare38.

Inoltre, i costi delle transazioni commerciali erano esigui, e relativamente basso il rischio legato alle innovazioni tecnologiche. Benché il quadro istituzionale dell’Asia orientale lasciasse poco spazio per grandi innovazioni, o per investimenti in capitale fisso o nel commercio di lunga distanza, forniva eccellenti opportunità per lo sviluppo di tecnologie ad alta intensità di lavoro che incrementavano il reddito pro-capite annuale, anche se non incrementavano il prodotto giornaliero o orario. La differenza tra questo tipo di sviluppo e quello percorso dall’Occidente stava in una forte preferenza verso l’utilizzazione di risorse umane anziché non-umane39.

L’osservazione di Hart che nelle imprese di municipalità e di villaggio la coltivazione intensiva di piccoli lotti di terra si combina con altre forme di lavoro nell’industria o comunque non-agricolo, e con investimenti e miglioramenti nella qualità del lavoro, supporta la posizione di Sugihara riguardo la persistenza dell’eredità della rivoluzione industriosa cinese. Di eguale importanza a tale riguardo è la tendenza a utilizzare il più pienamente possibile le risorse umane e di fornirle di competenze manageriali e tecnologiche generali in ambito familiare. Assieme ai successi in campo educativo della tradizione rivoluzionaria cinese, che sarà qui discussa, questa tendenza può essere osservata persino nelle industrie urbane, il cui principale vantaggio competitivo è stato individuato nell’uso di lavoro specializzato a basso costo come sostituto di macchinari costosi e manager. Nella fabbrica automobilistica di Wanfeng, vicino a Shanghai, per esempio, non si vede neppure un robot. Come in molte altre fabbriche cinesi, la catena di montaggio è occupata da schiere di giovani, appena arrivati dalle scuole tecniche, che lavorano con poco più che grandi trapani elettrici, chiavi inglesi e martelli gommati. I motori e i pannelli della carrozzeria, che nelle fabbriche occidentali si muoverebbero da una postazione all’altra su nastri trasportatori automatici, sono portati a mano o spinti su carrelli. Evitando l’uso di macchinari dal costo di molti milioni di dollari, Wanfeng può vendere la sua Jeep di lusso “Tribute” in Medio Oriente tra gli 8.000 e i 10.000 dollari40. Inoltre, come ci si aspetterebbe a partire dalle affermazioni di Sugihara, le imprese cinesi impiegano lavoro specializzato a basso costo per sostituire non solo macchinari costosi, ma anche costosi dirigenti. “Nonostante l’enorme numero di operai nelle fabbriche cinesi, i ranghi dei dirigenti che li controllano sono esigui per gli standard occidentali… un’indicazione di quanto [gli operai] siano incredibilmente capaci di auto-gestirsi41.

L’eredità della rivoluzione industriosa cinese avrebbe potuto non sopravvivere, e tanto meno produrre questo tipo di effetti sullo sviluppo, se non fosse stata rivitalizzata e trasformata dalla tradizione rivoluzionaria.

Nonostante tutti gli errori, il caos e la sofferenza umana degli anni di Mao, una trasformazione sbalorditiva ha avuto luogo in Cina nel corso dei precedenti tre decenni. Nel 1949 la Cina era un paese molto più povero e assai meno industrializzato di quanto fosse la Russia quando i bolscevichi fecero la loro rivoluzione trentadue anni prima. Già nel 1970 la Cina aveva una base industriale che impiegava qualcosa come 50 milioni di operai e pesava per più di metà del suo Pil. Il valore del suo prodotto industriale lordo era cresciuto di trentotto volte e quello dell’industria pesante di novanta volte. La Cina stava producendo aerei a reazione, moderne navi oceaniche, armi nucleari e missili balistici. Nelle campagne erano state realizzate gigantesche opere di irrigazione e controllo delle acque. Alla maggior parte della popolazione, prima analfabeta, era stato insegnato a leggere e scrivere. Un sistema sanitario pubblico era stato creato dove non ne era mai esistito alcuno. La speranza di vita media era aumentata da 35 a 65 anni. Tutto ciò è stato realizzato praticamente senza alcuna assistenza esterna – il che ha significato che la Cina è entrata nel suo periodo di riforme senza nessun debito estero42.

In realtà, come mostrano le figure 3 e 4, se il maggiore incremento nel reddito pro-capite della Cina (mostrato dal movimento verso l’alto delle curve) è avvenuto a partire dal 1980, il grosso del miglioramento dell’aspettativa di vita degli adulti e, in misura minore, dell’alfabetizzazione degli adulti (mostrato dallo spostamento verso destra delle curve), vale a dire delle condizioni essenziali di benessere, è avvenuto prima del 1980. Questa dinamica conferma la tesi che “senza le realizzazioni del regime di Mao le riforme di mercato del 1979 e oltre non avrebbero mai prodotto i risultati impressionanti che hanno avuto43.

A questo proposito vale la pena di sottolineare che il successo delle riforme economiche in Cina rispetto all’ex-Unione Sovietica dovrebbe essere riportato non tanto all’esistenza di un grande settore agricolo, come ritengono Sachs e Woo, o al gradualismo e all’attenzione per il benessere comune delle riforme, come pensano Stiglitz e altri. Tale successo dovrebbe essere ricondotto anche e specialmente alle fondamentali differenze tra la tradizione rivoluzionaria cinese e quella russa. Queste differenze hanno avuto origine nella specifica versione di marxismo-leninismo emersa per la prima volta con la formazione dell’Armata rossa nei tardi anni Venti e si sono pienamente sviluppate dopo che il Giappone conquistò le regioni costiere cinesi verso la fine degli anni Trenta. Come Meghnad Desai ha evidenziato, a differenza del partito bolscevico russo, i comunisti cinesi dovettero lottare per ottenere l’appoggio dei contadini per un decennio e mezzo prima di giungere al potere nel 1949. Nel corso di questa lotta essi “svilupparono il principio di dare risposte ai bisogni popolari entro i confini di un partito unico”44.

Quest’innovazione ideologica ha avuto due componenti principali. Una è stata la sostituzione degli aspetti insurrezionali della teoria di Lenin del partito d’avanguardia con la teoria di Mao della “linea di massa”, secondo cui il partito avrebbe dovuto essere non soltanto l’insegnante, ma anche l’allievo delle masse.Questa concezione di andare dalle-masse-alle-masse” – nota John Fairbank – “era in realtà una sorta di democrazia a misura della tradizione cinese, secondo la quale un funzionario della classe superiore governa bene quando ha a cuore le esigenze della popolazione locale, governando così nel suo interesse45. L’altra innovazione è stata la sostituzione della classe rivoluzionaria di Marx e Lenin – il proletariato urbano – con i contadini come principale base sociale della rivoluzione socialista. Negli anni Trenta il Partito comunista e l’Armata rossa cinese sono stati allontanati dai centri dell’espansione capitalistica dagli eserciti del Guo Min Dang, armati ed equipaggiati dall’Occidente, e si sono radicati tra i contadini delle aree povere e remote. Il risultato è stato, secondo la caratterizzazione di Mark Selden, “un processo di socializzazione a due vie”, attraverso il quale il partito-esercito ha fatto degli strati subalterni della società rurale cinese una potente forza rivoluzionaria, ed è stato a sua volta formato sulla base delle aspirazioni e dei valori di tali strati sociali46.

La combinazione di queste due caratteristiche con la spinta modernista del marxismo-leninismo ha costituito le fondamenta della tradizione rivoluzionaria cinese e aiuta a capire aspetti chiave del percorso di sviluppo della Cina prima e dopo le riforme. Prima di tutto, contribuisce a spiegare perché, nella Cina di Mao, in netto contrasto con l’Urss di Stalin, la modernizzazione sia stata perseguita non attraverso l’eliminazione dei contadini, ma attraverso il miglioramento delle loro condizioni economiche e di istruzione. Secondo, aiuta a spiegare perché, prima e dopo le riforme, la modernizzazione cinese si sia basata non soltanto sulla riproduzione al proprio interno della rivoluzione industriale occidentale, ma anche sul rinnovamento delle caratteristiche della rivoluzione industriosa, indigena e fondata sulle campagne. Terzo, contribuisce a spiegare perché, sotto Mao, l’emergere di una borghesia urbana di intellettuali e quadri dello Stato-partito sia stato combattuto attraverso la loro “rieducazione” nelle aree rurali. Infine, aiuta a spiegare perché le riforme di Deng furono lanciate prima nell’agricoltura, negli anni Ottanta – il decennio che si è dimostrato uno dei periodi più vivaci delle riforme cinesi – mentre la svolta politica di Jiang Zemin, negli anni Novanta, con uno sviluppo squilibrato a favore delle aree urbane, abbia creato forti tensioni in termini di welfare47, e perché il recente cambiamento di politiche sotto Hu Jintao si sia concentrato sull’espansione di servizi sanitari, istruzione e dei benefici sociali nelle aree rurali, sotto la bandiera di un “nuovo socialismo nelle campagne”.

Alle radici di questa complessa tradizione c’è il problema cruciale di come governare e sviluppare un paese con una popolazione rurale più grande della intera popolazione dell’Africa, dell’America latina o dell’Europa. Nessun altro paese, con l’eccezione dell’India, ha mai fronteggiato un problema anche solo lontanamente comparabile. Da questo punto di vista, per quanto dolorosa sia stata l’esperienza per gli intellettuali e i quadri urbani, la Rivoluzione culturale ha consolidato le fondamenta rurali della Rivoluzione cinese e preparato il terreno per il successo delle riforme economiche. È sufficiente ricordare che durante il corso della Rivoluzione culturale il funzionamento irregolare delle industrie urbane ha incrementato considerevolmente la domanda per i prodotti delle imprese agricole, portando a una notevole espansione delle comuni e delle imprese agricole collettive dalle quali più tardi sono emerse molte delle imprese di municipalità e di villaggio48. Allo stesso tempo, la Rivoluzione culturale ha messo in pericolo non soltanto il potere dei quadri dello Stato-partito e i successi politici della Rivoluzione cinese, ma buona parte della componente modernista della tradizione rivoluzionaria. La sua condanna, a favore delle riforme economiche, è quindi stata considerata essenziale per rilanciare tale componente. Dopo la metà degli anni Novanta, tuttavia, è stato il successo stesso di tale rilancio a minacciare la tradizione rivoluzionaria. Due sviluppi in particolare hanno segnalato questa tendenza: l’enorme aumento nella disuguaglianza di reddito e il crescente malcontento popolare sulle procedure e gli esiti delle riforme.

L’enorme crescita della disuguaglianza di reddito tra le aree rurali e urbane, e all’interno di queste, che ha accompagnato il passaggio della Cina a un’economia di mercato è un fatto ben documentato. Il coefficiente di Gini della Cina, per esempio, è passato da un valore molto basso di 0,28 nel 1983, a uno piuttosto alto di 0.45 nel 2001 e di 0.47 nel 200749. Fino ai primi anni Novanta questa tendenza ha potuto essere presentata come il risultato d’una strategia di sviluppo non bilanciato che creava opportunità di avanzamento per la maggior parte della popolazione. Per esempio, i dati della Banca mondiale suggeriscono che la riduzione della povertà è continuata ininterrotta – la percentuale della popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno è caduta da oltre il 60% nel 1980 a meno del 20% nel 1997. L’incremento nella povertà relativa che risulta dalla crescente disuguaglianza era quindi accompagnato da una diminuzione della povertà assoluta50. Inoltre, l’incremento della disuguaglianza – come misurato da indicatori sintetici come il Gini – riflette in gran parte un miglioramento (anziché un deteriorarsi) della posizione dei gruppi a medio reddito. Ugualmente importante, la crescita della disuguaglianza è stata accompagnata da una crescita della mobilità inter-generazionale (lavoro dei genitori/lavoro dei figli) e intra-generazionale (prima occupazione/occupazione attuale). Gli individui con lavori a basso reddito hanno perciò avuto maggiori possibilità che nel periodo pre-riforme di volgere a loro favore il divario di reddito spostandosi verso un’occupazione meglio retribuita51.

In queste circostanze, la resistenza all’aumento della disuguaglianza è stata limitata e ha potuto essere facilmente repressa. Col tempo, tuttavia, la crescente disuguaglianza si è scontrata con la tradizione rivoluzionaria, minando seriamente la stabilità sociale. Benché le tradizioni della “linea di massa” e del “processo di socializzazione a due vie” abbiano apparentemente svolto un ruolo nelle riforme stesse52, più i quadri e i funzionari di partito provinciali hanno riorientato le loro energie imprenditoriali verso la sfera economica e si sono dedicati all’accumulazione e all’espropriazione, più la tradizione della “linea di massa” è divenuta una finzione, e il “processo di socializzazione a due vie” tra il partito-Stato e gli strati subalterni della società cinese è stato sostituito da un processo analogo tra il partito-Stato e l’emergente borghesia. Eppure, la tradizione rivoluzionaria ha dato agli strati subalterni della Cina una fiducia in se stessi e una combattività, con una certa legittimità conferita dal persistente ossequio pubblico del partito-Stato verso tale tradizione, con pochi paralleli altrove nel Sud del mondo53.

La più recente manifestazione di questa combattività e fiducia in se stessi è venuta dall’impennata delle lotte sociali sia nelle aree urbane sia in quelle rurali. I casi ufficialmente riportati di “disturbi dell’ordine pubblico” – un riferimento a proteste, rivolte ed altre forme di agitazione sociale – sono aumentati da circa 10.000 nel 1993, a 50.000 nel 2002, 58.000 nel 2003, 74.000 nel 2004 fino a 87.000 nel 2005. Nelle aree rurali, fino al 2000, le principali lamentele che spingevano all’azione di massa erano le tasse, le tariffe e vari altri “oneri”. Più recentemente, il cambiamento di destinazione della terra dall’agricoltura allo sviluppo industriale, edilizio e infrastrutturale, il degrado ambientale e la corruzione dei funzionari locali del partito e del governo sono divenute le questioni più incendiarie. Episodi come la rivolta di Dongyang del 2005, contro l’inquinamento da parte di una fabbrica di pesticidi, le cui operazioni sono state sospese, sono entrati a far parte del folklore cinese quale prova che una determinata azione di massa può obbligare le autorità a far marcia indietro e tenere conto dei bisogni popolari54.

Nelle aree urbane, dalla fine degli anni Novanta, la “vecchia” classe operaia delle imprese statali ha reagito ai licenziamenti di massa con un’ondata di proteste che hanno fatto appello ai criteri di giustizia della tradizione socialista e al contratto sociale della “ciotola di riso d’acciaio” tra la classe operaia e lo Stato che è prevalso nei primi quattro decenni della Repubblica popolare cinese. Inizialmente, una miscela di repressione e concessioni ha avuto qualche successo nel contenere quest’ondata di proteste. Più recentemente, tuttavia, una serie senza precedenti di scioperi ha segnalato la diffusione delle agitazioni nella “nuova” classe operaia composta prevalentemente da giovani migranti, che costituisce la spina dorsale delle industrie cinesi rivolte all’esportazione. Combinate con la crescente agitazione tra i lavoratori urbani nel settore dei servizi, queste due ondate stanno cancellando lo stereotipo occidentale secondo cui “non c’è alcun movimento dei lavoratori in Cina:” “ora si può andare in quasi qualsiasi città del paese” – nota Robin Munro – “e si troveranno diverse proteste collettive dei lavoratori in corso nello stesso momento”. È un movimento spontaneo e relativamente rudimentale; ma così era il movimento dei lavoratori negli Stati Uniti durante la sua età dell’oro, negli anni Trenta55.

Quest’esplosione dell’agitazione sociale nelle aree urbane e rurali ha spinto la direzione del Partito comunista cinese a cercare uno sviluppo più equilibrato e sostenibile tra le aree urbane e rurali, tra le diverse regioni e tra l’economia e la società, e a introdurre una nuova legislazione del lavoro mirante ad allargare i diritti dei lavoratori56. L’attuale governo di Hu Jintao e Wen Jiabao sta facendo grandi sforzi per affrontare le questioni rurali, facendo ancora una volta dello sviluppo delle campagne la priorità dell’agenda politica. Tra le altre cose, il governo ha abolito le tasse agricole, ha iniziato a ridurre, o non richiedere più, il pagamento per l’istruzione nelle aree rurali e ha sperimentato un programma di assicurazione sanitaria di base che potrebbe coprire l’intera popolazione rurale entro il 201057.

In risposta alla crescita delle agitazioni e del malcontento tra i gruppi svantaggiati nel decennio passato, il Partito comunista cinese ha chiesto ai propri quadri di tornare alla tradizione rivoluzionaria della “linea di massa”, di ascoltare le richieste e le lamentele delle persone e di aiutare a risolvere i loro problemi. Come risultato, funzionari delle amministrazioni di comuni, province e distretti si sono regolarmente incontrati con i cittadini e hanno visitato più spesso le comunità locali per affrontare i problemi che minacciavano la stabilità sociale58. La Cina ha già tenuto elezioni di base in più di 660.000 villaggi, benché siano spesso manipolate. Ci sono piccoli segni di cambiamento, con grandi città, come Nanjing e Guangzhou, che stanno aprendo posizioni politiche più importanti alla competizione pubblica. Recentemente, Zhou Tianyong, vice-capo della ricerca alla Scuola centrale di partito, ha sostenuto che entro il 2020 la Cina completerà le sue riforme politiche e istituzionali con la realizzazione di un piano per costruire, nell’arco di dodici anni, “la partecipazione pubblica democratica a tutti i livelli di governo59.

Resta da vedere se questi cambiamenti potranno salvare la tradizione socialista, dare potere al popolo e orientare lo sviluppo in una direzione più egualitaria e sostenibile. Ma sono cambiamenti che segnalano perlomeno uno spostamento dall’enfasi passata sulla crescita fine a se stessa a un più forte accento sulla qualità della vita, il consumo e la sicurezza personale. Inoltre, l’ascesa cinese sta già ponendo una seria sfida al sempre più screditatoWashington consensus. Rivolgiamo ora l’attenzione alla natura e alle prospettive future di questa sfida60.

4. Verso una nuova Bandung?

Joshua Cooper Ramo, membro del Council on Foreign Relations degli Stati uniti e del Foreign Policy Centre in Gran Bretagna, ha caratterizzato l’apparire della sfida cinese come la sostituzione del Washington consensus con un Beijing consensus – l’emergenza, guidata dalla Cina, di “un percorso per altre nazioni nel mondo” non semplicemente verso lo sviluppo ma anche “per inserirsi nell’ordine internazionale in modo da consentir loro di essere davvero indipendenti, di proteggere il proprio modo di vita e le proprie scelte politiche”.

Il Washington consensus… ha lasciato una scia di economie distrutte e risentimenti in tutto il globo. Il nuovo approccio allo sviluppo della Cina è… abbastanza flessibile da essere a mala pena classificabile come una dottrina. Non crede in soluzioni uniformi per ogni situazione. È definito… da una vivace difesa dei confini e degli interessi nazionali, e da una ponderata accumulazione di strumenti per la proiezione di potenza asimmetrica… Mentre gli Stati Uniti stanno perseguendo politiche unilaterali per proteggere i propri interessi, la Cina sta mettendo assieme le risorse per eclissare gli Usa in molte aree chiave degli affari internazionali, costruendo un contesto che renderà l’azione egemonica statunitense più difficile… La via cinese allo sviluppo e al potere è, naturalmente, irripetibile da altri paesi.

Essa rimane piena di contraddizioni, tensioni e pericoli imprevisti. Tuttavia, molti elementi della crescita del paese hanno suscitato l’interesse del mondo in via di sviluppo61.

Tra questi elementi, Ramo menziona un modello di sviluppo nel quale “le massicce contraddizioni dello sviluppo cinese” rendono “la sostenibilità e l’uguaglianza… considerazioni primarie”, e “una teoria dell’autodeterminazione… che mette l’accento sull’uso dei propri strumenti per influenzare le grandi potenze egemoniche, che potrebbero essere tentate di pestarti i piedi”62. La nozione di Ramo di un Beijing consensus è stata criticata per aver supposto l’esistenza di un consenso dove non ne esiste alcuno, o per aver stabilito un contrasto con il Washington consensus che alcuni osservatori considerano eccessivo63. Entrambe queste critiche ci sembrano inappropriate, perché Ramo stesso sottolinea la varietà dei percorsi di sviluppo implicita nel Beijing consensus, in netto contrasto con la dottrina uguale per tutti del Washington consensus. Tuttavia, Ramo non ci dice se l’ascesa cinese potrà effettivamente contribuire a un rafforzamento collettivo del Sud del mondo, e non soltanto di una o più delle nazioni che ne fanno parte. La questione rilevante entro questo contesto è in quali circostanze il Beijing consensus potrebbe condurre alla formazione di una nuova e più efficace Bandung – vale a dire una nuova versione dell’alleanza del Terzo mondo degli anni Cinquanta e Sessanta, più adeguata della vecchia a contrastare la subordinazione economica e politica degli Stati del Sud a quelli del Nord in un’era di integrazione economica senza precedenti64.

La tentazione, per la Cina, di accontentarsi d’essere cooptata in un mondo dominato dagli Stati uniti o dal Nord, e per gli altri paesi del Sud di cercare o accettare il sostegno del Nord nelle reciproche rivalità, non dovrebbe essere sottostimata. Tuttavia, non dovremmo nemmeno sopravvalutare la capacità degli Stati uniti, anche in collusione con l’Europa, di riuscire ancora una volta a impedire l’avanzata del Sud, come hanno fatto per quasi vent’anni con la contro-rivoluzione neoliberista. Per prima cosa, la sconfitta in Iraq ha confermato i limiti dei mezzi coercitivi per imporre la volontà del Nord contro la resistenza del Sud. Cosa più importante, in un mondo capitalistico, le basi finanziarie del predominio degli Stati uniti e del Nord si fondano su un terreno sempre meno sicuro. Un punto di svolta cruciale a questo riguardo è stata la crisi finanziaria asiatica del 1997-8. Robert Wade e Frank Veneroso hanno sostenuto che questa crisi abbia confermato la validità del detto che “nel corso di una depressione le proprietà tornano ai loro legittimi proprietari”.

La combinazione di massicce svalutazioni, liberalizzazioni finanziarie forzate dall’Fmi, e riprese economiche favorite dai suoi interventi potrebbero aver prodotto il trasferimento più grande degli ultimi cinquantanni, a livello mondiale in tempo di pace, di beni economici da proprietari nazionali a stranieri, facendo impallidire i trasferimenti avvenuti nell’America latina negli anni Ottanta, o in Messico dopo il 199465.

Focalizzandosi sugli effetti immediati della crisi, questa diagnosi manca, nondimeno, di notarne gli effetti a lungo termine sulle relazioni Nord-Sud. Come mostra la figura 2, la crisi del 1997-8 è stata seguita dalla grande divaricazione tra il deficit del Nord e il surplus del resto del mondo nei conti correnti delle rispettive bilance dei pagamenti. Gran parte di questo surplus si dirige ancora verso il porto franco finanziario degli Usa, sia per finanziarne il crescente deficit, sia per essere reinvestito in giro per il mondo, compreso il Sud del mondo, a beneficio degli Stati uniti. Ma il fatto fondamentale che sta dietro la divaricazione è che il Nord, specialmente gli Stati uniti, è in grado di produrre sempre meno beni e servizi a prezzi più bassi del resto del mondo. Ancora più importante, una quota significativa e crescente di tale surplus non passa più attraverso gli Stati uniti; è utilizzato per accumulare riserve valutarie o si dirige direttamente verso altre destinazioni nel Sud, indebolendo così il controllo sui paesi del Sud dell’Fmi e delle altre istituzioni finanziarie controllate dal Nord66. Pieni di liquidità e desiderosi di riprendere il controllo delle loro politiche economiche, i paesi del Sud “hanno “praticato le loro scelte, rimborsato i debiti con l’Fmi ed evitato di seguirne i consigli”67. Gli incontri annuali dell’Fmi sono così divenuti “eventi solitari. Gli editoriali nella stampa finanziaria hanno cominciato a chiedersi se il Fondo abbia ancora uno scopo”. E mentre i banchieri centrali pro-mercato iniziavano, in effetti, a nazionalizzare le banche, “la difesa del libero mercato da parte dell’Occidente è stata irrisa da parte degli Stati che si erano opposti all’entusiasmo sulla ‘fine del governo’ dei globalizzatori. La globalizzazione, ben lungi dall’aver seppellito lo Stato, ora dipende dagli Stati per il suo salvataggio”68.

Nonostante i suoi massicci acquisti di buoni del tesoro Usa, la Cina ha giocato un ruolo guida sia nel riorientare il surplus del Sud verso destinazioni del Sud, sia nel fornire a paesi del Sud vicini e distanti alternative appetibili al commercio, l’investimento e l’assistenza dei paesi e delle istituzioni finanziarie del Nord. “Sta entrando in campo un giocatore molto grosso, che ha il potenziale per cambiare il panorama degli aiuti allo sviluppo”, notava nel 2006 il direttore per le Filippine dell’Asian Development Bank poco dopo che la Cina aveva annunciato un pacchetto straordinario di prestiti alle Filippine per due miliardi di dollari l’anno per tre anni, che facevano apparire ben miseri i 200 milioni offerti dalla Banca Mondiale e dall’Asian Development Bank, e superavano il prestito di un miliardo di dollari in corso di negoziazione con il Giappone, proteggendo le Filippine dalle critiche da parte di Washington dopo che la presidente Arroyo aveva ritirato le truppe dall’Iraq. Questo è stato solo uno dei molti accordi simili nei quali la Cina ha battuto le agenzie del Nord, offrendo ai paesi del Sud termini più generosi per l’accesso alle loro risorse naturali; prestiti più ingenti con meno vincoli politici, e senza costosi compensi per i consulenti finanziari; e grandi e complessi progetti infrastrutturali in aree remote, a un costo inferiore fino alla metà rispetto ai concorrenti del Nord69.

A complemento e rinforzo di queste iniziative cinesi, i paesi produttori di petrolio hanno reindirizzato i loro surplus verso il Sud. È stato di grande significato politico e simbolico l’uso da parte del Venezuela dei profitti straordinari dovuti all’alto prezzo del petrolio per assumere il ruolo di nuovo “prestatore di ultima istanza” per i paesi dell’America latina, con ciò riducendo l’influenza di Washington, storicamente enorme, sulle politiche economiche nella regione70. Di eguale importanza e potenzialmente più distruttivo per il predominio finanziario del Nord è stato l’interesse che i paesi dell’Asia occidentale hanno recentemente mostrato nel reindirizzare almeno parte dei loro surplus dagli Stati uniti e dall’Europa all’Asia meridionale e orientale. Le ragioni sono in parte nell’impopolarità della guerra in Iraq e nelle reazioni interne agli Usa, come quella che ha obbligato la società portuale di Dubai a vendere tutte le proprietà americane dopo che ha comprato la società britannica P&O. Ma la ragione più importante è economica: la Cina e tutte le economie asiatiche in rapida crescita desiderano il petrolio dell’Asia occidentale, e i capitali e la liquidità generati da tale petrolio sono in cerca di investimenti più profittevoli dei buoni del tesoro statunitensi71.

Quando nel maggio del 2006 il primo ministro indiano, Man-mohan Singh, all’incontro annuale dell’Asian Development Bank, ha raccomandato alle nazioni asiatiche di reindirizzare i propri surplus verso progetti di sviluppo asiatici, un osservatore statunitense trovò il discorso “sbalorditivo” – “il presagio della fine del dollaro e dell’egemonia americana72. In realtà, che i paesi dell’Asia e del Sud continuino a usare il dollaro non è la questione più importante. Proprio come la sterlina continuò a essere usata come valuta internazionale tre o quattro decenni dopo la fine dell’egemonia britannica, così potrebbe capitare anche al dollaro. Ciò che realmente conta per il futuro delle relazioni Nord-Sud è se i paesi del Sud continueranno a mettere i surplus delle proprie bilance dei pagamenti a disposizione della agenzie controllate dagli Stati uniti, perché siano trasformati in strumenti del dominio del Nord, o se invece li useranno per l’emancipazione del Sud. Da questo punto di vista, non c’è nulla di sbalorditivo nella dichiarazione di Singh, che conferma semplicemente una pratica già in atto. Ciò che è veramente sbalorditivo è la mancanza di consapevolezza – nel Sud non meno che nel Nord – di quanto profondamente abbia fallito la contro-rivoluzione neoliberista, creando condizioni altamente favorevoli per l’emergere di una nuova e più potente Bandung.

Le fondamenta della vecchia Bandung erano strettamente ideologico-politiche e, come tali, furono facilmente distrutte dalla contro-rivoluzione neoliberista. Le fondamenta della Bandung che potrebbe ora emergere, accanto a una componente ideologico-politica, sono innanzitutto economiche e, come tali, molto più solide. Come disse in un discorso del 2003 Yashwant Sinha, ex-ministro degli esteri indiano: “In passato, il coinvolgimento dell’India con gran parte dell’Asia… si basava su una concezione idealistica di fratellanza asiatica, basata su legami culturali e sulle condivise esperienze del colonialismo”. La dinamica asiatica di oggi, di contro, “è determinata… tanto dal commercio, gli investimenti e la produzione quanto dalla storia e dalla cultura73. L’affermazione di Sinha si applica non solo all’Asia, ma al Sud del mondo in generale. Sotto la vecchia Bandung, la solidarietà politicamente e ideologicamente motivata del Terzo mondo non aveva fondamento economico. Essa doveva andare controcorrente rispetto a processi del mercato globale sui quali i paesi del Terzo mondo avevano poco o nessun controllo. Oggi, di contro, la rapida espansione di commercio, investimenti e cooperazione Sud-Sud in una crescente varietà di campi – inclusa l’integrazione economica regionale, la sicurezza nazionale, la salute e l’ambiente – si fonda anzitutto sulla crescente competitività dei paesi del Sud nella produzione mondiale. Benché concezioni idealistiche della solidarietà del Terzo mondo giochino ancora un ruolo, raramente esse sono il solo fattore, o il principale, della cooperazione Sud-Sud74.

Quattro paesi in particolare – Cina, India, Brasile e Sudafrica (Cibs) – stanno facendo da battistrada in questa direzione. Oltre a rappresentare il 40% della popolazione mondiale, questi paesi stanno congiuntamente emergendo come importanti fonti di capitale, tecnologia e domanda per i prodotti delle regioni circostanti e del Sud del mondo nel suo insieme75. Nonostante il loro ruolo guida nello spostare i rapporti di forza economici e politici a favore del Sud del mondo, i Cibs sono stati criticati per aver stabilito relazioni con altri paesi del Sud che sono simili, per motivazioni ed esiti, alle tradizionali relazioni Nord-Sud. La Cina in particolare è stata accusata di aver stabilito con i propri partner commerciali rapporti che riproducono la loro specializzazione nella produzione primaria, a spese della manifattura e di altre attività ad alto valore aggiunto76.

Nella misura in cui evidenziano come fondamento della cooperazione del Sud, l’interesse nazionale anziché l’idealistica solidarietà del Terzo mondo, queste critiche sono largamente corrette, anche se mancano di cogliere i punti di forza della nuova Bandung rispetto alla vecchia. Esse non notano, prima di tutto, la sovversione delle fondamenta strutturali della gerarchia globale di ricchezza e potere implicata dall’emerge-re dei Cibs, e specialmente della Cina, come concorrenti del Nord nella produzione, commercio e finanza mondiali. Non soltanto questi paesi, rispetto a quelli del Nord, forniscono migliori condizioni commerciali, di aiuto e investimento agli altri paesi del Sud – incluse sostanziali cancellazioni del debito77; ma nel far ciò essi intensificano le pressioni competitive perché anche i paesi del Nord offrano termini migliori di quanto non avrebbero altrimenti fatto. In stretta connessione, critiche che enfatizzano la specializzazione nella produzione primaria dei partner commerciali dell’India e della Cina non considerano il rovesciamento delle ragioni di scambio tra manifattura e produzione primaria causato dalla convergenza industriale tra Nord e Sud. Proprio come l’“industrializzazione” ha smesso di essere sinonimo di “sviluppo”, così la specializzazione nella produzione primaria in quanto tale potrebbe non essere più sinonimo di “sottosviluppo”78.

Cosa più importante, nella misura in cui le critiche in questione evidenziano le pratiche di sfruttamento sociale che i Cibs possono mettere in atto a casa propria, o incoraggiare altrove attraverso i loro commerci e investimenti esteri, esse non tengono conto del fatto che l’esclusione da commercio e produzione, piuttosto che lo sfruttamento di per sé, è spesso la principale causa del “sottosviluppo” del Sud. Tali critiche non tengono conto neanche del fatto che le relazioni di potere giocano un ruolo cruciale nel definire i criteri di moralità nell’economia politica globale. Oggi questi criteri sono per la maggior parte definiti da governi e istituzioni dei paesi che occupano i gradini più alti nella gerarchia globale della ricchezza. L’emergere dei Cibs potrebbe creare una situazione in cui i governi e le istituzioni di quei paesi che si trovano nelle posizioni intermedie e inferiori potrebbero almeno avere una voce. A questo proposito è cruciale ciò che la Cina e l’India – che ospitano da sole più di un terzo della popolazione mondiale – sceglieranno di fare. Se dovessero scegliere di cooperare tra loro – come sull’“International Herald Tribune” ha commentato Howard French riflettendo sui grandi investimenti della Cina e dell’India nelle reciproche economie – “i giorni in cui il confortevole club dei ricchi – gli Stati uniti, le più forti economie dell’Europa occidentale e il Giappone – decide la strada del resto del mondo, dando istruzioni e assegnando voti, [arriverebbero] presto al tramonto79.

Il crollo di Wall Street del 2008 ha accelerato il collasso del Washington consensus. Mentre il capitalismo neoliberista di stile americano – con un intervento pubblico limitato, regolamentazioni minime e l’allocazione del credito secondo regole di mercato – perdeva credibilità, molti commentatori si chiedevano se il capitalismo guidato dallo Stato cinese potesse essere un’alternativa. Come notato da Huang,

Nel contemplare le alternative al decaduto modello americano, alcuni hanno guardato alla Cina, dove i mercati sono strettamente regolati e le istituzioni finanziarie controllate dallo Stato. Di fronte alle conseguenze del crollo di Wall Street, si preoccupava Francis Fukuyama su Newsweek, il capitalismo guidato dallo stato della Cina “sembra sempre più attraente”. Il giornalista del Washington Post David Ignatius ha salutato l’avvento di un “nuovo interventismo” ispirato al Confucianesimo; citando l’ambiguo tributo di Richard Nixon a John Maynard Keynes, Ignatius ha dichiarato, “adesso siamo tutti cinesi”80.

Allo stesso tempo, il fatto che l’economia cinese non sia stata immune dalla crisi economica globale che ha avuto il suo epicentro negli Stati uniti – specialmente per il declino delle esportazioni e il rallentamento della crescita economica – ha spinto a riconsiderare il modello di crescita basato sull’esportazione adottato dalla Cina negli anni Novanta82. I governanti cinesi sono divenuti consapevoli dei vincoli imposti alla crescita dai bassi livelli dei consumi interni. L’attuale crisi economica potrebbe rappresentare ciò che era necessario per indurli a muovere verso una via di sviluppo più equilibrata, sostenuta dal consumo domestico. Un tale spostamento implicherebbe inevitabilmente una recessione, che tuttavia sembra un passaggio necessario nella direzione di uno sviluppo sostenibile a lungo termine. Come Naughton prevedeva nel 2006, “centinaia di imprese falliranno, le tensioni commerciali aumenteranno ulteriormente con i tentativi di vendere sottocosto sui mercati mondiali e l’attitudine generale verso la Cina s’invertirà, da positiva a negativa83. Ma, come dovrebbe esser chiaro da questo capitolo, ci sono anche buone ragioni per prevedere che la crisi economica del 2008 possa alla fine condurre alla ripresa della crescita cinese su fondamenta più sostenibili nel lungo termine, e a migliori prospettive per una nuova Bandung.

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NOTE

* In pubblicazione in J. Shefner e P. Fernàndez-Kelly (a cura di), Globalization and Beyond: New Examinations of Global Power and its Alternatives, Penn State University Press, 2010. Vorremmo ringraziare Astra Bonini, Kevan Harris e Daniel Pasciuti per l’aiuto nel presentare le statistiche e Kevan Harris, Jon Shefner, Beverly Silver e gli studenti nel seminario Research in International Develpment alla John Hopkins University per i loro commenti sulle prime bozze del capitolo (versione del 16 marzo 2009). Traduzione dall’inglese di Guido Parietti.
1  Prendiamo a prestito l’espressione “strana morte” dalla classica trattazione di George Dangerfield, pubblicata per la prima volta nel 1935, del drammatico cambiamento politico che investì l’Inghilterra liberale in un momento di apparentemente incontrastata supremazia economica e politica.
2 Bello (2007).
3  Sull’ascesa e la caduta di tali credenze nel tardo diciannovesimo e nel primo ventesimo secolo, si veda la classica opera di Polanyi (2000). Per una comparazione della svolta neoliberista della fine del ventesimo secolo con la sua antecedente del tardo diciannovesimo, si veda Silver e Arrighi (2003).
4  McMichael (2000) e Arrighi (2002). Come Hans Singer (1997) ha indicato, la descrizione delle teorie dello sviluppo nell’era post-bellica come stataliste e auto-centrate è corretta, ma nessuna delle due caratterizzazioni aveva le implicazioni negative acquisite poi negli anni Ottanta.
5 Si vedano, tra gli altri, Toye (1993); Gilpin (2001: 78-79, 218-220); Glyn (2007: 53-54).
6 Citato in Harvey (2000: 7).
7  Albert Berry e John Serieux come citati in Berry (2005: 17). Su come questioni di misurazione influenzino la trattazione delle tendenze nella disuguaglianza del reddito a livello mondiale, si veda Wade (2004), Korzeniewicz e Moran (2006).
8 Berry (2005: 18).
9 Così, mentre la porzione del reddito mondiale dei gruppi a medio e medio-alto reddito (decili 7-9) è scesa dal 42,1% al 36,7%, quella dei gruppi a basso reddito (decili 1-6) è aumentata dall’11,3% al 14%, mentre la parte dei gruppi ad alto reddito (decile 10) è aumentata dal 46,6% al 49,9%. Ciò calcolato dai dati forniti in Berry (2005: 18).
10  I dati della Banca mondiale sono soggetti a frequenti e inesplicabili revisioni che li rendono particolarmente inaffidabili nel misurare le variazioni a breve termine tra paesi specifici. Questa inaffidabilità, comunque, ha scarso effetto sulle tendenze a lungo termine tra le
regioni mostrate nella tabella 1.
11 Freeman (2005).
12 Sachs e Woo (1996: 3).
13 Rawski (1999: 141).
14 Si veda, per esempio, Brenner (1981: 1, 4-6; 1977: 35-6).
15 Per un esame critico di tali posizioni, si veda Wade (2004). L’idea che la Cina abbia aderito alle prescrizioni neoliberiste del Washington consensus è stata tanto comune tra gli intellettuali di sinistra quanto tra gli stessi promotori del consensus. Deng Xiaoping, per esempio, compare preminentemente, accanto a Reagan, Pinochet e Thatcher, sulla copertina di Breve storia del neoliberismo di Harvey, e un intero capitolo del libro è dedicato al “Neoliberismo ‘con caratteristiche cinesi’”. Più esplicitamente, Peter Kwong (2006: 1-2) ha accostato lo slogan di Deng “lasciamo che alcuni divengano ricchi prima, cosicché altri possano divenirlo dopo” all’ idea di Reagan che i benefici economici scendano dai ricchi ai poveri(trickle-down economics). Se i due slogan suonano allo stesso modo, ci viene detto, è perché sia Reagan sia Deng “erano grandi sostenitori del guru neoliberista Milton Friedman”. La nostra critica delle tesi dei promotori del Washington consensus si applica anche alle posizioni di Harvey e Kwong.
16  GALBRAITH (2004).
17  Stiglitz (2006: 186-187). Per conclusioni simili, raggiunte sulla base di evidenze statistiche, si veda Popov (2007).
18 Au (2005: 10-13).
19  Guo (2005: 154-5); Au (2005); Shenkar (2005: 5); P. Aiyar, Excellence in Educa-tion: The Chinese Way, in “The Hindu”, 17 febbraio 2006; H. W. French, China Luring Scholars to Make Universities Great, in “The New York Times”, 24 ottobre 2005; C. Buckley, Let a Thousand Ideas Flower: China Is a New Hotbed of Research, in “The New York Times”, 13 settembre 2004.
20  Sui vari aspetti di questa relazione del governo cinese con il capitale estero, si veda Arrighi (2008: cap. 12).
21 Popov (2007: 35), citando dati forniti da Dani Rodrik. A ciò dovremmo aggiungere che i recenti cambiamenti nelle leggi fiscali cinesi per le imprese mostrano che Pechino è assai meno preoccupata che in passato d’importare conoscenze tecnologiche da società straniere. Per quasi trent’anni, gli investimenti diretti stranieri sono stati incoraggiati da una tassazione del 15%, a fronte di un massimo del 33% sulle imprese locali. Con alcune eccezioni per le imprese ad alta tecnologia e quelle “a basso profitto”, entro cinque anni tutte le imprese pagheranno lo stesso tasso del 25%. “Se gli effetti pratici della legge saranno trascurabili, il valore simbolico è immenso. Segnala la fine del periodo in cui il management e le tecnologie straniere erano preferite alle competenze interne cinesi” (A. Wolfe, China’s Priorities on Display at the National People’s Congress, in “The Power and Interest News Report (PINR)”, 21 Marzo 2007).
22 Cfr., tra gli altri, Chan (2000); Tang (2003-4); Lee e Selden (2007). Schweickart (2005).
23 SCHWEICKART (2005).

24  D. Barboza, Labor Shortage in China May Lead to Trade Shift, in “The New York Times”, 3 Aprile 2006; T. Fuller, Worker Shortage in China: Are Higher Prices Ahead?, in “Herald Tribune”, 20 Aprile 2005; S. Montlake, China’s Factories Hit an Unlikely Shortage: Labor, in “Christian Science Monitor”, 1 Maggio 2006; China’s People Problem, in “The Eco-nomist”, 14 Aprile 2005.

25 Cai, Park e Zhao (2004); Unger (2002).
26 Oi (1999); Lin (1995); Whiting (2001); Wang (2005: 179); Tsai (2004); Lin e Yao (non disponibile)
27  China Statistical Yearbook 2005 (Zhongguo tongji nianjian 2005) Beijing: China Sta-
tistics Press and China Agricultural Yearbook 2005 (Zhongguo nongye tongji nianjian 2005) Beijing: China Agricultural Press.
28 Woo (1999: 129-137); Bouckaert (2005); Hart-Landsberg e Burkett (2004: 35); Lin e Yao (n. d.).
29 Cai, Park e Zhao (2004).
30 Wang (2005: 177-8); Bernstein e Lu (2003).
31 Lin e Yao (n. d.); Tsai (2007).
32 Naughton (2007: 287).
33 TVE Yearbook, 2004, come citato in Naughton (2007: 291).
34 Per i dettagli sui cambiamenti dell’ambiente esterno e del processo di ristrutturazione delle imprese di municipalità e di villaggio dopo la metà degli anni Novanta, cfr. Naughton (2007: 285-293).
35 Naughton (2007: 286).
36  Molti studi hanno mostrato che il Partito comunista e lo Stato cinese sono stati in grado di controllare il numero crescente di imprenditori privati incorporandoli nelle istituzioni formali. Ciò ha portato molti a ritenere che i capitalisti cinesi non siano davvero autonomi dallo Stato. Cfr., tra gli altri, Tsai (2007), Dickson (2003), Pearson (2002), Solinger (1992), Wank (1999).
37 Hart (2002: 199-201).
38 Sugihara (2003: 79-82, 87-90, 94, 117 n. 2).
39 Sugihara (2003: 87).
40 Fishman (2005: 226). Per altri esempi di sostituzione di macchinari costosi con lavoro a basso costo cfr- G. Stalk e D. Young, Globalization Cost Advantage, in “Washington Times”, 24 Agosto 2004 e A. Taylor, A Tale of Two Factories, in “Fortune Magazine”, 14 Settembre 2005. Come evidenziato da un’inchiesta del “Wall Street Journal”, le statistiche che mostrano come gli operai statunitensi nelle fabbriche ad alta intensità di capitale siano molto più produttivi delle loro controparti cinesi ignorano il fatto che la più alta produttività è dovuta alla sostituzione di molti operai con sistemi di automazione flessibile e trasporto materiali che riducono il costo del lavoro ma innalzano il costo del capitale e dei sistemi di supporto. Economizzando sul capitale e reintroducendo un ruolo maggiore del lavoro, le fabbriche cinesi invertono questo processo. La progettazione delle parti da costruire, trasportare e assemblare manualmente, per esempio, riduce il capitale richiesto fino a un terzo. Cfr. T. Hout e J. Lebretton, The Real Contest Between America and China, in “The Wall Street Journal”, 16 Settembre 2003.
41 Fishman (2005).
42  Schweickart (2005) citando dati forniti in Meisner (1999: 415-19). Sui progetti di irrigazione, l’espansione di strade e ferrovie, e la coltivazione di varietà ibride di riso nell’era di Mao come basi per la crescita nell’era delle riforme, si veda anche Bramall (2000: 95-6, 137-8, 153, 248).
43 Popov (2007: 26-30).
44  Meghnad Desai nel dibattito con Will Hutton in Does the future really belogn to China?, in “Prospect Magazine”, numero 130, Gennaio 2007.
45 Fairbank (1992: 319).
46 Selden (1995: 37-8).
47 Huang (2008a).
48 Lin e Yao (n. d.); Putterman (1997).
49  Cfr., tra gli altri, Wei (2000); Riskin, Zhao e Li (2001); Walder (2002); Wang (2003); Wu e Perloff (2004); Li (2005), CIA, The World Fact Book, https://www.cia.gov/li-brary/publications/the-world- factbook/fields/2172.html
50  B. Davis, S. Lyons e A. Batson, Globalization’s Gains Come with a Price, in “The
Wall Street Journal”, 24 Maggio 2007.
51  Cfr., specialmente, Wu e Perloff (2004: grafici 2 e 3) e Research Group for Social Structure in Contemporary China (2005: capitolo 4).
52 Nel trattare, per esempio, con i policy makers cinesi, come rappresentante della Banca mondiale, Ramgopal Agarwala “notò che leader importanti dimostravano un maggiore interesse nell’interazione con i diversi livelli della società rispetto a società organizzate più democraticamente, come quella dell’India.” (2002: 90). Cfr. anche Rawski (1999: 142).
53  Schweickart (2005); Amin (2005: 268, 274-5); Wang (2006: 44-5).
54 H. W. French, Protesters in China Get Angrier and Bolder, in “International Herald Tribune”, 20 Luglio 2005; T. Friedman, How to Look at China, in “International Herald Tribune”, 10 Novembre 2005; H, W. French, 20 Reported Killed as Chinese Unrest Escalates, in “The New York Times”, 9 Dicembre 2005; K. Muldavin, In Rural China, a Time Bomb Is Ticking, in “International Herald Tribune”, 1 Gennaio 2006; C. Ni,Wave of Social Unrest Continues Across China, in “Los Angeles Times”, 10 Agosto 2006; M. Magnier, As China’s Spews Pollution, Villagers Rise Up, in “Los Angeles Times”, 3 Settembre 2006; M. Magnier, China Says It’s Calmed Down, in “Los Angeles Times”, 8 Novembre 2006; Lee e Selden (2007).
55 B. Smith, J. Brecher e T. Costello, “China’s Emerging Labor Movement.”, in ZNet http://www.zmag.org, 9 Ottobre 2006. Sulle precedenti ondate di agitazione, vedi Lee e Selden (2007). Sul contrasto tra le due ondate, cfr. Silver (2005: 445-7; 2003: 64-66).
56  E. Cody, China Confronts Contradictions Between Marxism and Markets, in “The Washington Post”, 5 Dicembre 2005; J. Yardley, China Unveils Plan to Aid Farmers, but Avoids Land Issue, in “The New York Times”, 23 Febbraio 2005; J. Kahn, A Sharp Debate Erupts in China Over Ideologies, in “The New York Times”, 12 Marzo 2006; Mu Muying, Dissenting Voices Within Communist Party Before 17th National Congress, in “Cheng Ming Magazine”, 16 Agosto 2007.
57 Huang (2008a: 293-4).
58 Xinhua News, “China seeks smooth communication with citizens” Accesso online:http://news.xinhuanet.com/english/2008- 10/14/content_10195062.htm
59 M. Moore, China will be a democracy by 2020, says senior party figure, in “The Daily Telegraph”, 15 Ottobre 2008. Accesso online: http://www.telegraph.co.uk/news/worl-dnews/asia/china/3195370/China-will-be-a-democracy-by-2020-says-senior-party-figure.html
60  La sempre più profonda crisi dell’egemonia statunitense a fronte della disastrosa avventura irachena ha giocato un ruolo cruciale sia nel facilitare l’ascesa cinese, sia nel minare la credibilità del Washington consensus. Questo doppio ruolo della crisi dell’egemonia statunitense va oltre l’ambito del presente articolo; si veda Arrighi (2008: parte II e III).
61 Ramo (2004: 3-5).
62 Ramo (2004: 11-12).
63  Kennedy (2008).
64 Cfr. Dirlik (n.d.: 5-6).
65 Wade e Veneroso (1998).
66  Per la maggior parte di questi paesi, “le riserve sono semplicemente assicurazioni contro il disastro finanziario… Appena la polvere si posò sulle rovine di molte economie ex-‘emergenti’, un nuovo credo prese piede tra i policy makers nel mondo in via di sviluppo: accumula più valuta estera possibile” (E. Porter, Are Poor Nations Wasting Their Money on Dollars?, in “The New York Times”, 30 Aprile 2006; F. Kempe, Why Economists Worry About Who Holds Foreign Currency Reserves, in “The Wall Street Journal”, 9 Maggio 2006).
67 Come risultato, il portafoglio prestiti del Fondo è sceso da 150 miliardi di dollari nel 2003 a 17 miliardi nel 2007, il suo livello più basso dagli anni Ottanta (cfr. M. Weisbrot, IMF Misses Epoch-Making Changes in the Global Economy, in “International Herald Tribune”, 19 Ottobre 2007). Un portafoglio prestiti sempre più piccolo riduce, oltre all’influenza dell’Fmi sui governi del Sud, anche le sue entrate per interessi e le sue riserve valutarie. “Con un’ironia che ha fatto sghignazzare molti ministri delle finanze [del Sud], l’agenzia che ha per lungo tempo predicato lo stringere la cinghia, deve adesso praticarlo essa stessa” (M. Mof-fett e B. Davis, Booming Economy Leaves the IMF Groping for Mission, in “The Wall Street Journal”, 21 Aprile 2006).
68 S. Malcomson, The Higher Globalization, in “The New York Times”, 12 Dicembre 2008.
69 J. Perlez, China Competes With West in Aid to Its Neighbors, in “The New York Times”, 18 Settembre 2006; V. Mallet, Hunt for Resources in the Developing World, in “Financial Times”, 12 Dicembre 2006; R. Carew, J. Leow e J. T. Areddy, China Makes Splash, Again, in “The Wall Street Journal”, 26 Ottobre 2007.
70  M. Weisbrot, The Failure of Hugo-bashing, in “The Los Angeles Times”, 9 Marzo 2006. Cfr. anche N. Chomsky, Latin America and Asia are Breaking Free of Washington’s Grip, in “Japan Focus”, 15 Marzo 2006.
71  H. Timmons, Asia Finding Rich Partner in Mideast, in “The New York Times”, 1 Dicembre 2006.
72  A. Giridharadas, Singh Urges Asian Selfreliance, in “International Herald Tribune”, 5 Maggio 2006.
73  Citato in A. Giridharadas, India Starts Flexing Economic Muscle, in “International Herald Tribune”, 12 Maggio 2005.
74  T. Deen, U.N. Backs South-South Cooperation, in “Inter Press Service News Agency”, 5 Giugno 2007.
75  L. Atarah, China, India, Brazil, South Africa Tilt Global Power Balance, in “Inter Press Service News Agency”, 13 Settembre 2007; A. Aslam, U.S., Investors’ Favourite, Faces Test From South, in “Inter Press Service News Agency”, 16 Ottobre 2007.
76 Tra le molte critiche alla Cina, cfr. il capitolo di Bello in J. Shefner e P. Fernàndez-Kelly (ed. by),Globalization and Beyond: New Examinations of Global Power and its Alter-natives, Penn State University Press, 2010, e Tull (2006). Per una critica del Sudafrica come potenza “sub-imperiale” nei confronti del resto dell’Africa, cfr. Bond (2007).
77  Sulle cancellazioni del debito (perlopiù africano) da parte di Cina, Brasile e India, cfr. T. Deen, South-South Trade Boom Reshapes Global Order, in “Inter Press Service News Agency”, 21 Dicembre 2006.
78  Cfr. Arrighi, Silver e Brewer (2003).
79  H. W. French, The Cross-pollination of India and China, in “International Herald Tribune”, 10 Novembre 2005.
80  Huang (2008b).
81  Secondo “Xinhua News” (18 Dicembre 2008), le esportazioni della Cina sono diminuite nel novembre 2008 per la prima volta in sette anni. Nella provincia di Guangdong, dove ebbe inizio la crescita manifatturiera orientata all’esportazione, più di 7.000 compagnie hanno chiuso o si sono spostate altrove nei primi nove mesi del 2008.
82 B. Naughton, Arguing Against the Motion: Without significantly accelerated reforms and major new policy actions, China’s rapid growth will unravel before its economy overtakes the U.S.”, in “Reframing China Policy: The Carnegie Debates Series 2: China’s Economy”, 1 Dicembre 2006. U.S. Capitol, Washington DC.
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