Il bel saggio di Giuseppe Nicolosi sull’evoluzione della socialità nelle società contemporanee, originariamente apparso sulla mailing list Rekombinant (19 settembre 2004) a firma di rattus norvegicus, poi ripubblicato ne L’innovazione necessaria, di Arturo di Corinto [a cura di], Roma, Il secolo della rete, 2006.
Visse in un’epoca infelice e travagliata. La nazione che gli aveva dato i natali scivolava inesorabilmente verso la fascia economica delle nazioni di media povertà; sovente incalzati dalla miseria, gli uomini della sua generazione pativano comunque un’esistenza solitaria e astiosa. I sentimenti d’amore, di tenerezza e di umana fratellanza erano in gran parte scomparsi; nei loro mutui rapporti i suoi contemporanei davano assai spesso prova di indifferenza e di crudeltà.
Michel Houellebecq
Nel libro Bowling Alone il sociologo Robert Putnam ha presentato un impressionante elenco di dati sulla progressiva riduzione dei comportamenti prosociali negli Stati Uniti nel corso degli ultimi quarant’anni. Putnam, nel 1995, aveva scritto un breve articolo comparso su una rivista accademica, in cui analizzava il drastico declino delle associazioni di giocatori di bowling negli Stati Uniti. Nelle conclusioni egli formulava l’ipotesi che tale fenomeno fosse rivelatore di un problema più vasto e profondo. Dal breve articolo scaturì un dibattito inaspettato che ha stimolato il sociologo ad approfondire l’argomento. Dietro Bowling Alone c’è un lavoro di ricerca monumentale, durato circa cinque anni, e realizzato attraverso una serrata analisi documentaria e una rigorosa metodologia scientifica. Putnam, tra l’altro, ha calcolato i valori medi, lungo l’arco di quarant’anni, di una serie di indicatori di socialità, che vanno da quante volte gli americani sono andati a votare, o sono andati in chiesa o al club, a quante volte vanno al cinema insieme, offrono un drink a un amico o a un conoscente, stringono la mano di altre persone e così via. I risultati sono desolanti. Gli americani di oggi firmano un quantitativo di petizioni inferiore del 30 per cento rispetto a quanto accadeva alla fine degli anni Ottanta, si impegnano in iniziative a difesa dei consumatori il 40 per cento di volte in meno rispetto a quanto facevano vent’anni prima.
Anche nelle attività sociali extrapolitiche le cose non vanno meglio: alla metà degli anni Settanta l’americano medio partecipava una volta al mese a incontri presso club, associazioni culturali, parrocchie, oggi questa frequenza risulta ridotta del sessanta per cento. Nel 1975 gli americani si incontravano con gli amici a casa mediamente quindici volte l’anno, oggi il numero di questi incontri risulta dimezzato. Il tempo trascorso con agli amici si è ridotto complessivamente del 35 per cento rispetto a quindici anni fa.
Aumenta invece la diffidenza verso gli altri e sempre più spesso si fa ricorso ad avvocati e poliziotti per far valere le proprie ragioni. Le opportunità di lavoro per avvocati e forze di polizia sono state stagnanti per tre quarti del Novecento: nel 1970 negli Stati Uniti c’erano meno avvocati di quanti ce ne fossero nel 1900. Ma nell’ultimo quarto di secolo queste occupazioni sono state attraversate da una fase di boom, con una crescente domanda di interventi legali e di chiamate alle forze dell’ordine.
Putnam elenca le gravi conseguenze di questo disastro sociale e, in particolare, gli effetti negativi che ha avuto su salute, cultura ed educazione scolastica negli Stati Uniti. Tanto sul piano individuale che su quello collettivo, l’America sta pagando il prezzo della perdita di quello che viene definito da Putnam “capitale sociale” l’insieme di legami e relazioni che, nella sua analisi, costituiscono il più forte indicatore di soddisfazione e benessere per una società.
Il quadro delineato da Putnam era stato già evidenziato con vigore dallo storico Cristopher Lasch che già nel 1994 tuonava:
«Le nostre città sono dei meri relitti, sempre più polarizzate: i professionisti del ceto medio alto e i lavoratori dei servizi che provvedono ai loro bisogni, restano precariamente abbarbicati alle aree in cui si praticano affitti elevati, all’interno delle quali si barricano contro la povertà e il crimine che minacciano di travolgerli».
Tutto questo, si noti, prima dei tragici eventi dell’ 11 Settembre, che hanno peggiorato, e non di poco, la situazione. Come scrive Mike Davis in Città morte:
«E’ molto probabile che Bin Laden e soci abbiano piantato un bel paletto nel cuore del “revival dei centri urbani” a New York e altrove. Il tradizionale centro città in cui i prezzi di edifici e terreni salgono alle stelle non è ancora morto, ma il suo battito cardiaco si sta affievolendo».
Nelle analisi fornite da Putnam per spiegare tali fenomeni di progressivo isolamento sociale vengono individuati una serie di fattori concorrenti: i ritmi di lavoro frenetici delle coppie in carriera, le profonde modificazioni nella struttura delle famiglie, le nuove architetture urbane, l’esplosione delle periferie e, non ultimo, l’intrattenimento elettronico. In merito a quest’ultimo punto c’è un particolare che interessa particolarmente la nostra riflessione: se l’intrattenimento televisivo viene indicato dal sociologo come una delle cause principali, insieme ad altre, della privatizzazione del tempo libero, il giudizio sull’Internet rimane sospeso. Se si prende come riferimento la periodizzazione storica, il processo descritto da Putnam sembra avere radici profonde, lontane nel tempo almeno quanto basta a giustificare una parziale assoluzione del fenomeno, relativamente recente, della diffusione di massa della rete.
Per trovare qualche elemento interpretativo circa i fenomeni descritti da Putnam può essere molto utile rivisitare i primi lavori del sociologo chicagoano Richard Sennett. Le analisi di Sennett, senza dubbio profetiche rispetto agli scenari delineati da Putnam, iniziano a muovere i primi passi in un periodo che precede di almeno vent’anni la diffusione di massa dell’infotelematica.
Già in un libro del 1970, Usi del disordine, Sennett aveva colto due importanti elementi del processo di progressivo isolamento delle comunità statunitensi. Il primo è di natura psicologica e si potrebbe definire come una sorta di “fissazione all’adolescenza”. Il secondo, intrecciato al primo, viene definito come “bisogno di purificazione” e va letto e interpretato all’interno dell’ampia discussione sociologica che si è sviluppata intorno al grande tema dell’etica protestante. La fissazione all’adolescenza, interpretata come una tendenza a sottrarsi dal dolore, dall’alterità e dal conflitto, ha trovato terreno fertile nel familismo puritano. Per comprendere il ragionamento di Sennett conviene partire dalle sue osservazioni:
«Il mio pensiero non si è chiarito finché non ho capito che negli ultimi decenni la famiglia ha fatto proprie le funzioni sociali e i contatti che gli individui, nel passato, cercavano nell’area più vasta della città. Questo processo di appropriazione da parte della famiglia di spazi sociali, una volta avvertiti come inadeguati, ha incoraggiato il nascere di qualcosa di perverso nelle relazioni comunitarie urbane che gli uomini hanno abbandonato e nella famiglia stessa». E di seguito: «In questo modo un’intensa vita familiare in America indebolisce l’interesse di una generazione nel prendere parte a tipi diversi di esperienza e di contatto nella città, rendendo queste forme diverse di partecipazione più deboli e facendo perdere loro vitalità; il fenomeno è diventato particolarmente evidente nell’ultima decina d’anni».
L’Italia, come è noto, è tutt’altro che immune dal familismo. Lo scenario italiano, in cui la politica ha sempre ostentato un culto nei confronti della famiglia, appare anzi ai nostri giorni come emblematico di quel “qualcosa di perverso” di cui il giovane Sennett aveva avuto intuizione nell’America di trentacinque anni fa. Mentre gli italiani sono pronti ad insorgere contro il pericolo rappresentato dagli immigrati, i dati suggeriscono che farebbero assai meglio a badare a quel che succede nei loro rapporti familiari, nei rapporti con il vicinato e in quelli di lavoro.
I rapporti annuali dell’Eures sull’omicidio volontario in Italia indicano infatti che negli ultimi anni la famiglia si è dimostrata invariabilmente come l’ambito in cui il comportamento omicidario si è verificato con maggior frequenza. Seguono altre forme di cosiddetti “omicidi di prossimità” che riguardano vicini e conoscenti. Si potrebbe affermare, senza tema di essere smentiti dai criminologi, che anche in Italia la riduzione della socialità abbia avuto, tra le varie conseguenze, quella di far “implodere” aggressività e frustrazioni all’interno delle mura domestiche o nei contesti relazionali quotidiani e ordinari (vicinato, scuola, lavoro). Si direbbe, insomma, che anche da noi si vada realizzando il transito che da Bowling Alone conduce dritti dritti al Bowling at Columbine di Michel Moore.
Miracoli a Milano
La nuova coscienza planetaria dovrà ripensare il macchinismo. Continuiamo ad opporre la macchina all’anima umana. … Cosa accadrebbe se, al contrario, una rinascita dello spirito e dei valori umani si faccesse custode di una nuova alleanza con le macchine?
Felix Guattari
In un libro su Milano, John Foot, studioso di storia contemporanea, esplora la relazione tra immaginari e territorio urbano, dagli anni del boom fino al pieno dispiegarsi del fenomeno Berlusconi.
Foot aggira abilmente le estenuanti polemiche sugli effetti della televisione e si avventura in un attraversamento delle trasformazioni del tessuto urbano nel periodo dell’avvento della televisione. Come osserva lo studioso:
«Gli effetti della TV furono spesso molto più “micro” e complessi di quanto riconoscano le interpretazioni generali: lo spostamento degli arredi, la nuova disposizione degli interni, i sottili cambiamenti nel linguaggio e nella stampa, l’impatto sulla scuola».
Ma l’inglese, in sintonia con la sociologia della comunicazione contemporanea, non accetta una correlazione deterministica tra avvento del mezzo televisivo e aumento della solitudine metropolitana, né si lascia sedurre dalla nostalgia delle culture operaie e contadine:
«Molti sceglievano come vivere e usare il proprio tempo libero. Molti preferivano la privacy alla socializzazione, la televisione al bar o alla bocciofila, la propria casa alla vita di strada».
Ugualmente, Foot coglie alcuni dettagli rivelatori, come le dichiarazioni del proprietario di un bar milanese che, nel periodo della paleotelevisione, commentava i comportamenti de i suoi clienti davanti allo shermo:
«Prima discutevano, cantavano e bevevano. Adesso guardano la TV. Con un bicchiere passano tre ore».
Foot osserva acutamente che «queste nuove forme culturali erano collettive, semplicemente lo erano diversamente da prima». E alcune pagine più avanti, spiega come nel 1956 un sesto degli abbonamenti televisivi era intestato a luoghi pubblici come i bar e le sedi dei partiti. Quello che sembra emergere dalla lettura del testo di Foot è che la televisione, a Milano come in Italia, avrebbe potuto essere qualcosa di sostanzialmente diverso da ciò che è poi diventata.
Ma dopo decenni di trasformazioni la città nasconde con malcelato imbarazzo una solitudine tormentata. Foot la coglie abilmente attraverso la lente del cinema, con un’attenta disamina dei film diretti negli anni Novanta da registi milanesi come Soldini, Piccioni e Salvatores:
«La difficoltà di instaurare rapporti umani nella Milano moderna con gli strumenti sociali, politici e culturali tradizionali diventa evidente nei film di questo periodo, dove i protagonisti entrano in contatto, almeno temporaneamente, solo in seguito ad eventi eccezionali e puramente fortuiti: il diario smarrito, l’arresto del ladruncolo, il neonato abbandonato».
E la metropoli immaginaria del nord in cui è ambientato Nirvana di Gabriele Salvatores si presenta ai milanesi come una triste premonizione, uno scenario «al contempo familiare e sconcertante: una città del futuro che sembra a volte un mercato brulicante ma dove i rapporti tra le persone sembrano sempre più precari».
Anche per i bambini a Milano le cose non vanno meglio. Dai risultati di una ricerca svolta in una scuola Foot riporta che:
«Il 30 per cento dei bambini gioca da solo e in modo statico”, “Solo al 2 per cento dei bambini viene permesso di andare in cortile», «solo il 3 per cento dei genitori gioca con i propri figli».
Un problema non diverso si pone negli Stati Uniti, dove il linguista Noam Chomsky segnalava qualche anno fa che la Hallmark Corporation, produttrice di cartoline di auguri, ha lanciato una serie di messaggi da inserire sotto il piatto in cui i bambini fanno colazione. Uno dice:
«Buona giornata a scuola». Un’altra serie di cartoline della Hallmark è stata prodotta per essere inserita sotto il cuscino dei bambini quando la sera vanno a letto da soli. C’è scritto: «Mi sarebbe piaciuto passare un po’ più di tempo con te».
Ovviamente qui non si intende affatto attribuire al mezzo televisivo la responsabilità di questo quadro desolante, né si vuole proporre la tradizionale e un po’ vieta contrapposizione tra una TV verticale, isolante e paralizzante e una rete Internet liberatoria, comunitaria ed orizzontale.
Si pensa, al contrario, che se pure esistono concrete possibilità che l’Internet finisca con lo svolgere una significativa funzione di rinnovamento delle energie sociali, al momento queste possibilità sono piuttosto remote. Basti pensare a quanto emerge dagli scenari in cui si muovono le élites del mondo della rete. Come osserva il sociologo e studioso di comunicazione Manuel Castells:
«Nella Silicon Valley la socializzazione con i colleghi è del 22 per cento più bassa della media nazionale. La ragione principale sia per il basso grado di socializzazione sia per lo scarso impegno civile, è la mancanza di tempo libero: il lavoro prende tutto il tempo e le energie disponibili. L’individualismo è la regola».
Lo stesso Chomsky, linguista di fama mondiale e attivista della sinistra radicale e libertaria offre un quadro fortemente negativo del ruolo che sta svolgendo la rete nelle attività sociali e politiche:
«Innanzitutto, queste tecnologie distraggono le persone, le isolano. Davanti allo schermo si è soli. Nell’essere umano c’è qualcosa che rende il contatto personale molto diverso dal battere sui tasti di un computer e ottenere in risposta dei rumori. Queste modalità di comunicazione rendono tutto molto impersonale e smantellano le relazioni umane, ed è un buon risultato dal punto di vista di chi detiene il potere, perché è estremamente importante distogliere le persone dai loro sentimenti se si vuole conservarle passive e sotto controllo. Riuscire ad eliminare il contatto visivo, l’interazione diretta e trasformare la gente in caricature di maniaci tecnologici – i tipi con le antenne sulla testa, perennemente collegati al computer – è un vero vantaggio perché rende le persone meno umane e quindi più controllabili».
Probabilmente, lo studioso che ha affrontato il problema in modo più esplicito e diretto è Jeremy Rifkin. In un libro intitolato L’era dell’accesso Rifkin esprime con intelligenza le sue preoccupazioni per un’epoca che sta perdendo il senso della comunità e dell’empatia:
«Se la nuova era ha un tallone d’Achille, forse questo consiste nella mal riposta convinzione che le relazioni guidate dall’economia e le reti mediate dall’elettronica possano sostituire le relazioni e le comunità tradizionali. La premessa stessa di tale convinzione è distorta».
Ma è opportuno considerare anche indicatori di segno contrario.
In Italia il Censis ha recentemente promosso un’inchiesta sulla partecipazione alle manifestazioni di piazza i cui risultati, con buona pace di Chomsky e Rifkin, affermano che:
«Il tipo di persona che va in piazza è soprattutto: maschio (14,4%, contro il 9,4% fra le donne), giovane (15,3% fra i 18-34 anni, contro il 12,8% fra i 35-64enni e il 4,4 fra i 65enni ed oltre), laureato (16%, contro il 5% fra chi ha solo il titolo elementare), occupato (13,7%) o studente (30,7%), residente in città medio-grandi del Centro-Sud. Ma soprattutto è un utente di internet, infatti chi usa internet ha manifestato, nell’ultimo anno, molto più di chi non lo usa (il 17% contro l’8,1%); una buona dimestichezza con la rete costituisce pertanto una risorsa di valore che si traduce in cultura della partecipazione socio-politica».
Dati che sembrano smentire le considerazioni del linguista. Ma, al di là dei numeri, esistono prospettive che si muovono in una direzione completamente diversa da quella di Chomsky e di Rifkin.
Il filosofo e psichiatra Felix Guattari, in un importante articolo intitolato Ripensare le pratiche sociali, comparso su Le Monde Diplomatique pochi giorni prima della sua morte, offriva una lettura del problema che ribaltava completamente i termini della questione:
«Il bambino cresce in un contesto adombrato da televisione, videogiochi, telecomunicazioni, fumetti…è nata una nuova solitudine macchinica, non certo senza qualità, ma che necessiterebbe di essere rielaborata in modo da accordarsi con delle forme rinnovate di socialità. Piuttosto che rapporti d’opposizione, si tratta di creare intrecci polifonici tra l’individuo e il sociale. Resta ancora da inventare tutta una musica soggettiva. La nuova coscienza planetaria dovrà ripensare il macchinismo. Continuiamo ad opporre la macchina all’anima umana. … Cosa accadrebbe se, al contrario, una rinascita dello spirito e dei valori umani si facesse custode di una nuova alleanza con le macchine?».
La capacità prefigurativa di Guattari è impressionante. Agli inizi degli anni Novanta lo psichiatra era in grado di indicare quello che secondo molti costituisce il nucleo su cui oggi diviene indispensabile avviare una riflessione adeguata. La solitudine macchinica non solo esiste, ma ha anche qualità peculiari che non conviene sottovalutare o mettere in parentesi. La sensibilità di Guattari rispetto a questi fenomeni si spiega, da un lato, con l’attenzione che ha mostrato nei confronti dei movimenti controculturali californiani che, occorre ricordare, già negli anni Settanta facevano un uso alternativo delle tecnologie informatiche, dall’altro, con la sua visione antigerarchica dell’organizzazione sociale, che intuiva nell’internet la possibilità del dispiegarsi di un “rizoma” sociale, di una ridefinzione priva di centro del tessuto delle relazioni che avrebbe favorito il proliferare di nuovi “nodi” di socialità, di arte e di intelligenza comunitaria. Su queste opportunità conviene continuare a ragionare.
Se dunque è legittimo non attribuire alla televisione un controllo “deterministico” e se è corretto limitare la discussione sugli “effetti” della TV ad analisi documentate e supportate da teorie consistenti, nei confronti della rete è bene mantenere un atteggiamento ancor più cauto.
Con una differenza: la rete ci riserva continue sorprese. Immaginare, desiderare e prefigurare le sue possibilità è più importante di quanto possiamo credere. La scienza sociale della rete è stata – e resterà sempre – una futurologia.
Guattari prefigurava un’era postmediatica, in cui i massmedia si sarebbero dissolti per effetto del loro moltiplicarsi. Si tratta, per molti versi, di una teoria della catastrofe, di una scienza delle soluzioni immaginarie, cioè di una patafisica, di una fantascienza del rivolgersi del sistema contro se stesso, al limite estremo della simulazione.
Vale ricordare a questo proposito che proprio nei Grundrisse, Karl Marx, dopo aver intuito alcuni esiti terribilmente attuali del rapporto tra lavoro, scienza e capitale, poneva una questione cruciale, un dubbio attualissimo:
«Se nella società così com’è» – è scritto nelle pagine dei Grundrisse – «non trovassimo già le condizioni materiali di produzione e i rapporti umani ad esse corrispondenti per una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero donchisciotteschi».
Il lavoro precario e intermittente è una forma di organizzazione del lavoro direttamente connessa alla logica di funzionamento del calcolatore digitale.
La frammentazione del lavoro ha favorito una nuova concentrazione del capitale e, con la diaspora del lavoratore flessibile, con la sua disgregazione umana e psichica, siamo testimoni del tragico epilogo di quel tessuto relazionale che garantiva la presenza di una sfera pubblica e di un insieme di interessi comuni.
Una forza uguale e contraria, in grado di fornire una risposta efficace, dovrebbe concentrarsi su un’azione centripeta nei confronti della comunità e di un’azione centrifuga nei confronti del capitale. Un’azione che ricostituisca la dimensione del comune mandando in frantumi l’accumulazione e la deriva verso l’individualismo coatto.
L’infotelematica agita, pensata e prodotta dal basso, potrebbe forse realizzare un simile obiettivo, operare un simile rovesciamento ?
Si deve sostenere di sì, quantomeno nella teoria: invertiti i fattori il risultato cambia. Dove le macchine informatiche hanno disgregato potrebbero riunire, dove hanno determinato accumulazione potrebbero produrre redistribuzione. E questo è l’orizzonte politico del Web 2.0. Per iniziare a vederlo occorre innanzitutto interrogarsi sulla tensione che si crea tra la solitudine della cosiddetta “classe creativa” e la sua pulsione repressa verso nuove forme di socialità. E’ qui che va cercata la cifra per riavere accesso ad un’eredità altrimenti insensatamente sperperata.
Di sicuro interesse, da questo punto di vista, l’indagine psicosociale intrapresa anni addietro dalla Microsoft sul fenomeno, ancora nella sua fase aurorale, del software libero.
Quello che non dicono a Bill Gates
Ma non scoppiano forse tutte le rivolte, senza eccezione, nel disperato isolamento dell’uomo dalla Gemeinwesen? Ogni rivolta non presuppone forse necessariamente questo isolamento? Avrebbe avuto luogo la rivoluzione del 1789 senza il disperato isolamento dei cittadini francesi dalla Gemeinwesen? Essa era appunto destinata a sopprimere tale isolamento.
Karl Marx
Quando Microsoft decise di indagare la diffusione del software libero assegnando a un gruppo di studiosi l’incarico di analizzare il fenomeno, la spiegazione di un comportamento cooperativo così dirompente venne affrontata in termini di ego gratification. Emergeva il dato imbarazzante, paradossale, contraddittorio, per cui la cooperazione destava “gratificazione”. Agli sviluppatori di GNU/Linux venne allora mossa l’accusa di essere portatori di quell’insieme di qualità negative che vengono riassunte con l’abusato termine narcisismo. Ma in realtà si intuiva nel testo degli esperti Microsoft la convinzione di trovarsi di fronte a un tradimento del patto collettivo su cui si fonda il liberismo.
Viviamo in una società che ha fatto proprio il dogma della “mano invisibile” di Adam Smith. Dunque, solo delle creature diaboliche possono riuscire a violarlo con successo. Che poi lo facessero nel segno del piacere fondamento di ogni utilitarismo, portava gli esperti Microsoft verso sentimenti talmente contraddittori da spingerli a suggerire che doveva necessariamente trattarsi di un piacere perversamente individualista: l’ego gratification. Cosi’ il liberismo degli interessi individuali si deformava fino ad assumere l’aspetto di una “norma collettiva” mentre la cooperazione degli sviluppatori GNU/Linux diveniva un tratto diabolicamente “narcisistico” e colpevolmente individualista.
C’è da osservare che Bill Gates doveva sapere di non trovarsi di fronte a un fenomeno nuovo: già nella celebre “lettera agli hobbisti” (1976) si era chiesto adirato: “Chi può permettersi di lavorare a livello professionale senza essere retribuito?”. Il ricordo degli anni in cui venne duramente contestato dalla comunità hacker per aver inserito nel sul sistema operativo il linguaggio basic, nato originariamente grazie a finanziamenti pubblici e al lavoro cooperativo e gratuito di molti sviluppatori, bruciava ancora.
Probabilmente, la sua curiosità nei confronti di GNU/Linux e della sua evoluzione andava oltre gli interessi puramente commerciali in merito alla nuova concorrenza nel campo dei sistemi operativi e assumeva la forma di una curiosità mai sopita nei confronti di un fenomeno antropologico che il magnate non riusciva a spiegarsi.
Non stupisce che gli esperti prezzolati che curavano il documento si siano sforzati di rassicurarlo:
«La più sfuggente e profonda motivazione che si rileva nella comunità degli sviluppatori OSS (Open Source Software)» si legge nel documento Halloween I° «è la pura gratificazione dell’Io». Nella migliore delle ipotesi, secondo gli esperti Microsoft, si poteva parlare di altruismo «Ma questa è una motivazione controversa, e siamo inclini a pensare che, a diversi livelli, l’altruismo “degeneri” in forme di gratificazione dell’ Io (…)».
Tuttavia la spiegazione degli esperti Microsoft non è riuscita a fornire molti argomenti credibili circa le motivazioni degli sviluppatori del pinguino. “Ego gratification” suona come un termine ombrello, buono per tutti gli usi, che non sembra scalfire, se non in modo generico e superficiale, il problema che assillava Bill Gates. Il sottotitolo del libro di Linus Torvalds “Solo per divertirmi” è parso a molti rivelare la chiave privilegiata per spiegare il fenomeno. Da più parti si è sottolineata la peculiarità del lavoro informatico evidenziandone gli aspetti ludici. In questo senso le considerazioni sull’ego gratification, intesa come gusto per la competizione fine a se stessa e come dimostrazione del proprio talento nei confronti della comunità dei pari, sono state considerate di qualche utilità. Ma la questione, come vedremo, è più complessa. E comunque, si tratta di fenomeni relativamente recenti, che poco hanno a che fare con le prime comunità hacker e le loro motivazioni originarie. Queste ultime sono state descritte efficacemente da molti autori, tra i quali Marco Revelli, che ha sottolineato come “la rivoluzione microelettronica”:
«non si svolse all’insegna dell’individualismo possessivo tipico dell’etica di mercato, ma piuttosto di un comunitarismo radicalmente democratico, integrato da residui di cooperativismo o comunque di solidarismo per certi aspetti pre-moderno».
Questo elemento comunitarista, seppure evidenziato con maggiore o minore enfasi al variare dei convincimenti politici dei diversi studiosi di tecnologia, si può considerare ormai universalmente riconosciuto. Pochi invece hanno colto quella che a me pare una delle radici profonde di queste forme di comunitarismo tecnologico.
Se andiamo a curiosare nella biografia di Richard Stallman, che deve essere considerato il vero fondatore della filosofia del software libero, emergono elementi interessanti. Stallman inizia quella che è stata definita la sua “crociata” per il software libero sotto la spinta di acuti problemi di relazione che riguardavano le sue attività presso il laboratorio del MIT. La fase che precede la sua decisione di difendere ad oltranza il software di pubblico dominio è realmente drammatica. Chi ha designato un profilo di questo straordinario protagonista dell’informatica libera ne ha evidenziato i fermi principi etici e in alcune occasioni, con una punta di ironia e qualche propensione per il gossip, ha rivelato le forme di occasionale instabilità emotiva che caratterizzano il personaggio. A pochi è venuto in mente che in realtà etica hacker e difficoltà di relazione costituiscono, in Stallman come in molti altri, due facce della stessa medaglia. Nella vita di Stallman le principali occasioni di socializzazione sono state legate al suo lavoro di programmatore.
Stallman non ha mai sopportato nessun tipo di restrizione sull’accesso ai calcolatori e ai codici per le ragioni di natura etica e politica che oramai tutti conoscono, ma anche per un motivo di natura psicologica, che egli stesso probabilmente non sarebbe disposto a riconoscere: quello che i calcolatori costituivano il suo principale strumento di relazione con gli altri.
Entrambe le motivazioni, a ben guardare, sono degne di rispetto. Ma qui interessa soprattutto ragionare sulla seconda. Nella fase in cui gli interessi economici iniziano a insinuarsi nelle maglie del laboratorio del MIT, Stallman intuisce che le relazioni sociali libere che fino a quel momento avevano contraddistinto l’ambiente hacker in cui si riconosceva erano sul punto di frantumarsi.
Circola una voce secondo cui, nel durissimo confronto che lo oppose alla Symbolics, Stallman minacciò in una lettera di entrare negli uffici dell’azienda imbottito di esplosivo. La società aveva cooptato molti sviluppatori del gruppo di Stallman per migliorare, privatamente, un sistema operativo basato sul Lisp che originariamente era nato nell’ambito del laboratorio del MIT. Stallman aveva ottime ragioni per contestare lo stile aggressivo dell’azienda che si stava appropriando del lavoro comune svolto al MIT. Tuttavia, è abbastanza evidente che per lui la colpa più grave della Symbolics era invece quella di aver provocato l’esplosione della comunità hacker di cui era membro.
L’ingresso degli interessi del mercato nel laboratorio, lungi dall’aver determinato, come pretenderebbe il mantra liberista, un aumento della produttività e una sana competizione commerciale tra vecchi amici, aveva in realtà provocato la brusca e dolorosa interruzione di relazioni di amicizia che duravano da anni.
Gli hacker che avevano iniziato a lavorare per conto della Symbolics, racconta Stallman: «Non soltanto avevano smesso di invitarmi, ma in seguito qualcuno di loro mi confessò di aver ricevuto pressioni per tenermi all’oscuro di tutto».
Quando Stallman dichiarerà a Steve Levy di essersi sentito in quella circostanza come Ishi, ultimo sopravvissuto della tribù pellerossa degli Yahi, non lo farà con l’intenzione di ammantarsi di un’aura mitologica come afferma il suo biografo, ma per esprimere una formula metaforica adeguata a descrivere la sua sofferenza per la frantumazione di un tessuto di relazioni che era fondamentale per la sua vita. Relazioni che, comunque, non potevano essere separate dai calcolatori che le avevano rese possibili. Così, di fronte alla carcassa della macchina che ospitava il PDP-10, il sistema con cui aveva lavorato per anni presso il laboratorio del MIT, egli non riuscì a trattenere le lacrime:
«Vedere lì quella macchina, morta, senza nessuno a prendersene cura, una scena che rifletteva la totale distruzione della mia comunità».
E’ evidente come, nell’elevare la macchina rottamata a simbolo della fine della comunità hacker, Stallman esprimesse tutto il suo strazio per l’esaurirsi di quel rapporto diretto e spontaneo che si era stabilito tra le persone che ruotavano attorno al calcolatore.
Forse, l’elemento che meglio caratterizza la posizione di Stallman consiste nella convinzione che tale rapporto eugualitario, trasparente, fondato su una sorta di meritocrazia di gruppo, oltre ad avere un valore etico, costituiva anche una garanzia per il buon funzionamento del software. La rottura dei rapporti fiduciari, conseguenza del fatto che gran parte dei programmatori del laboratorio avevano iniziato a curare gli interessi di aziende diverse e spesso concorrenti, impediva il libero flusso dei codici e creava strozzature nella comunicazione tra gli sviluppatori. Ciò che è peggio, l’ingresso dei privati rendeva malsane le relazioni interpersonali e il lavoro diveniva conseguentemente tetro, faticoso e sensibilmente meno produttivo.
Buena vista social web !
”Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
Ma qual è la pietra che sostiene il ponte ? – chiede Kublai Kan.
Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco, -ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre ? E’ solo dell’arco che mi importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.”
Italo Calvino
In uno dei suoi lavori recenti, analizzando alcuni dati forniti da Putnam in Bowling Alone, Richard Sennett si trova a concordare con il collega su una distinzione fondamentale nel modo di classificare le prospettive con cui può muoversi chi intenda rilanciare la partecipazione sociale: ci si può ispirare al bonding, al tessere legami, oppure si può ragionare con le categorie del bridging cioè del “gettare ponti”.
Mentre il bonding allude alla classica relazione “face to face” ed è riconducibile alle forme di socializzazione oggi più diffuse, il bridging rinvia ad una concezione a prima vista impersonale dell’attività di cooperazione sociale. E’ l’ambito, per fare un esempio, del donatore di sangue anonimo ma anche quello, per noi particolarmente significativo,del programmatore open source che cede alla comunità il proprio lavoro perché possa essere utilizzato e modificato liberamente.
Quello del bridging, secondo Sennett,
è lo spazio civico della prossimità agli estranei.
Lo si potrebbe anche definire, in termini tradizionali, come una nuova declinazione dello “spirito pubblico”.
Non andrebbe in ogni caso confuso con il volontariato assistenzialistico. Il bridging parte da un principio di reciprocità: tanto il donatore di sangue anonimo quanto il programmatore di software libero agiscono nel nome di un concetto di utilità pubblica che vorrebbero paritario, simmetrico.
Auspicano che un simile comportamento sia praticato da altri, anche quando sono perfettamente consapevoli di non avere nessuna garanzia che ci sarà una contropartita. E non si tratta di una solidarietà fobica, che si sforza di rimanere incontaminata: nel caso del software ad esempio, il contatto, la relazione sociale, potranno facilmente nascere dopo, sulla base di un interesse o di una passione comune.
Comunque lo si intenda, il bridging contrasta palesemente con le pratiche di lobbing, con le varie forme di affiliazione criptomafiosa, con i rituali di pubblica confessione che caratterizzano i gruppi di autoaiuto, con il familismo amorale, con l’individualismo intimistico esasperato dal neoliberismo e, in conclusione, con tutte le degenerazioni del bonding che affliggono le forme di convivenza delle democrazie occidentali e, particolarmente, del nostro paese.
Sotto il profilo del bridging l’Internet, per un lungo periodo, è parsa carente, scarsamente efficace. Anche se i pionieri della rete hanno lavorato proprio nella prospettiva del bridging, costruendo potenti strumenti per la relazione sociale libera, le comunità virtuali, oggettivamente distanti dalla realtà territoriale, sono state spesso giudicate fredde, astratte e, non di rado, politicamente inconsistenti. Non pochi hanno paventato esplicitamente il rischio di un progressivo degrado della relazione interumana provocato dalla comunicazione mediata dal computer. Chi ha lavorato nello spirito del bridging s’è trovato a dover ammettere che i suoi strumenti (chat, forum, mailing list etc.) si sono sovente trasformati in forme degradate di bonding: luoghi per una relazione interumana vicariante che, mancando di elementi fondamentali quali il rapporto “face to face” e la relazione con il territorio, rischiano ad ogni passo di sprofondare nella condizione di ghetti virtuali, di riserve indiane. Sebbene ci siano buoni argomenti per dissentire da tali catastrofismi, non è stato sempre agevole dare torto a quanti sostengono che la rete sta amplificando i già preoccupanti fenomeni di “segregazione urbana” che si rilevano nelle metropoli.
Sulla scorta di Sennett – che in realtà non si è mai occupato (se non di sfuggita) del rapporto tra massmedia e forme dell’abitare – si potrebbe ingenuamente argomentare che la “fissazione all’adolescenza” sia aumentata con il progressivo diffondersi delle comunicazioni di rete.
Qui da noi però, quando la psicologia clinica dei primi anni Novanta ha messo in guardia nei confronti di una presunta sindrome di Peter Pan, una difficoltà dei giovani nel transitare alla vita adulta, i dati delle ricerche sociali (istat e eurispes) l’hanno seccamente smentita, dimostrando come questo prolungamento dell’adolescenza avesse nella maggior parte dei casi spiegazioni assai diverse dal mammismo o dalla psicopatologia. Spiegazioni che avevano invece a che fare con i crescenti problemi nell’ accesso al lavoro e al reddito. Niente a che vedere, in ogni caso, con la fissazione all’adolescenza discussa da Sennett, che riguardava persone adulte, occupate e spesso benestanti. La segregazione giovanile cui assistiamo in Europa si presenta come un problema politico la cui soluzione non sembra a portata di mano. Come ha scritto Jean Paul Fitoussi in un recente articolo apparso sulla prima pagina del quotidiano La Repubblica:
«La disoccupazione cronica di massa agisce all’interno dei nostri sistemi sociali come un buco nero in espansione, che inghiotte tutte le logiche d’integrazione …. Gli effetti della disoccupazione falsano le regole sociali, dato che le opportunità d’inserimento dipendono sempre più da condizioni iniziali quali il patrimonio, la rete delle relazioni sociali di genitori o parenti, la reputazione degli istituti frequentati e dei diplomi conseguiti, e non di rado anche il quartiere di residenza. Il più delle volte, tutti questi elementi sono correlati tra loro, tanto da lasciare ben poche opportunità a chi ne è escluso».
Ciò che è peggio, nel quadro italiano la tradizionale tendenza alla gerontocrazia ha assunto dimensioni clamorose. Una recente indagine intitolata “la rivolta della generazione X” avviata dal think thank “vision” ha mostrato come in Italia la generazione dei trentenni sia del tutto assente. L’età media della nostra classe dirigente è superiore ai 65 anni; appena il 4% dei leader politici italiani ha tra i 31 e i 40 anni e meno dell’ 1% ne ha meno di trenta.
Al coro di imbarazzati commenti politici che hanno accompagnato la pubblicazione di questi dati, ha replicato recentemente Marco Bascetta con un caustico e fulminante articolo uscito sulle pagine del “Manifesto”.
La rampogna di Bascetta contro il pianto del coccodrillo della politica italiana sui giovani si dispiega in un crescendo che strappa ghignate feroci e applausi da standing ovation:
«Tratto comune in questo coro di disappunto è la convinzione che questa gioventù debba accedere agli spazi sociali, politici ed economici oggi controllati dai più anziani, vivacizzandoli con la sua “fresca energia” ma lasciandone in buona sostanza inalterato l’assetto.
Così i giovani dovrebbero conquistarsi cattedre nell’università così come è, ma guai se dovesse riaffacciarsi la vecchia nefasta utopia sessantottina di rivoluzionarla. Oppure dare il proprio contributo “innovativo” alle incanutite segreterie di partito, ma ben guardandosi dal mettere in discussione quella forma di organizzazione politica; arrancare nel mercato del lavoro, ma secondo i sacri dogmi del neoliberismo, per gli uni, o conquistandosi il buon vecchio posto fisso “che nobilita l’uomo” per gli altri; abbandonare la casa paterna e farsi una famiglia, ma secondo le regole dettate dal cardinal Ruini».
E, per completare il quadro:
«I modelli di “gioventù positiva” che il discorso pubblico e l’insistenza mediatica hanno imposto negli ultimi anni oscillano tra i papa boys e le scimmiette che applaudono nei talk shows, tra “i nostri ragazzi in Irak” e i volontari della croce rossa. Tutto il resto passa, più o meno, come anticamera del terrorismo o del parricidio. Va da sé che con queste premesse e con questi modelli il “largo ai giovani” si riduce a poco più che una retorica di regime e una proliferazione di portaborse».
Ugualmente, Bascetta si trova a riconoscere che, accanto al problema del crescente controllo sui giovani, c’è un problema di numeri, una oggettiva “debolezza demografica” che rende ancora più precarie le condizioni di autorganizzazione culturale e politica dei giovani:
«La fascia giovanile si è dimezzata dopo il 1980. Se negli anni del “miracolo economico” circa venti milioni di cittadini erano sotto i 21 anni, nel 2005 sono ridotti alla metà. Ma questo calo dell’incremento demografico è stato prevalentemente preso in considerazione con l’occhio rivolto ai consumi, al peso della previdenza sociale, all’occupazione, al rapporto tra popolazione immigrata e autoctona. Assai meno in rapporto all’incidenza culturale e politica delle diverse fasce di età sull’assetto sociale complessivo. Se la popolazione giovanile diminuisce, il suo peso politico e culturale è destinato a sua volta a diminuire in proporzione, penalizzando il desiderio di nuove esperienze rispetto al bisogno di sicurezza e alla riconferma di consolidate certezze»
In altri termini, la pressione esercitata nei confronti dei giovani ottiene un certo “successo” anche in forza di una situazione generazionale numericamente non favorevole.
Sotto numerosi profili avevano ottime ragioni Franco Berardi e Franco Bolelli che celebravano, contro lo spirito dei primi anni Novanta, l’estasi di Peter Pan sollecitando una riscoperta delle capacità creative ed immaginative:
«Non adeguarsi è il principio di un progetto di mondo, è l’antidoto contro il veleno normalizzatore di chi predica che è necessario adattarsi al mondo e contro il veleno autoritario di chi pretende di adattare a sé il mondo. Il disadattamento non come sintomo della malattia, ma anzi come condizione per la terapia».
Con il senno di poi si è tentati di argomentare che – quando diviene impossibile aggirare la paralisi sociale – più che di terapia si dovrebbe parlare, come Pascal, della necessità di fare buon uso della malattia. Che poi tale uso buono del disagio finisca con l’assumere la forma del conflitto è una conseguenza che a Pascal probabilmente non sarebbe piaciuta ma che a noi sembra inevitabile. Un conflitto che assume forma compiuta negli scenari del lavoro cognitivo precario e intermittente soprattutto quando, frammentando la formazione, mandando al macero risorse umane, esso finisce con il determinare un’ eccedenza, uno scarto di intelligenza, prepotentemente chiamata dalle circostanze ad inventare strategie inedite di sopravvivenza, di rivendicazione e di lotta.
Del resto, nell’ambito della discussione su quella tendenza che è stata definita “esodo”, c’è un punto delicatissimo e importante che viene sistematicamente trascurato. Quello che il movimento di “sottrazione” dalle aspettative e dalle strategie di controllo che pesano sui giovani passa sempre più per la porta stretta di un uso alternativo dei media elettronici. E, a ben guardare, non può che essere così.
Una breve digressione sulle origini dei cosiddetti blog ci permette di entrare nel merito di questo discorso.
Blog area
Comunicare, comunicazione,
parole che se frugo nei miei ricordi
di scuola non appaiono. Parole
inventate più tardi,
quando venne a mancare anche il sospetto
dell’oggetto in questione.
Eugenio Montale
Qualche anno fa decisi di dare un’occhiata al sito di LiveJournal.com. Da qualche tempo ero incuriosito dal mondo dei blog. Così, esaminai la procedura per realizzare un blog su questo servizio americano, noto per essere frequentato prevalentemente da teen-ager. Nella e-mail di benvenuto che ricevetti dal servizio compariva, tra le altre cose, il seguente testo:
«Il nostro obiettivo è rendere LiveJournal totalmente efficiente…se possiamo fare qualcosa per renderlo più facile, più potente, più personalizzabile, o altro…fateci sapere. Noi non stiamo gestendo il sito per fare soldi. Non siamo una società dot-com lanciata con venture-capital che spera di essere quotata in borsa…il sito è gestito dalle persone che lo usano. Fateci sapere cosa desiderate».
Un testo singolare per almeno due motivi: per come è scritto e per quello che afferma. Per quanto riguarda lo stile di scrittura ebbi la sensazione di avere di fronte un messaggio inviato in una chat line, o attraverso un SMS. Per tre volte chi ha scritto queste righe ha fatto ricorso ai puntini, proprio come fanno gli adolescenti in chat quando vogliono segnalare che stanno pensando a quanto dovranno scrivere dopo. Uno stile “Instant messaging” che certo non asseconda i formalismi della comunicazione d’azienda su web. Provate a stabilire una comunicazione in chat con il servizio clienti di Tin.it e vi sarà chiarissimo di cosa sto parlando. Sarete spalmati di educate formule cerimoniali del tipo “Buongiorno. In che modo posso esserle utile ?” e così via. Insomma, sembra davvero strano che un messaggio di e-mail inviato da un sistema automatico all’indirizzo di un possibile cliente sia informale e vagamente polemico come quello che ho ricevuto da LiveJournal. Ma tralasciamo pure le formalità ed entriamo nel merito del contenuto.
Quelli di LiveJournal scrivevano, senza fronzoli, che loro non tengono in piedi il servizio per fare soldi. Poi lanciavano una frecciata all’indirizzo delle dot-com che nascono con la speranza di entrare nel mercato azionario.
“Non abbiamo nulla a che fare con quella gente” sembravano dire i responsabili di LiveJournal. Ma l’affermazione più interessante è probabilmente quella finale, in cui LiveJournal viene presentato come una sorta di creazione collettiva.
Toni aspri, comunque, cui facevano eco le dichiarazioni contenute nella pagina chiamata “social contract”, dove i creatori di LiveJournal si impegnavano solennemente a rispettare una serie di regole tra le quali è utile citare almeno le seguenti:
«Non ospiteremo mai spazi pubblicitari. Può darsi che dipenda dal fatto che sono una scocciatura insopportabile o dal fatto che non vogliamo che ammucchino troppi soldi. Comunque sia, promettiamo che non ospiteremo mai degli spazi pubblicitari sul nostro server o sulle nostre pagine».
«Non spediremo mai e-mail che non sono state richieste. Crediamo fermamente che lo spam in Internet non dovrebbe esistere e promettiamo che non vi invieremo mai una e-mail senza il vostro consenso esplicito o implicito. Promettiamo che non venderemo mai elenchi con gli indirizzi di posta elettronica degli utenti o informazioni personali». «Promettiamo di supportare il movimento del software libero.
L’intero codice che viene utilizzato per una installazione completa e personalizzabile di LiveJournal è pubblico. Noi promettiamo di mantenere questo codice libero e aperto così da restituire qualcosa alla comunità del software libero».
Dichiarazioni che non lasciavano molti dubbi sui principi che ispiravano il gruppo di ragazzi che lavorava al mantenimento di LiveJournal: rifiuto della pubblicità, ostilità nei confronti degli usi commerciali della rete, tutela rigorosa della privacy, elogio sperticato della libera circolazione delle idee e del software. Ma perché mi interessano tanto i proclami di un gruppo di ragazzi di Seattle che gestiscono un server internet che dà agli utenti la possibilità di crearsi dei blog, che in fondo sono soltanto delle pagine web dotate di alcune proprietà particolari?
Il fatto è che LiveJournal non è un servizio qualsiasi. LiveJournal è uno dei servizi web a più alto traffico di tutto il mondo.
Recentemente, una ricerca di Alexa sul “web 2.0” ha mostrato come Livejournal sia, in termini di “share”, il quinto sito web del mondo. Con un numero di iscritti che si aggira intorno ai dieci milioni di utenti.
A questa amplissima diffusione del servizio, ha corrisposto una crescente pressione dei grandi gruppi che ha determinato la progressiva e completa “sussunzione” di Livejournal nel mercato infotelematico.
Oramai i “voti” del social contract sono stati completamente traditi e Livejournal ospita inserzioni pubblicitarie fin dalle sue prime pagine.
Un esito prevedibile, che tuttavia nulla toglie al problema teorico su cui è indispensabile riflettere: Livejournal si è nutrito della creatività diffusa e del lavoro “libero” dei suoi sviluppatori.
Nei suoi movimenti originari esso si è presentato come un fenomeno “generazionale”, come la materializzazione di un “bisogno”, e ci sono voluti molti anni perché che arrivasse ad assumere la forma compiuta di un “prodotto” di mercato.
Ma di quale “bisogno” stiamo parlando, se non di una declinazione nuova della socialità ?
In origine LiveJournal si presenta soprattutto come un nuovo strumento di “instant messaging”. Per rendersene conto è sufficiente ripercorrere brevemente i passi di Brad Fitzpatrick, il giovanotto che ha creato il primo LiveJournal. (Incidentalmente: la mano che ha digitato il messaggio automatico che ho ricevuto al momento dell’iscrizione dovrebbe essere proprio la sua).
Un giorno Brad ha sentito l’esigenza di creare una pagina web che si potesse aggiornare senza dover ricorrere ogni volta ad un collegamento con il server e alla scrittura di codice HTML. Il suo scopo era tenere aggiornati gli amici sulle sue attività: se era nella sua stanza, se era uscito, a cosa stava lavorando e così via. Di qui l’esigenza di utilizzare un dispositivo dinamico, capace di depositare sul suo sito web un messaggio con la stessa rapidità con cui si scrive e si invia una e-mail.
A questa semplicissima bacheca elettronica Brad ha aggiunto un orologio e un calendario, in modo che tutti i lettori delle sue pagine fossero informati circa la data e l’ora dei messaggi che venivano lanciati nel corso del tempo. Nel giro di qualche settimana la maggioranza dei suoi amici di college gli hanno chiesto una copia del programma. LiveJournal inizia a diffondersi come un virus e nel giro di pochi mesi raggiunge migliaia di persone, prima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo. Un successo imprevisto, “accidentale”, come piace dire a “Brad Fitz”.
Alcuni osservatori italiani del mondo dei Blog hanno fatto notare, non senza una certa ironia, che a loro proprio non interessa nulla di essere informati del fatto che tale Pinco Palla, poniamo ieri sera, è andato al cinema. Osservazione acuta, ma non del tutto appropriata. Uno dei punti forti di LiveJournal è quello di permettere all’autore una serie di limitazioni riguardo alle persone che possono avere accesso ai messaggi che invia sulle pagine del suo Blog. La prima preoccupazione di Brad è stata proprio quella di evitare che occhi indiscreti potessero venire a conoscenza dei messaggi che lui inviava, in via del tutto personale, ai propri amici o alla ragazza. Al momento di inviare un messaggio, LiveJournal permette infatti di scegliere se il messaggio sarà pubblico e visibile a tutti, se invece verrà indirizzato soltanto agli amici o se la sua visibilità sarà limitata a una o a poche persone selezionate.
E’ anche possibile inviare, attraverso LiveJournal, messaggi online direttamente a se stessi, nella forma privata tipica del diario. Sembra strano, ma in fondo non lo è poi tanto. Basti pensare al tizio che la sera in casa prende appunti di lavoro per il giorno dopo e quindi li invia sul suo LiveJournal. In ufficio, la mattina successiva, potrà rileggerli tranquillamente dal suo PC collegato in rete.
Questa modalità di tutela della privacy, oltre ad essere molto civile, è estremamente pratica. Lo strumento diviene polifunzionale: chi ha velleità giornalistiche è libero di mettere in vetrina i propri articoli, ma chi ha bisogno di informare il gruppo di amici del fatto che stasera rimane in casa perché ha la febbre, può farlo senza rischiare di ricevere la visita di ospiti imprevisti e sgraditi.
Si inizia ad intravvedere quella che diventerà la seconda importante caratteristica di LiveJournal, quella che, insieme all’instant messaging, renderà il programma di Brad Fitz la killer application del mondo dei blog: si tratta dell’arte, incorporata nel software, di costruire comunità (Community Building). LiveJournal, attraverso un fitto gioco di sipari che si aprono e si chiudono selettivamente, stimola un vivace tessuto di relazioni tra gli utenti.
Un importante fattore relazionale, ricco di implicazioni psicologiche, che non è stato minimamente considerato nelle discussioni italiane, concentrate esclusivamente sulla funzione giornalistica dei Blog.
Probabilmente il fatto più interessante di questi meccanismi è la loro capacità “autoselettiva”. Decidere ad ogni nuovo testo inviato chi può e chi non può leggerlo, stabilire in modo preventivo quali sono gli amici di cui vogliamo avere subito a disposizione i messaggi, disporre di motori di ricerca in grado di individuare i blogger con interessi simili ai nostri, significa favorire la costruzione semiautomatica di gruppi di persone fondati su opinioni e scelte condivise.
Ma la genesi dei blog, la vicenda di Livejournal, il “contratto sociale” non sono stati oggetto di alcuna attenzione.
Non fosse per un trafiletto del sottoscritto comparso su un settimanale ad alta tiratura, il termine Livejournal non compare sulla stampa italiana. Neanche sul giornale di Marco Bascetta.
E pensare che perfino Cosimo di Rondò, protagonista, come molti ricorderanno, del “Barone rampante” di Italo Calvino, nel corso del suo esodo sugli alberi inventò il suo Blog. E lo fece all’interno della cornice settecentesca e illuministica in cui il romanzo è ambientato. Cosimo chiamò il suo rudimentale blog “quaderno di doglianza” e lo approntò così: «Prese un quaderno da scuola e l’appese all’albero con uno spago; ognuno veniva lì e ci scriveva le cose che non andavano».
Del resto, la scelta di Cosimo di vivere sugli alberi non nacque certo nel segno di un individualismo cinico. Calvino, circa l’esodo di Cosimo di Rondò, è anzi molto chiaro: «bisogna pensare che egli fosse ugualmente nemico d’ogni tipo di convivenza umana vigente ai tempi suoi, e perciò tutti li fuggisse, e s’affannasse ostinatamente a sperimentarne di nuovi: ma nessuno d’essi gli pareva giusto e diverso dagli altri abbastanza; da ciò le sue continue parentesi di selvatichezza assoluta. Era un’idea di società universale che aveva in mente».
Se Cosimo di Rondò non scenderà mai a terra, restando ostinatamente sugli alberi per tutto il corso della sua vita, non è detto che la stessa sorte tocchi agli odierni baroni rampanti del social web.
I.T.U. (Interfacce Tecnosociali Urbane)
Ci sono almeno due tipi di giochi, i giochi finiti e quelli infiniti.
Un gioco finito si gioca per vincerlo, un gioco infinito per continuare a giocare. I partecipanti a un gioco finito giocano entro confini ben precisi, i partecipanti a un gioco infinito giocano con i confini…
Paul Carse
Ecco infatti che in questi ultimi anni iniziano a prendere forma dei tentativi di stabilire rapporti di tipo nuovo tra rete e territorio. Il progettista di telematica sociale che ci accingiamo a descrivere è propriamente pontifex. Non perché ami “pontificare” nel senso ironico che spesso si attribuisce a questo termine, né perché dotato di capacità oracolari, ma in quanto opera in silenzio per ricombinare creativamente i percorsi sociali delle metropoli, moltiplicando le connessioni territoriali, costruendo passaggi e mettendo in crisi i rigidi itinerari del consumo sociale urbano.
E non mancano gli esempi. Fino a ieri, chi cercava un libro era invitato a muoversi lungo binari tradizionali: le librerie o, se il libro era fuori produzione, l’editore e i cataloghi delle biblioteche pubbliche. Oggi è possibile anche esplorare in rete il catalogo di DLP (Distributed Library Project) per verificare se un utente del servizio ha dichiarato la propria disponibilità a cedere in prestito quel libro. Al di là dell’ovvia utilità pratica di questa sperimentazione di un servizio bibliotecario gratuito e distribuito tra i cittadini, occorre sottolineare come la formula del prestito tra persone che hanno interessi in comune lanciata da DLP rompa uno schema consolidato, quello della ricerca solitaria del libro, mettendo in circolo una forma del tutto nuova di interazione sociale e di condivisione del sapere. Una forma che sembra andare nella direzione di quella che Sennett nel suo ultimo lavoro ha definito un’architettura della simpatia:
«un movimento progressivo che va dall’identificazione con persone che si conoscono all’identificazione con sconosciuti».
Proprio questo è l’obiettivo che si è posto Mike Benham, il giovane programmatore di Atlanta che ha lanciato il Distributed Library Project (DLP).
Prima di inziare a scrivere il codice di DLP, Mike aveva lanciato un progetto che non sembra abbia avuto lo stesso successo: Il libro della cucina comunitaria. Racconta Mike sul suo sito:
«Ero attratto dall’idea di usare molti piccoli contributi individuali per produrre un potente strumento collettivo, e pensavo che un libro di cucina potesse essere un ottimo esempio. Il piano consisteva nel raccogliere una singola ricetta per ciascuna persona del mio quartiere, quindi compilarle in un ricettario, e infine consegnare il libro a ciascuno».
Ma, per Mike Benham, la faccenda delle ricette non si sarebbe dovuta concludere con la stampa di un libro autoprodotto. Lo scopo principale era in realtà quello di fornire ai vicini un’occasione per incontrarsi e assaggiare i piatti realizzati dagli altri: «Così ognuno avrà l’opportunità di conoscere le migliori ricette degli altri, ognuno potrà assaggiarle, e i vicini avranno finalmente l’opportunità di incontrarsi».
Diviene necessaria, a tale riguardo, una breve digressione sulle ricette di cucina e sul loro rapporto con il software libero e con le fiabe.
E’ assai riduttivo intendere i continui riferimenti di Richard Stallman alle ricette di cucina – da lui intese come un vero e proprio “modello” del il funzionamento del software libero – come semplici metafore. In realtà l’analogia è, per così dire, strutturale (si potrebbe parlare di isomorfismo) e può essere riferita, allo stesso modo, ad un’ altra importante manifestazione storica dell’intelligenza collettiva: le fiabe popolari. Esattamente come le ricette sono sottoposte a processi di personalizzazione e variano da una regione all’altra, le fiabe hanno subito un continuo rimaneggiamento da parte dei narratori, con l’aggiunta di alcune parti e la rimozione di altre, l’adeguamento dell’intreccio alle caratteristiche culturali del territorio e così via.
Nel suo ultimo libro (Free Culture) il professor Lawrence Lessig si intrattiene lungamente sul rapporto tra la Disney e i fratelli Grimm.
La multinazionale dell’intrattenimento, sostiene Lessig, attraverso il prolungamento delle leggi sul copyright, impedisce che altri possano comportarsi con la Disney come la stessa Disney si è comportata con i fratelli Grimm.
In altri termini, saccheggiata l’opera dei Grimm proprio in virtù delle leggi sul copyright del passato, la Disney fa pressione per modificare l’estensione temporale del copyright sempre più frequentemente, allo scopo di non essere a sua volta saccheggiata.
Questa critica, peraltro ineccepibile, trascura un punto che a noi sembra essenziale. Un punto che segna uno iato difficilmente colmabile tra la nostra prospettiva e quella di Lessig: non è sufficiente chiedersi cosa abbia fatto la Disney ai fratelli Grimm; occorre anche chiedersi cosa hanno fatto i fratelli Grimm alla cultura popolare che per millenni ha alimentato l’universo narrativo della fiaba.
Sebbene Lessig sia consapevole dell’importanza della tradizione orale e sia uno strenuo difensore delle cosiddette “opere derivate” non riesce ad effettuare quel salto teorico e metodologico che cinquant’anni fa spingeva gli studiosi italiani a parlare di “culture subalterne”. Termine abusato, è vero, ma a mio parere straordinariamente utile, ai nostri giorni, per discutere delle declinazioni alternative dell’infotelematica, soprattutto in relazione alle problematiche giovanili.
Quando i Grimm stilarono i “Kinder- Und Hausmarchen” raccolsero le fiabe direttamente dalla “bocca del popolo”. Le fiabe di maggior successo dei Grimm devono molto a quella ricerca nell’immaginario popolare.
Tra l’epilogo di Livejournal e l’epilogo della fiaba popolare c’è un tratto comune: l’esaurirsi delle variazioni, delle personalizzazioni, e dunque del rapporto concreto e materiale del testo (o del codice) con il vissuto, con l’esperienza sociale e con le possenti spinte liberatorie che da essa costantemente si sprigionano.
Il problema non è allora soltanto quello di tutelare i diritti degli autori di opere derivate, ma anche quello di farsi le domande giuste sul “bacino” dell’intelligenza diffusa e sulle risorse antagoniste che ancora quel bacino è in grado di produrre. Di qui la mia tenace difesa di alcune declinazioni dell’utopismo telematico.
Quando Stallman dice che un programma informatico “è come una ricetta di cucina” si dimostra assai più vicino alla prospettiva delle culture subalterne di quanto lo sia Lessig.
“Non si danno ricette per le trattorie del futuro” ammoniva Karl Marx. “E perché no ?” ribatteva, tra il serio e il faceto, Italo Calvino in uno splendido saggio su Fourier. Già, perché no ? E’ la più tentatrice delle domande.
Per esempio, Mike Benham, un venticinquenne che probabilmente non ha mai letto Putnam o Sennett, è convinto che il principale problema della società sia da ricercare nell’isolamento sociale, che impedisce la relazione tra pari e lo sviluppo delle forze creative e produttive della società.
E’ un concetto che ritorna anche nell’ incipit di D.L.P. in cui egli afferma:
«Il tradizionale sistema delle biblioteche non fa molto per promuovere comunità: la gente va e viene e le opportunità di stabilire relazioni sono scarse… Noi lavoriamo nella direzione opposta, dato che l’esistenza stessa della biblioteca si fonda sull’interazione diretta fra utenti».
La logica che presiede ad interfacce technosociali del tipo di DLP è quella dei “piccoli contribuiti individuali” che, come scrive Benham, “producono potenti strumenti collettivi”. DLP intreccia la strategia della lumaca con le modalità cooperative swarm, tipiche degli sciami di insetti. Strategia della lumaca, perché il processo di accumulazione dei cataloghi è lento, ricorsivo, basato sulla crescita inesorabile del database. Cooperazione swarm, perché le regole di comportamento degli utenti che mettono a disposizione opere della propria collezione sono rapide e di facile comprensione. I ponti del bridging telamatico non sono “grandi opere” nel senso in cui potrebbe esserlo il ponte sullo stretto, ma ponti di barche che si realizzano attraverso una fitta trama di microcomportamenti intelligenti.
Tuttavia progetti di questo genere, che mirano a costruire interfacce technosociali tra rete e territorio, sono in costante aumento. Si va dai flashmob, una forma di manifestazioni lampo, solitamente di carattere ironico, che giocano sulla sorpresa e trovano nella rete le loro modalità organizzative, fino a idee virus come il BookCrossing, per arrivare a siti web che si propongono esplicitamente la socializzazione sul territorio, come l’ormai celebre MeetUp. Scott Heiferman, Il CEO di Meetup, ha dichiarato più volte di essersi dedicato allo sviluppo del progetto dopo la lettura di Bowling Alone di Robert Putnam. Ai sennettiani usi del disordine potrebbero invece ispirarsi i praticanti del flashmob, che spezzano il frame urbano, l’ordine funzionale delle metropoli, con spettacolari bizzarrie dal tono vagamente situazionista. Emblematico a tale riguardo uno degli ultimi flashmob romani, quello che si è tenuto nel corso della “notte bianca” del 28 Settembre 2003, in cui un folto gruppo di persone munite di gessetti ha colorato in pochi minuti tutti i sanpietrini di una piazza della capitale, trasformando il selciato in un caleidoscopico mosaico pavimentale.
Non si tratta del movimento verso l’alto dell’ angelo di Benjamin ma della caduta di quello di Wim Wenders. L’intelligenza collettiva scende a terra, si sporca le mani, impegnandosi nella ricerca di soluzioni empiriche ai problemi della vita ordinaria: “sale al concreto”.
Perché, a ben guardare, nell’universo logico dell’infotelematica il territorio è il punto di arrivo, non quello di partenza.
Così qualcuno già pensa a un software di rete che automatizzi l’autostop, con sistemi di prenotazione online basati sul principio del car sharing. Altri, sulla scia dei G.A.S. (Gruppi di Acquisto Solidale), tentano di realizzare un sistema di rete che permetta acquisti collettivi che vanno direttamente dal consumatore al produttore.
Nel primo caso si tratterebbe di una significativa risposta all’inquinamento urbano e all’arroganza dei petrolieri, nel secondo, di un raffinato tentativo di affrancarsi dai costi della pubblicità e da mediazioni non sempre innocenti.
Ben lungi dall’essere un “eremita ornamentale” chi pratica il bridging telematico è invece il protagonista di una vertiginosa “fuga da fermo”, che vorrebbe risolversi in una ridefinizione collettiva delle forme dell’abitare.
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