Giuseppe Patella, Vita e morte dell’intellettuale postmoderno
«La tentazione di Siracusa»
Se consideriamo la attuale progressiva irrilevanza degli intellettuali, la loro scarsa influenza sui processi decisionali della società, la loro definitiva perdita di prestigio sociale, possiamo concluderne che gli intellettuali siano una classe già estinta o in avanzato processo di estinzione? A questa domanda è facile rispondere che è sotto gli occhi di tutti che nella società contemporanea sono cambiate molte delle condizioni che garantivano non solo la loro azione ma anche la loro sopravvivenza e, quindi, oggi quello che è in discussione è proprio la loro stessa ragion d’essere.
D’altra parte oggi è notoriamente venuta meno la stagione dell’impegno e con essa sembra essere tramontata anche l’epoca posta all’insegna di quella che Jacques Derrida ha chiamato la «tentazione di Siracusa», che si può intendere cioè come l’epoca dominata dalla tentazione ricorrente degli intellettuali di intervenire direttamente in politica, di consigliare i potenti e in qualche modo di deviare o condizionare il corso della storia.
Scrive infatti Derrida (2001, p. 9):
«Un filosofo crede di essere qualificato per illuminare con i suoi consigli politici un’arte o un potere di governare; si sente chiamato da un potente, dall’imperatore, dal sovrano, dal re, il principe o il tiranno, dal capo di Stato o il dittatore, il Duce o il Führer, dal Presidente o il Segretario generale del partito, di una Causa o di un Sindacato». In questa tentazione, in cui sono caduti tanto Platone nell’antichità quanto Heidegger nel Novecento, solo per fare due nomi, «si possono anche vedere le gesticolazioni, talvolta ingenue, talvolta colpevoli, di pensatori che hanno creduto o voluto, sino al secolo che è appena terminato, divenire gli ispiratori, i consiglieri, i teorici del sovrano, i maestri del pensiero dei padroni dell’epoca, i mentori di un potere conservatore o rivoluzionario» (p. 10).
Nel nostro tempo però, in cui abbiamo fortunatamente abbandonato l’orbita di una filosofia politica di ispirazione platonica secondo cui il filosofo, l’intellettuale si erge a figura superiore, a detentore della verità, siamo tuttavia ancora alla ricerca di una nuova maniera di pensare il rapporto tra filosofia e politica, tra sapere e potere, tra letteratura e società. Così nel frattempo la figura dell’intellettuale ha subito forti contraccolpi e ha assunto nuovi ruoli e nuove conformazioni.
Le trasformazioni più importanti, come è noto, oggi sono molte e riguardano sommariamente la pervasiva influenza della dimensione del mercato sulla vita intellettuale, la progressiva spinta all’istituzionalizzazione e alla professionalizzazione della vita intellettuale, ma anche e forse soprattutto il crescente potere dei media e del sistema della comunicazione, che cancella ogni residuo spazio di autonomia e pregiudica la libertà propria della figura dell’intellettuale critico tradizionale.
Dal moderno al postmoderno
Ora, tutto questo coincide esattamente con quello che viene considerato il passaggio dal moderno al postmoderno. Tuttavia, si deve rilevare che se la postmodernità ha rappresentato il momento storico in cui si è dissolta la funzione politica e sociale dell’intellettuale, in cui è venuto meno il ruolo dell’intellettuale tradizionale, essa ha nondimeno rappresentato l’epoca del vero trionfo dell’intellettuale, il momento storico della sua massima penetrazione nella società grazie anche al sistema dell’informazione e della comunicazione generalizzate in cui viviamo. Con tutte le conseguenze di cui si diceva prima e cioè: perdita di autonomia, di prestigio, professionalismo, istituzionalizzazione, conformismo, cultura ridotta a business o a entertainment e così via.
Allora, in realtà, quello che abbiamo davanti agli occhi è un panorama fatto da un mondo intellettuale in piena decomposizione. Secondo una ben nota analisi del ruolo degli intellettuali negli ultimi decenni, oggi ci troveremmo di fronte ad una situazione di profonda decadenza con gli intellettuali che sarebbero passati dal ruolo di legislatori a quella di interpreti.
Come noto si tratta dell’interpretazione di Zygmunt Bauman (1992), secondo il quale se il
«significato intenzionale di “essere un intellettuale” è quello di porsi al di sopra degli interessi settoriali della propria professione o del proprio genere artistico e di fare i conti con le questioni globali di verità, giudizio e gusto dell’epoca» (p. 12),
quello che oggi è venuto meno è proprio questo suo ruolo tradizionale non solo di legislatore, ma anche – si potrebbe dire – di giudice culturale. Ruolo che consiste
«nel fare affermazioni autorevoli che arbitrano controversie di opinioni e selezionano quelle opinioni che, una volta prescelte, diventano corrette e vincolanti» (p. 15). Nell’epoca moderna l’autorità per dirimere le controversie «è legittimata dalla conoscenza superiore (oggettiva) alla quale gli intellettuali hanno un accesso più facile rispetto alla parte non intellettuale della società» e «l’accesso a questa conoscenza è più facile grazie alle regole procedurali che garantiscono la conquista della verità, il raggiungimento di un giudizio morale valido e la scelta di un corretto gusto artistico. Tali regole procedurali hanno una validità universale. […] Al pari del sapere che essi producono, gli intellettuali non sono legati a tradizioni locali o comunitarie. Essi sono, assieme alle loro conoscenze, “extraterritoriali”.
Questo dà loro il diritto di convalidare (o non convalidare) credenze che possono essere sostenute in diverse parti della società» (ibid.).
Con l’avvento del postmoderno invece la strategia del lavoro intellettuale cambia radicalmente e va posta all’insegna della metafora del ruolo di “interprete”, che consiste – scrive ancora Bauman (pp. 15-16) –
«nel tradurre affermazioni, fatte all’interno di una tradizione fondata sulla comunità, in modo tale che possano essere capite all’interno del sistema di conoscenza basato su di un’altra tradizione. Anziché essere orientata verso una scelta del miglior ordine sociale, questa strategia è intesa a facilitare la comunicazione tra partecipanti autonomi (sovrani). Essa si cura d’impedire la distorsione di significato nel processo di comunicazione».
Si passa dunque dall’intellettuale legislatore all’avvento dell’intellettuale interprete. Ma cosa vuol dire esattamente?
Gli specialisti nelle legittimazioni dei discorsi di interesse collettivo hanno perduto progressivamente terreno. I discorsi di verità, di giudizio e di gusto, un tempo amministrati da questi metaprofessionisti, sono ora controllati da forze su cui gli intellettuali stessi non hanno più alcuna influenza. Il controllo è passato ad altre forze, che non hanno più bisogno di alcuna legittimazione, se non quella garantita dalle stesse regole procedurali istituzionalmente sostenute, garantita dal potenziale produttivo della loro tecnologia. Ora troneggia una nuova autorità: il mercato (e il sistema della comunicazione) in cui «prezzo e “domanda effettiva” detengono il potere di distinguere tra il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto» (p. 180).
L’avvento dell’intellettualoide postmoderno
Siamo dunque alla fine dell’intellettuale legislatore, in cui però paradossalmente continuano a muoversi molti altri, nuovi intellettuali, gli intellettuali interpreti, per dirla ancora con Bauman, oppure meglio oggi sempre più figure di intellettualoidi, come vengono anche chiamati per esempio da Corinne Maier (2007) in un recente pamphlet. Chi è l’intellettualoide? L’intellettualoide sarebbe la versione trash dell’intellettuale, e cioè la banalizzazione e volgarizzazione di un ruolo dapprima riservato a pochi eletti e ora diventato di massa, l’intellettuale prét à porter, democratico se vogliamo, alla portata di tutti, in grado di mettere insieme bei discorsi vuoti farciti di frasi fatte e parole difficili, di esprimere pareri su tutto e su tutti stando comodamente seduto sulla poltrona di uno studio televisivo.
L’intellettualoide sarebbe così un intermediario culturale, una sorta di suppletivo della cosa scritta, cui non serve del vero talento o della creatività, gli basta solo un po’ di competenza e di abilità, un bell’eloquio e un po’ di savoir faire, si potrebbe dire. Al giorno d’oggi, al tempo della comunicazione generalizzata e del marketing dell’intelligenza, per esistere l’intellettuale deve essere mediaticamente spendibile e saper piazzare adeguatamente le proprie merci sul mercato dell’intelligenza. È evidente che alcuni lo sappiano fare meglio di altri, occupando brillantemente tutti gli spazi disponibili sulla grande scena dell’universo della comunicazione. Esistono infatti diversi casi di marketing culturali di successo, tanto in Italia quanto all’estero, come in Francia per esempio, dove con l’etichetta “nouveaux philosophes” si è ormai da anni avviato un business intellettuale assai redditizio, benché teoreticamente considerato piuttosto inconsistente. Come è stato brillantemente scritto, proprio come la nouvelle cuisine, i nouveaux philosophes sarebbero “dietetici”;
«maneggiano termini vaghi e mal definiti come “legge”, “potere”, “maestro”, “mondo”, “ribellione”, “fede” […]. Finiscono così col saturare il campo della realtà, senza mai deflorarla» (Maier 2007, p. 56) veramente.
Oppure, come già sosteneva senza mezzi termini Gilles Deleuze, il loro pensiero non vale nulla, piuttosto essi «vanno avanti per grossi concetti, grossi come denti cavi».
Negli anni Ottanta e Novanta abbiamo avuto figure di intellettuali che hanno rappresentato il fior fiore dell’intellighenzia dell’Occidente: l’intellettuale oracolare, sapienziale, dedito alla consacrazione del verbum e alla riflessione sui miti fondativi o sulle mediazioni tra l’umano e il divino, oppure l’intellettuale ironico e distaccato, brillante combinatore di linguaggi e di scritture, espressione primaria di un diffuso scetticismo e nichilismo teoretico. La cosiddetta condizione postmoderna ha trasformato profondamente le basi dell’attività intellettuale e ha avuto un forte impatto sul modo in cui gli intellettuali vedono e pensano se stessi. A differenza dell’intellettuale di ispirazione illuministica animato da ambizioni universalistiche, si sono piuttosto fatti largo intellettuali che non pensano più di rappresentare la verità universale ma di affermare al massimo l’identità di un gruppo o la realtà di una dimensione particolare. Se l’intellettuale legislatore, per dirla ancora con Bauman, era colui che in nome di principi universali sindacava autorevolmente tra opinioni diverse ed era in grado di avere un impatto diretto sulla formazione dell’opinione pubblica, l’intellettuale postmoderno in qualità di interprete si preoccupa solo di agevolare la comunicazione e di vendere al meglio le proprie risorse sul mercato della comunicazione.
Naturalmente si potrebbero fare molti esempi di star dell’ambiente intellettuale, ma la musica è sempre la stessa: per stare sulla scena l’intellettualoide postmoderno deve interessarsi di tutto e diffondere abbondantemente pareri su tutto. E a questo proposito l’attualità e la cronaca internazionale gli offrono un ricchissimo materiale su cui esercitarsi. E quanto più la sua reputazione intellettuale cresce tanto più egli deve intervenire su scala mondiale servendosi di tutti i media possibili, commentando sui giornali, rilasciando un’intervistata alla radio o alla televisione, intervenendo in un blog, firmando un appello o un referendum.
Non è facile però stare sul mercato mediatico intellettuale, bisogna fare attenzione a non muoversi controcorrente, ma nuotare abilmente nel mainstream, collocarsi al centro dell’attualità, porsi sulla stessa lunghezza d’onda dell’ideologia dominante, sapendo che la parola è più importante del pensiero, che l’opinione pubblica è più importante delle idee, che il paratesto è più importante del testo. Occorre in fondo imparare a dissimulare e a guardarsi bene dall’utilizzare l’unica vera e propria arma dell’intellettuale e cioè la critica, a servirsi abilmente di termini e concetti magniloquenti per lasciare in fondo le cose come stanno e legittimare di fatto lo status quo. Su questo terreno è allora facile finire per fare concorrenza ai giornalisti o confondersi con essi, che sono poi i veri padroni della scena mediatica e del business intellettuale, e alla fine è infatti inevitabile che si ritrovino poi tutti a mangiare alla stessa greppia, come si dice (cfr. Halimi 2000).
In questo senso i nuovi intellettuali, gli intellettualoidi o gli intellettuali postmoderni che dir si voglia, non hanno più bisogno di titoli accademici o di cattedre universitarie (benché oggi una cattedra universitaria non si neghi più a nessuno…), quanto piuttosto – si potrebbe dire – di una truccatrice e di un microfono. Qualcuno ha scritto che questi sono i «nuovi cani da guardia» del potere, quel che è certo è che oggi essi sono i corifei del conformismo esistente, i veri filistei del nostro tempo (cfr. Furedi 2007).
I nuovi conformisti
Anche l’attuale sviluppo del professionalismo, ad esempio, lungi dal rappresentare un vantaggio, ha costituito invece una seria messa in crisi del ruolo intellettuale, perché quando il lavoro intellettuale diventa professionalizzato esso perde autonomia acquistando invece una mera funzione manageriale. Così, se da un lato la crescita di un mercato delle idee ha favorito la professionalizzazione dell’attività intellettuale, dall’altro lato l’aumento della domanda di lavoro intellettuale ne ha impedito un vero esercizio libero ed autonomo.
La vera minaccia che oggi incombe sugli intellettuali, non è quindi soltanto l’accademismo, l’isolamento o lo spirito commerciale del giornalismo e dell’editoria, bensì proprio il professionalismo. E cioè, come scrive ad esempio in modo molto efficace Edward Said (1995, pp. 82-83), l’atteggiamento di
«chi pensa di svolgere il proprio compito come un’attività lavorativa qualsiasi, tra le nove del mattino e le cinque di sera, tenendo d’occhio l’orologio ma con qualche ammiccamento al corretto stile del presunto vero professionista: non creare incidenti, non scostarsi dai modelli e dai limiti convenzionati, mostrarsi disponibili al mercato e, soprattutto, mantenere il doveroso contegno: non prestando mai il fianco, non scendendo sul terreno della politica, mantenendosi “oggettivi”».
Così inteso, dunque, il professionalismo è il contrario dell’apertura e della generosità intellettuale, porta con sé lo specialismo, quindi il limitarsi a praticare un campo del sapere ridotto ed angusto, che in via di principio esclude un punto di vista più generale che tenga conto non solo delle necessarie connessioni e integrazioni fra le diverse sfere della conoscenza, ma anche delle esperienze concrete e delle condizioni materiali necessarie alla realizzazione di un’opera o alla produzione della conoscenza. In queste condizioni, inoltre, la specializzazione finisce con l’uccidere anche l’entusiasmo e il piacere della ricerca, che sono notoriamente due elementi costitutivi dell’identità intellettuale.
Un altro tipo di effetto provocato dal professionalismo, come rileva ancora Said, è poi
l’inevitabile spinta verso il potere e l’esercizio del comando, verso i requisiti e le prerogative del potere: la sollecitazione a mettersi direttamente al suo servizio (p. 88).
Quanto poi all’istituzionalizzazione del lavoro intellettuale, questa ha comportato una profonda svalutazione del ruolo dell’intellettuale e ha di fatto provocato la sua scomparsa, dal momento che le sue funzioni vengono assolte dalle istituzioni e dai professionisti che vi lavorano. L’intellettuale che veicola sui media le proprie idee si è così trasformato in una mera figura al servizio dello spettacolo. L’intellettuale indipendente che un tempo si muoveva al di fuori o contro il sistema ha oggi lasciato il posto alla sua controfigura, cioè ad un personaggio perfettamente inserito nel sistema, sempre alla ricerca di una nuova tribuna mediatica e soprattutto sempre più bisognoso di riconoscimento accademico e istituzionale. Ma è evidente che nel momento in cui l’identità intellettuale è sempre più subordinata all’accreditamento e al consenso istituzionale, ciò che viene meno è esattamente la ragion d’essere dell’intellettuale, quindi la sua autonomia.
Ora, la cosa interessante – come rileva giustamente Frank Furedi (2007) in un libro recente tradotto in italiano col titolo Che fine hanno fatto gli intellettuali? – è che coloro che oggi difendono lo status quo non sono più i rappresentanti del conservatorismo culturale, anzi al contrario,
«gli intellettuali della destra sono spesso disgustati dalla vita culturale e vorrebbero vedere cambiamenti profondi a livello culturale e istituzionale. La difesa delle istituzioni formative e culturali, tradizionalmente assunta dalla destra, è stata fatta propria dai professionisti e dagli esperti dediti al lavoro intellettuale» (p. 64).
Di qui, si può rilevare una profonda aura di neoconservatorismo che ha finito per accompagnare le discussioni intorno al ruolo dell’intellettuale. E questa atmosfera di conformismo, come abbiamo visto, è diffusa soprattutto tra gli accademici di professione, secondo i quali ogni discorso che provi a prendere in considerazione l’attuale crisi del lavoro intellettuale viene sbrigativamente liquidato come un lamento per i bei tempi andati, come un tentativo nostalgico di tornare al sistema elitario del passato. Questa ripetuta difesa dello status quo, questo appiattimento alle esigenze dell’istituzionalismo accademico, in realtà è qualcosa di profondamente inedito, non ha di fatto precedenti nella storia intellettuale della modernità e, dunque, come sostiene ancora Furedi (cfr. p. 64-66), mostra tutta la peculiarità dell’odierna vita intellettuale, agli inizi del XXI secolo. In questo senso si può dire che il vero nuovo intellettuale è l’intellettuale conformista, colui che in nome della legittimazione e dell’autorità garantitegli dall’istituzione di appartenenza abdica di fatto alla propria indipendenza e alla propria autonomia.
La terapia del dilettante
A questo proposito, allora, aveva visto bene Said quando rilevava che il vero pericolo del nostro tempo è il professionalismo, e cioè il rischio che l’intellettuale diventi un perfetto impiegato della conoscenza, un lavoratore intellettuale modello, integrato e pacificato. E contro questa malattia Said proponeva come antidoto la terapia del “dilettantismo”, vale a dire la pratica dell’intellettuale che si vede come un dilettante, un outsider, un uomo di confine, che fa della propria marginalità una figura rappresentativa di altre marginalità, che trova «la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate oppure censurate» (Said 1995, p. 26). Senza alcuna enfasi ideologica, Said vedeva nel dilettante colui che è in grado di sollevare questioni provocatorie, di sfidare ortodossie e di contestare lo status quo perché è animato dal
desiderio di agire non sulla spinta di un guadagno o di un riconoscimento ma per amore di un disegno di più vasto respiro, che stimola un interesse inesauribile, non ultimo quello di superare confini e barriere, rifiutandosi di rimanere reclusi entro una competenza, e battendosi per idee e valori che trascendono i limiti di una professione (p. 85).
Il dilettantismo è quindi sinonimo di un’attività libera che
trova il suo alimento nella responsabilità e nella passione anziché nel profitto e nell’egoistica, angusta specializzazione (p. 90).
Lo spirito dell’intellettuale dilettante, egli continua,
sa permeare di sé la normale routine professionale cui siamo più o meno tutti soggetti, trasformandola in qualcosa di molto più vivo e sostanziale. Anziché fare ciò che diamo per scontato di dover fare, potremo avanzare domande su perché lo facciamo, su chi ne trae vantaggio e come sia possibile ricostituire il legame con un progetto personale, con un pensiero originale (p. 91).
È evidente che tutto questo può apparire molto semplicistico o può essere liquidato tacciandolo di puro e semplice idealismo romantico, tuttavia, rinunciando ad ogni funzione ideologica di mediazione e di controllo, per come egli lo intende, l’intellettuale – scrive Said (p. 37) –
non è né un pacificatore né un artefice di consenso, bensì qualcuno che ha scommesso tutta la sua esistenza sul senso critico, la consapevolezza di non essere disposto ad accettare le formule facili, i modelli prefabbricati, le conferme acquiescenti e compiacenti di ciò che i potenti o i benpensanti hanno da dire e di ciò che poi fanno. Una capacità che non si riflette soltanto nel rifiuto passivo, bensì nella volontà attiva di usare la parola in pubblico». La sua vocazione consiste così nel «mantenere uno stato di vigilanza costante, di indisponibilità perenne a non lasciarsi pilotare da mezze verità o da idee ricevute (ibid.)
Il valore simbolico dell’attività intellettuale
Ora, se nella situazione di declino dell’universalismo dei valori e nell’orizzonte dell’odierna cultura comunicativa non c’è più spazio per l’intellettuale come legislatore, perché sostanzialmente egli non ha più il controllo delle forze del grande mercato della comunicazione, questo più in generale significa che è assolutamente fuori gioco non solo la vecchia figura dell’intellettuale come dotto, teorizzata già due secoli fa da Fichte e che in varie forme è però rimasta in voga ancora nel primo Novecento, la cui missione era favorire il progresso universale dell’umanità, ma anche quella dell’intellettuale come faro-guida, che prende posizione sulle varie questioni della vita collettiva e indica la strada da seguire, espressione più profonda del controllo dei legami sapere-potere, così come quella tipologia dell’intellettuale organico teorizzata da Gramsci (1949).
Oggi però mi pare altrettanto appannata anche la figura dell’intellettuale come di colui che interviene nella società in virtù dell’autorità e del prestigio che gli deriva dall’autonomia del proprio campo e dall’indipendenza culturale e morale che questa garantisce. Malgrado il fascino indiscutibile di questa figura, ampiamente tratteggiata negli ultimi anni per esempio da Pierre Bourdieu (2002), bisogna a mio avviso riconoscere che gli intellettuali oggi non sono più in grado di controllare i complessi processi dei legami sapere-potere, non hanno più alcuna vera autorità e legittimazione sociale, non rappresentano più il collante ideologico di una comunità e non possono dunque più né mediare né governare culturalmente quei processi.
Tutto questo allora significa forse che dobbiamo arrenderci di fronte al conservatorismo dominante e al conformismo degli intellettualoidi odierni? Al contrario, invece, mi sembra quanto mai necessario resistere a queste tendenze e correre anche il rischio di essere scambiati per dei nostalgici o passare per laudatores temporis acti, riaffermando piuttosto l’indipendenza e il forte valore simbolico del lavoro intellettuale, che è pur sempre un’attività di ricerca essenzialmente libera, autonoma, disinteressata, altra dalla mera logica del profitto e dal sistema della comunicazione oggi dominanti, e che in fondo è interesse di tutti continuare a salvaguardare. L’intellettuale, dunque, è e rimane produttore di un sapere e portatore di una conoscenza la cui natura simbolica e sociale è profondamente antitetica alla mera logica di mercato ed è irriducibile a merce a mero scopo di lucro. E se in conclusione vogliamo proprio chiederci quale sia l’utilità del lavoro intellettuale così inteso, possiamo sempre ricordare – come scriveva Adorno (1986, I, p. 404) – che
«è successo di continuo, nella storia, che un lavoro che persegua obiettivi puramente teorici si sia rivelato capace nei fatti di trasformare le coscienze e quindi anche la stessa realtà sociale».
Bibliografia
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Arendt, H., 1999, La crisi della cultura nella società e nella politica, in Tra passato e futuro, trad. it. Milano, Garzanti, pp. 256-289.
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Derrida, J., 2001, La “tentazione di Siracusa”, in «Oros», n. 3, dicembre.
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Gramsci, A., 1949, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Torino, Einaudi.
Halimi, S., 2000, I nuovi cani da guardia. Giornalisti e potere, trad. it. Napoli, Pironti.
Maier, C., Intellettualoidi di tutto il mondo, unitevi!, trad. it. Milano, Bompiani.
Maldonado, T., 1995, Che cos’è un intellettuale?, Milano, Feltrinelli.
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Weber, M., 1976, Il lavoro intellettuale come professione, trad. it. Torino, Einaudi.
Da Agalma, 15, marzo 2008, La République n’a pas besoin de savants
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