Through the barricades #gazebobarricate.Noi torniamo domani alle 20.10 su Rai3
Publié par Gazebo sur mardi 25 octobre 2016
Dodici donne provenienti da Nigeria, Guinea e Costa d’Avorio, una delle quali incinta all’ottavo mese, respinte in piena notte da alcune decine di persone a Gorino, piccola frazione in provincia di Ferrara, Comune di Goro, Delta del Po. Tratto da Repubblica.it.
Qui non c’è niente. Niente per noi, che ci siamo nati: figurarsi per gli altri.
Potrebbe finire sui manuali di storia dei nostri anni complicati questa frase di una cittadina italiana, probabilmente moglie e madre, abitante della frazione di Gorino sul delta del Po, che ha partecipato al blocco stradale del suo paese per impedire l’arrivo di dodici donne immigrate coi loro figli nell’ostello requisito dal prefetto.
Le straniere sono state dirottate in tre altri centri del Ferrarese, Gorino continuerà a non ospitare nemmeno un immigrato, la protesta ha vinto. Smontate le barricate e il gazebo notturno i bambini possono tornare a scuola, i pescatori riprenderanno il mare. Tutto come prima? Non proprio. Quella frase dimostra che dall’egoismo del niente può nascere una vera e propria guerra per il nulla in cui viviamo. Che ci angoscia, ma che non vogliamo dividere con nessuno.
Sono parole sincere, fotografie brutali delle mille periferie italiane quelle pronunciate al posto di blocco di Gorino. L’ospedale più vicino è a 60 chilometri, il medico viene in paese un’ora al giorno e se ne va, gli uomini sono fuori in barca dal mattino presto fino al tardo pomeriggio perché vivono di pesca, quell’ostello prima requisito poi restituito funziona anche da bar, è l’unico centro di ritrovo del paese, ha qualche camera per i pochi turisti che in stagione vogliono fermarsi per un giro sul delta. È una vita minima, s’immagina di sacrificio, attorno alla casa, la famiglia e la pesca. Dovrebbe farci riflettere il fatto che l’unica volta in cui il paese si sente comunità, agisce insieme, trova un’espressione collettiva, è davanti alla notizia che arriveranno dodici richiedenti asilo. Gorino non ha stranieri, tutti sono del posto. Ma ugualmente reagisce ribellandosi al sindaco di Goro, al prefetto, al colonnello dei carabinieri che promettono di far fermare le migranti una sola notte in paese.
“Cosa vengono a fare qui? Abbiamo già i nostri guai, non ne vogliamo altri”.
Non ci voleva molto a prevedere quel che sta succedendo. La superficie sottile della civiltà italiana – la solidarietà cristiana, la fraternità socialista, il buon senso compassionevole liberale – si sta sciogliendo nei punti più deboli della nostra geografia sociale, i piccoli centri della lunga periferia italiana, i paesi di montagna e di campagna, le isole ghettizzate all’interno delle grandi città. Persone in buona parte anziane, estranee al circuito del consumo multiculturale, frastornate dalla globalizzazione, con gli immigrati si trovano nei giardini spelacchiati sotto casa un mondo che non hanno mai visitato e mai conosciuto, senza che le comunità siano state preparate a gestire il fenomeno, inquadrandolo nelle sue dimensioni, nelle prospettive, nel rapporto tra i costi e i benefici. Si sentono esposti, si scoprono vulnerabili, diventano gelosi del poco che hanno, egoisti di tutto: o appunto di niente, perché l’egoismo sociale funziona anche come forma identitaria di riconoscimento sociale e di auto-rassicurazione.
Va così in scena una vera e propria lotta di classe in formato inedito, che mette di fronte la modernità esausta e logorata della democrazia occidentale con la primordialità dei mondi disperati che prendono il mare per cercare sopravvivenza, e nient’altro. Gli ultimi si trovano davanti i penultimi, che non vogliono concedere agli stranieri un millimetro di spazio sulla terra che considerano loro. Se non fossero scesi fino appunto al penultimo gradino della scala sociale (quello di un ex ceto medio che viveva del proprio lavoro, e che con la crisi si sente precipitare nella mancanza di impiego e di futuro) non si sentirebbero sfidati direttamente dai richiedenti asilo che bussano alla nostra porta: non si sentirebbero “concorrenti”, invidiosi di quell’elemosina sociale che l’Europa elargisce con un’accoglienza riluttante, mandando i carabinieri a requisire sei stanze di un ostello vuoto in una stagione turisticamente morta. È l’ultima espressione del welfare state: nato come forma di solidarietà, come strumento di emancipazione e di integrazione – dunque di cittadinanza – , diventa simbolo di divisione e di identità, come un privilegio da consumare soltanto noi, al riparo dagli occhi stranieri e alieni.
Ci hanno mandate via perché non conoscono le nostre storie
Tratto da Il Fatto quotidiano.
“Ci hanno mandate via solo perché non conoscono, non capiscono le nostre storie”. Non c’è rancore nelle parole di Belinda, Joy e Faith, tre delle dodici profughe che erano a bordo della corriera diretta a Gorino, nel basso ferrarese. Alla notizia delle barricate erette dagli abitanti il loro autobus, partito dal centro di accoglienza di Bologna e arrivato ormai a Comacchio, ha deviato. E allora la stanchezza di un viaggio durato più di un mese ha lasciato spazio all’incredulità, al sentimento del rifiuto.
“All’inizio non capivamo cosa stava succedendo, non credevamo che non ci volessero, ci siamo rimaste male quando abbiamo capito che la popolazione non ci voleva”.
Hanno gli sguardi bassi Belinda, Joy e Faith. Li alzano solo per guardare Kevin, l’interprete. Si vede che sono esauste. Non nascondo che sono impaurite. Sono sbarcate sulle coste italiane sabato notte. Un aereo le ha trasportate domenica mattina all’aeroporto Marconi di Bologna. Dopo la meta rifiutata, hanno trovato temporanea ospitalità nella sede dei servizi alla persona di Ferrara.
Joy ha 20 anni. Ha abbandonato il suo paese a fine settembre. È incinta all’ottavo mese. Di lei qualcuno, a Gorino, ha detto: “Non me ne frega un cazzo se è incinta, vada in questura” (video). È scappata dalla Nigeria perché lei, cristiana, non voleva seguire la religione animista di suo padre. Per il viaggio fino in Libia ha pagato circa 420 euro. Ora, qui in Italia, vorrebbe studiare e sogna per il suo bambino “il miglior futuro possibile“. E il futuro prossimo lo immagina con ‘lui’ in braccio: “preferirei fosse un maschio, lo vorrei chiamare Michael”. Durante la deviazione forzata verso Ferrara ha accusato dei dolori alla pancia. In ospedale ha effettuato tutte le visite di controllo che hanno scongiurato complicazioni nella gravidanza. Ora la sua preoccupazione è un’altra. Al momento della partenza dalla Libia ha perso di vista suo marito Lamid e ora non sa più niente del padre del suo bambino: “Aiutatemi ad avere notizie se potete”.
Belinda ha 22 anni, viene dalla Sierra Leone. Lavorava come infermiera. È fuggita perché il marito era perseguitato politicoe quando è evaso di prigione “le autorità hanno cercato me per sapere dove si trovava, così ho dovuto abbandonare il mio paese”. Per il viaggio fino alla Libia ha pagato “circa 100 dollari”. Una volta arrivata però ha dovuto arrangiarsi e “trovare qualcuno che mi indicasse il posto da dove partono i barconi”.
Faith ha 20 anni. Ha lasciato il suo villaggio in Nigeria dopo essere scampata miracolosamente a un’incursione di Boko Haram. Ma la sua mente è ancora là: “Non so più nulla della mia famiglia, nemmeno se sono ancora vivi”. È scappata con altri profughi verso il Mali e da lì ha preso la via per la Libia. Qui ha trovato “un arabo che mi ha dato cibo e un posto dove dormire e mi ha aiutata a trovare chi poteva farmi attraversare il mare”. In Italia vorrebbe realizzare un piccolo sogno finora impossibile: “Vorrei poter studiare”.
Abidemi e le altre
Tratto da Notizie.Tiscali.it.
Abidemi in Nigeria faceva la maestra elementare. Ha dovuto smettere quando i terroristi islamici del Boko Haram – quelli che nel 2014 hanno sequestrato più di duecento studentesse, buona parte della quali sono ancora tenute in ostaggio – hanno cominciato a uccidere in modo sistematico i cristiani della sua regione. Le è stato suggerito di scomparire, possibilmente di raggiungere l’Europa. Come la maggior parte delle sue connazionali che intraprendono questo lunghissimo viaggio, ha raggiunto la Libia. Dopo l’arrivo ha creduto di trovare – nella casa di una donna – un rifugio provvisorio per il tempo dell’attesa di un posto su barcone. Ma, appena accettata l’ospitalità, ha scoperto d’essersi consegnata agli aguzzini. Le è stato ordinato di prostituirsi. Ha tentato di ribellarsi.
Scritto sulla pelle
Per spiegare quel che le è successo, Abidemi non ha bisogno di parole. Le basta abbassare il collo del maglione di lana e scoprire la spalla sinistra. E’ come se la pelle fosse coperta dalla carne di un altro corpo. Una poltiglia scura, gonfia, indurita. Sono le cicatrici delle ustioni causate dall’acqua bollente. Le torture sono andate avanti per giorni: acqua bollente e poi sale sulle piaghe. Finché, grazie all’aiuto di due donne che si sono impietosite e le hanno aperto la porta della prigione, è riuscita a fuggire. Il viaggio sul barcone è cominciato il 19 ottobre dalla costa libica e si è concluso dopo tre giorni, il 22, in Calabria. A bordo c’erano complessivamente duecento persone, e anche dodici ragazze con storie simili alla sua. Una di loro, Joy, era incinta di sette mesi.
L’odio all’arrivo in Italia
Abidemi ha raccontato la sua storia al quotidiano “l’Avvenire” che l’ha pubblicata con grande rilievo benché, in fondo, non sia poi storia straordinaria. E’ la stessa di ragazze che fuggono dalla Nigeria e vengono ridotte in schiavitù dai trafficanti. Non è nemmeno una storia nuova. Per trovarne altre, molto simili, è sufficiente andare in una biblioteca ben fornita e chiedere, per esempio, di consultare Le ragazze di Benin City, un saggio di Laura Maragnani, Isoke Aikpitanyi pubblicato da Melampo nel 2007. O anche Il mio nome non è Wendy, di Paola Monzini e Wendy Uba, uscito lo stesso anno per Laterza. La novità non è la storia della fuga e delle ragioni che l’hanno determinata. La novità è quel che è successo all’arrivo. Abidemi e Joy, infatti, sono due delle dodici donne che il la notte del 24 ottobre (cioè due giorni dopo essere approdate in Italia) furono respinte con le barricate dalla popolazione di Gorino, il piccolo centro in provincia di Ferrara a cui erano state destinate dalla prefettura. Adesso otto di loro vivono a Ferrara, ospiti di un’associazione cattolica, la Viale K, altre quattro a Codigoro, un altro comune della provincia, e sono seguite dalla cooperativa, la “Airone”. “L’Avvenire” le ha raggiunte e ha raccolto le loro storia per offrile ai suoi lettori. E anche agli abitanti di Gorino. Diritto d’asilo “contro” diritti dei cittadini.
“Perché proprio da noi?”
Il problema è infatti di sistema. E’ immaginabile che anche quanti hanno issato le barricate – pare essere proprio questa la scommessa dell’Avvenire, quotidiano di ispirazione cattolica – si porranno qualche problema nel sapere che hanno cacciato via persone realmente bisognose di aiuto. E, probabilmente, lo risolveranno domandando: “Sì, vabbene. Ma perché proprio da noi?”. Una domanda che sarà legittima fino a quando non si arriverà a una distribuzione equa dell’impegno umanitario. D’altra parte esistono già, nel sistema Sprar – la rete dei comuni italiani che hanno dato disponibilità a ospitare i richiedenti asilo – dei criteri che consentono di individuare, per esempio, il numero di rifugiati adeguato alla dimensione della città o del paese ospitante. Il problema è che a questa rete aderisce solo il dieci per cento dei comuni italiani. E che, quindi, manca la “base di calcolo” che consenta di arrivare a una distribuzione equa. E’, in scala nazionale, lo stesso problema che si pone a livello europeo. E che non si è riusciti ancora a risolvere.
Spiegare le cose ai cittadini
Il fatto è che il problema dell’equa ripartizione dell’impegno a sostegno dei rifugiati non può essere risolto attraverso atti di imperio, come appunto dimostrano il caso di Gorino a altre analoghe vicende avvenute un po’ in tutte le parti d’Italia. E’ anche necessario far conoscere ai cittadini l’antefatto. Spiegare bene che i richiedenti asilo sono persone che hanno realmente bisogno di aiuto e che sono arrivate da noi perché l’unica alternativa era rischiare di essere uccisi o incarcerati. Chiarire con i fatti (quindi con la buona amministrazione e con il welfare) che l’atto di ospitare non toglie nulla, ma eventualmente può dare qualcosa. E, in definitiva, consentire ai cittadini di affrontare l’incontro con gli ospiti in modo sereno, senza avvertirli come concorrenti o come invasori. E’ anche necessario, ovviamente, rassicurarli sul fatto che esistono filtri e controlli che consentono di individuare gli impostori.
Basta con le giustificazioni
E’ un processo molto lungo. E mai si arriverà all’individuazione di criteri perfetti. Per questa ragione il carattere sistemico del problema non può essere un alibi per giustificare il rifiuto aprioristico, spesso alimentato da organizzazioni politiche che lucrano voti sull’odio, dell’accoglienza. Storie come quella di Abidemi sono segnate dall’emergenza e dall’urgenza. Bisogna trovare subito una sistemazione. E può accadere di non individuare il luogo adatto. Cioè un comune dove la cittadinanza sia preparata e informata. Quando avviene è ogni singolo cittadino, facendo i conti con la sua coscienza, a dover decidere su come regolarsi. Se fare le barricate o se, invece, affrontare la situazione con un atteggiamento responsabile. Abidemi in fondo obbliga quanti l’hanno cacciata a mettere in relazione il loro disagio personale con la più grave sciagura umanitaria del nostro tempo.
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