Ricordare Foucault, nel trentennale della morte.
Che cos’è la critica? E’ l’arte di non essere eccessivamente governati.
Michel Foucault
Paolo Napoli, Il governo e la critica
Il contesto della ricerca di Foucault
In Qu’est-ce que la critique? [in «Bulletin de la Société Française de Philosophie», avril-juin 1990, 2, p. 35-63; trad. it. Illuminismo e critica, Roma, Donzelli, 1997] é descritta la storia di una virtù e sono spiegate le forme e le ragioni del suo valore permanente. Con felice agilità d’argomenti Michel Foucault invita il lettore a un’incontro originale con l’idea di critica costringendolo a superare entusiasmi e diffidenze che non di rado accompagnano la parola. La critica non appare lo strumento di un’egemonia intellettuale che segna il privilegio di una casta, quella dei critici appunto, é invece una forma di vita che caratterizza l’autonomia etica di ogni individuo, il lavoro progettuale di un’esistenza. Sottratta alla rigidità del metodo, essa resta esperienza pratica in cui concepire l’esercizio della libertà.
A questa nuova visione contribuisce Foucault quando nel maggio 1978 si trova alla Sorbona […]. Tuttavia per capire il contesto in cui matura in Foucault l’idea di «critica», occorre considerare due elementi: uno occasionale, l’altro più determinante. Il primo è l’incontro con la cultura buddista […] La pratica della meditazione, quale ricerca dell’unione tra il corpo e l’anima, viene avvicinata sulla scorta di una categoria assai pregnante come quella di «governo». Mentre nella pratica dello zen il rappporto col sé mira a una attenuazione della presenza dell’io, lo sforzo delle tecniche cristiane consiste nell’esaltare la presa sul soggetto, nel raggiungere la sua verità più profonda grazie a una strategia globale di goveno dell’uomo. Ma lo zen in realtà è solo l’occasione per attualizzare un problema che percorre da cima a fondo le lezioni al Collège de France a partire dal 1978: la questione del governo.
Ed é questo il fattore fondamentale che introduce alla riflessione sulla critica. Il problema del governo è infatti lo snodo concettuale che permette di articolare la dimensione del potere con quella del soggetto e apre, tra l’altro la possibilità di un discorso unitario sull’opera di Foucault. L’idea di governo rappresenta in tale senso l’episodio più completo e riuscito di un modo peculiare d’intendere il lavoro filosofico che si può così riassumere: costruire mezzi senza ascriverli a fini universali, allestire griglie di intelligibilità per impieghi multipli, non subordinati a specifici dettati ideologici. Con una civetteria minimalista Foucault ricorreva a un’imagine artigianale per definire la propria ricerca: una scatola di attrezzi. E siccome il governo, tra gli attrezzi da lui impiegati, sembra essere quello più polivalente, una sorta di chiave universale, é necessario chiarirne il senso e la funzione. E’ infatti il governo l’antagonista pratico e teorico, in relazione al quale prende forma la critica.
Dopo essersi cimentato con le tecnologie del potere psichiatrico e penitenziario, Foucault punta lo sguardo sulle forme della razionalità politica che hanno reso possibile la formazione dello stato moderno. Invece di presupporre in quest’ultimo l’unità originaria del potere, tenta di individuare prioritariamente gli strumenti e le tecniche che consentono di spiegare la costituzione della sovranità statale. L’arte di governo é il filo conduttore delle incursioni storiche che i corsi del 1978 e del 1979 abbracciano dall’inizio dell’età moderna fino al liberalismo del secondo dopoguerra; l’intento é quello di riconoscere un valore strutturale a questa tecnica che regola i rapporti con gli uomini e le cose, invece di concepirla come riflesso di fattori economici o come articolazione di istituzioni giuridico-politiche.
Il governo in Foucault
Quando parla di governo, Foucault intende far rivivere quel taglio semantico ampio che il termine conservava fino alla fine del XVIII secolo, prima che si verificasse quella riduzione in senso costituzionale ch ne contraddistingue l’uso odierno. In tal modo si percepisce meglio la funzione nuda del concetto in luogo della cosa che convenzionalmente si designa; come semplice correlato di una pratica, il governo é l’arte di destinare qualcosa e qualcuno a un certo fine:
governare significa strutturare il campo di azione possibile degli altri.
Ridotto alla sua essenza tecnica, il governo non appare più quella costante della filosofia politica che la storia delle idee é solita rubricare in lineare continuità da Platone in poi. E soprattutto perde quella che potrebbe sembrare un’evidenza naturale: il governare gli altri o l’essere governati non sono fatti normali, che accompagnano per necessità antropologica la comunità degli uomini; sono piuttosto eventi profondi della storia che vanno riportati in superficie per mostrare il limite della loro comparsa e ipotizzare eventualmente la possibilità del loro mutamento.
Il governo é il prodotto trasversale di un agire che coinvolge diverse zone della vita individuale e collettiva senza rinviare a un’immutabile essenza o a un centro unico di irradiazione. Per tale motivo é un’arte pratica, un modo di fare che appartiene alla capacità inventiva e alla forza circolante delle tecniche: di qui la conseguenza che il concetto di governo non può essere autosufficiente poiché si iscrive in un ordine strumentale, si rivela solo nelle prestazioni che offre. Per lo stesso motivo non si decifra in astratto, ma solo nel campo in cui si applica; la sua identità é multipla e regionale:
il fine del governo é nelle cose che dirige, é da ricercare nelle perfezione, nell’intensificazione dei processi che dirige, e gli strumenti di governo invece di essere delle leggi saranno delle tattiche multiformi. [La gouvernamentalité, leçon 1 février 1978, in Dits et Ecrits, III, pp. 635-57].
In ultima analisi il governo è semplicemente il nome che indica una tipologia peculiare e assai estesa delle relazioni tra attori e mondo. Si capisce che destrutturata in una forma così elementare e immediata, la nozione non si appiattisce nel banale significato contemporaneo, ma perde anche l’ingombrante voluminosità con cui si accampa quando la nominiamo. L’abilità di Foucault é quella di aver colto nel suo nucleo concettuale la figura opulenta di una cosa e di aver elaborato con ciò un agile strumento per penetrare nella storia.
Con una simile struttura, il governo é una pratica versatile in grado di illuminare una ricca gamma di situazioni; si va dalle relazioni circoscritte come quelle tra padre e famiglia, tra maestro e discepolo, tra sacerdote e fedele, tra medico e malato, tra sorvegliante e recluso, tra il soggetto e la propria anima, per giungere a quella più ampia e inclusiva che riguarda il governo di un territorio e di una popolazione: il governo centrale dello stato sulla società é solo la forma sintetica ed esponenziale di quegli altri gradi, autonomamente intelligibili, in cui si concretizza la prassi di governo.
L’arte di governare nel XVI secolo
Sullo sfondo di avvenimenti importanti quali la nascita delle prime unità politiche postfeudali e il processo della Riforma, l’arte di governare é un fenomeno che irrompe verso il XVI secolo su scenari differenti: il governo di se stessi, col movimento del neostoicismo che prende piede in Europa; il governo delle anime che riguarda la pastorale cristiana, il governo dei fanciulli con lo sviluppo della pedagogia; il governo della casa e della famiglia intorno al quale fiorisce la letteratura economica; e infine il governo degli stati da parte del principe. Il tema ricorrente é perciò il seguente:
Come governarsi, come essere governati, come governare gli altri, da chi si accetterà di essere governati, come fare per essere il miglior governante possibile.
Letto su una scala politica globale il problema del governo presenat tutta una serie di differenziazioni, le quali formano una linea di continuità ascendente o discendente che dal singolo giunge allo stato e viceversa, passando per tutti i rapporti intermedi che coinvolgono la famiglia, il lavoro ecc. […] Fenomeni elementari e rapporti più complessi si trovano così accomunati sotto un unico modulo esplicativo: le procedure attraverso cui gli individui instaurano un rapporto col proprio sé, costituendosi come soggetti, le tecnologie disciplinari indirizzate a individui o gruppi isolati in segmenti sociali (scuole, iospedali, carceri, fabbriche, ecc.) le prassi amministrative che gestiscono fattori complessi come la salute, la sicurezza, il benessere degli uomini. In definitiva, il Welfare State,problema sempre urgente nelle democrazie liberali, é la forma più sofisticata di un’arte di governo che si rivolge alla popolazione con la stessa premura e meticolosità con cui il pastore accudisce il suo gregge. Individuato innanzitutto come realtà storica, il governo diviene nelle mani di Foucault anche una categoria metodologica, uno strumento descrittivo che riflette la natuìra non sostanziale del potere (infra, p. 54) in quanto ne é la storicizzazione più esauriente:
Fondamentalmente, il potere non é tanto un affrontamento tra avversari o l’obbligo di qualcuno nei confronti di qualcun altro, quanto una questione di governo. [M. Foucault, Il soggetto e il potere, appendice a H. L. Dreyfus, La ricerca di Michel Foucault, 1982].
Appare allora più chiara l’operazione messa in campo da Foucault per circoscrivere il luogo della critica: se il modello analitico del governo ha una capacità rappresentativa così forte delle relazioni umane, allora é del tutto ragionevole concepire il fenomeno della critica come antidoto alla logica che il governo ha saputo concretare […].
Illuminismo e critica
La critica non può essere separata dall’evento che l’ha esaltata: l’Illuminismo. E’ qui che il problema storico del governo, in tutte le sue manifestazioni concrete, giunge alla soglia di accettabilità. Il compito della critica é quello di percepire il limite oltre il quale diventa intollerabile essere governati.
Tra la critica e i Lumi vi é sempre stata complicità reciproca, come se i due termini si confondessero inevitabilmente l’uno nell’altro. Questa immagine di consustanzialità é tuttavia rimossa dalla lettura che Foucault propone. La questione di natura teoretica che la critica solleva con Kant é tenuta in sordina nella sua autonomia, per essere calata in una dimensione storica che lascia cadere l’importanza dell’elemento trascendentale. In effetti, lo spostamento é preparato dallo stesso filosofo tedesco, in cui sono visibili le tensioni dell’Aufklärung: Kant infatti é quel maestro di equilibrio che, dopo aver composto un’opera sui limiti della conoscenza, predispone il contrappeso inscrivendo il coraggio di sapere nel bagaglio morale dell’uomo moderno. Per cercare il vero senso della critica occorre scavare, secondo Foucault, non tanto nelle tre grandi opere sistematiche di Kant, ma nella produzione laterale del filosofo, speculativamente più dimessa, che si interroga sulla storia e in particolare sull’Illuminismo.
Nella celebre Risposta alla domanda che cos’è l’Illuminismo del 1784 è infati delineato il profilo di un atteggiamento critico le cui antiche radici culturali sembrano confluire nella sintesi del testo kantiano. Ben prima di manifestarsi come sforzo per definire le forme legittime della conoscenza, la critica é un modo di essere della soggettività che fin dal XVI secolo si manifesta in contrappunto a quel modello regolativo del pensare e dell’agire che é il governo.
La religione col movimento della Riforma e della nuova esegesi biblica, il diritto con la nascita del giusnaturalismo, la scienza con l’affermazione del principio di certezza su quello d’autorità sono i segni principali di un nuovo approccio alle cose […]. Ecco i precedenti culturali più importanti che consentono a Kant di caratterizzare l’Illuminismo come sapere aude […] Se é questo il quadro che Foucault presenta, l’impostazione sembrerebbe condividere letture ampiamente consolidate come quella di Koselleck in cui é illustrata la formazione di un Régne de la critique che da Bayle passando per Voltaire e l’Enciclopédie giunge fino a Kant. Ma l’analogia é solo nella prospettiva storica in cui il tema della critica é affrontato. Concentrandosi sulla comunità dei dotti, quella République des lettres che si forma alla fine del XVII secolo, l’analisi di Koselleck si mantiene fedele a una critica intesa come arte del giudizio che, discernendo la verità in ogni cambiamento, diviene il fondamento della ragione. L’esercizio illimitato della critica, in un processo che cresce gradualmente fino al riconoscimento culminato nella prefazione della Critica della ragion pura, si assegna come fine la separazione del vero dal falso.
Al contrario il testo di Foucault vuol rimuovere una simile rappresentazione. […] La critica non è la decima musa acclamata da Voltaire, che si professionalizza nelle figure dell’uomo nuovo, il critico, e si mimetizza nella grande finzione di fine secolo, il tribunale dell’opinione pubblica. Non simboleggia perciò il compimento della maturità antropologica e la realizzazione delle potenzialità conoscitive. La fuoriuscita dalla minorità che contrassegna l’uomo iluminato di Kant non é lo stadio d’arrivo, ma semmai il suo opposto, il prendere congedo da una realtà. la critica si lega a questa vocazione apolide del soggetto che nella legge dell’indocilità trova il suo punto d’equilibrio; la sua ragion d’essere fondamentale é nell’irrequietezza della possibilità più che nella serenità della certezza.
Pertanto prima di essere lo strumento principale di una ragione che vuole sapere, la critica é un atteggiamento dell’uomo, una postura peculiare del soggetto che anticipa l’esistenza del giudizio cognitivo:
una specie di forma culturale generale, un atteggiamento morale e politico, una maniera di pensare ecc. che definirei semplicemente l’arte di non essere governati o, se si preferisce, l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo [infra, pp. 37-8].
La difficoltà nel denotare con esattezza questo atteggiamento critico non deriva da una carenza di elaborazione da parte di Foucault, ma dall’oggetto in sé, che si lascia connotare solo mediante una serie di perifrasi:
una certa maniera di pensare, di dire e anche di agire, un tipo di rapporto con l’esistente, con ciò che si sa, con ciò che si fa, un rapporto con la società, con la cultura, con gli altri [infra, pp. 34].
La critica alloggia in questa zona non titolata tra spere e agire che realizza in definitiva la virtù. Una virtù particolare, che non nsi riflette in contenuti determinati, ma sembra piuttosto fare appello a uno stile mentale, a una maniera di predisporsi. Sotto questa angolatura, nella lezione inaugurale al Collège de France, con elegante ossimoro Foucault aveva definito lo stile critico una «studiosa disinvoltura» [L’ordine del discorso, 1972, p. 53], mostrando chiaramente quanto forte fosse la suggestione nietzscheana del filosofare danzante.
Se lo scopo dell’atteggiamento critico é limitare l’ingegnosità delle tecniche che governano la nostra vita, allora per chi, come Foucault, ha assimilato la lezione non solo di Nietzsche ma anche di Dumézil, l’agente di cui diffidare é la verità, l’espressione più raffinata del potere:
la critica designa il movimento attraverso il quale il soggetto riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità [infra, p. 40].
La funzione della critica tende così a dilatarsi: non é più solo una molla attitudinale, una piega del mondo di essere del soggetto nel mondo, ma si trasforma in arma teorica:
Se chiamiamo filosofia critica una filosofia che non muove dallo stupore che sia l’essere, ma dalla sopresa che ci sia la verità, allora abbiamo due forme di filosofia critica. Da una parte quella che si domanda a quali condizioni, formali o trascendentali, un enunciato può essere vero, dall’altra quella che si interroga sulle forme di veridiction, sulle differenti forme di dire il vero [dattiloscritto dell’introduzione a una lezione tenuta all’Università di Lovanio].
Seguendo il secondo percorso non resiste più una critica come strumento dualistico, come arte della distinzione al servizio del vero consacrata del secolo dei Lumi. Le degenerazioni della verità, gli effetti di dominio che essa veicola sono piuttosto l’obiettivo polemico in cui Foucault si sente compagni di strada della Scuola di Francoforte. A tale riguardo, però, gli accostamenti vanno fatti con prudenza, perché un certo comune sentire non basta a cancellare le differenze sostanziali tra le due prospettive. Per Adorno e Horkheimer l’accusa alla razionalità tecnica prelude al riscatto di un autentico umanesimo che, nella cornice di una visione dialettica della storia, si riappropri di un’essenza ingiustamente sottratta. La critica per giustificarsi deve comunque far riferimento a certi valori, ritenuti offesi dalla forza del pensiero calcolante. Per questa via la teoria francofortese reintroduce il motivo dell’universale col quale invece, la critica foucaultiana, più coerentemente, forse, intende recidere i ponti, perché proprio nella riaffermazione di essenze universali si cela il risvolto autoritario.
Foucault, peraltro, attraverso Canguilhem si é formato alla scuola di Bachelard, un epistemologo che rifiutava il fondamento unitario della scienza per affermare la costitutività della ragione connessa al suo campo applicativo. Di qui la tendenza a considerare un insieme di razionalità regionali in luogo di quella figura monolitica che é la «razionalizzazione», forma onnipervasiva del moderno, a cui dopo Nietzsche guardano prima Weber poi Adorno. In definitiva, la medesima percezione del pericolo produce risposte che, per metodi e finalità, appaiono divergenti: il pessimismo di Adorno e Horkheimer deriva dalla delusione per le promesse che l’Illuminismo non ha mantenuto, ma lascia aperta nel segno dialettico la possibilità teorica di riconciliare l’uomo con la natura, di ricomporre l’alienazione della cieca ragione strumentale.
Il pessimismo di Foucault, invece, non sorretto da un’analoga filosofia della storia, é completamente disincantato sulla ricostruzione di una totalità lacerata dall’autonomia della tecnica; reputa infatti ogni elemento, compreso il soggetto di conoscenza, un aggregato storico e ogni evento dotato di una logica relativa, non riconducibile a un movimento globale della ragione.
— continua–
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