Stralcio da questa introduzione alle flipper classroom (classi capovolte) suggerita da Lim e dintorni, le riflessioni più utili ad aprire il dibattito su una rivoluzione pedagogica affascinante [e problematica]. Le flipper classroom sono infatti classi nelle quali la lezione frontale è messa a disposizione dal docente su supporto multimediale e fruita fuori del tempo scuola, utilizzato invece per la discussione, l’approfondimento e la personalizzazione degli apprendimenti.
Come si vedrà, per molti aspetti, questa didattica rappresenta la possibile resurrezione di un attivismo pedagogico al quale, in Italia, il “riordino” gelminiano ha inferto il colpo mortale (cancellando o esternalizzando ogni tipo di laboratorio) [i lettori già introdotti alla storia della produzione e diffusione del sapere possono saltare l’introduzione].
Introduzione
Questo dipinto è datato attorno al 1350 e riproduce una lezione in una università europea. Ciò che raffigura è estremamente familiare. Ci sono tutti gli elementi fondamentali che contraddistinguono la realtà scolastica attuale: la cattedra e l’insegnante, il libro, gli allievi con i loro testi, attenti nelle prime file, distratti nelle ultime e c’è perfino … lo studente che dorme! Si tratta, ovviamente, di una semplice allegoria, ma guardando questa rappresentazione sembrerebbe che i secoli che ci separano da essa, lo sviluppo tecnologico, la ricerca pedagogica, la sperimentazione didattica e il contributo di generazioni di docenti non abbiano alterato in modo profondo le dinamiche, il clima, i processi che si svolgono nelle aule […]
Chi si trova ad insegnare ha una naturale tendenza a farlo allo stesso modo che ha sperimentato da studente, e chi ha scelto con convinzione questa professione è anche probabile che abbia avuto un feeling positivo con questa metodologia, che rinforza la sua tendenza a riprodurla. D’altra parte se la lezione ex-cathedra ha attraversato i secoli, considerando i cambiamenti che nel frattempo sono intercorsi in altre pratiche culturali, sociali, economiche, deve essere stata straordinariamente efficiente. Oggi, però, si profilano elementi che potrebbero cambiare significativamente questa realtà. Fra questi, in primo luogo, ci sono le profonde trasformazioni che stanno avvenendo nelle modalità di produzione e di diffusione della conoscenza. Soffermiamoci, ad esempio, sullo strumento che per secoli è stato la fonte stessa della conoscenza e in qualche modo il complemento della lezione ex-cathedra: il libro.
Il termine stesso lectio deriva da legere e originariamente la lezione aveva lo scopo di leggere ad alta voce il libro, che per lungo tempo è stato un oggetto estremamente raro e costoso. L’avvento della stampa a caratteri mobili ha rivoluzionato l’ecosistema culturale dominante e, come tutte le rivoluzioni, ha prodotto forti resistenze in chi reggeva il vecchio ordine. Per gli eruditi che l’hanno vista nascere la stampa non era altro che la volgarizzazione, nella sua accezione più negativa, della cultura. Si sosteneva sostanzialmente che senza un’interpretazione autorevole i testi non potevano essere veramente compresi dai nuovi lettori che vi accedevano privatamente. A distanza di tempo sappiamo bene come sono andate in realtà le cose. Se è vero che un accesso più democratico alla produzione e alla diffusione delle fonti della conoscenza ha abbassato la qualità dei testi e generato interpretazioni aberranti e mistificatorie, i vantaggi prodotti nello sviluppo scientifico, culturale e socia-le ad ogni latitudine sono incomparabili. Con la stampa la lezione lentamente cambia la propria natura. Il suo modello non è più la lettura del libro ad una classe, visto che chiunque vi ha accesso liberamente, ma la sua spiegazione, condotta da saggi. La tecnologia della scuola però rimane ancora basata sul libro, fonte au-torevole per antonomasia, e su docenti che ne facilitano e verificano l’apprendimento dei contenuti.
Oggi, come unanimemente riconosciuto, ci troviamo a vivere un altro momento contrassegnato da una radicale evoluzione dei processi di accesso e diffusione delle fonti della conoscenza, una fase che, se per molti aspetti ricorda l’avvento della stampa, per altri va decisamente oltre. L’evoluzione delle tecnologie digitali, e di internet in particolare, non offre solo un’ulteriore accelerazione e diffusione dei contenuti in modo istantaneo e su scala globale, ma una trasformazione di altri e più significativi aspetti. I contenuti non sono più fissi e definiti come in un testo stampato, ma fluidi e incessantemente in divenire. Non sono più codificati attraverso l’unico medium della scrittura, ma integrano molti media e originali strategie comunicative, che l’appropriazione sociale delle nuove tecnologie produce senza fine. Infine, l’aspetto più rivoluzionario: i contenuti sono generati da tutti. I new media annullano la divisione fra produttore e consumatore di contenuti, fra scrittore e lettore di testi. Non esiste più una filiera produttiva, un apparato di controllo e validazione, ma siamo tutti chiamati a partecipare, ad esprimere noi stessi, a produrre e condividere le nostre idee senza filtri e impedimenti. In sostanza sono i meccanismi stessi di creazione della conoscenza che sono cambiati: l’interconnessione globale ha dato vita alla cosiddetta intelligenza collettiva (Lévy, 1996).
L’abbattimento dei costi di connessione e la diffusione di strumenti di facile interazione hanno permesso lo sviluppo di progetti basati sulla collaborazione attiva di milioni di persone, ma anche la creazione di nuova conoscenza ricavata da semplici interazioni prodotte senza un’esplicita intenzionalità. Sono processi originali, non producibili con i meccanismi tradizionali. Gli esempi che si possono proporre sono molti, a partire da Wikipedia che è sicuramente il più conosciuto, ma ci sono prodotti che riguardano non tanto la divulgazione, ma proprio la ricerca scientifica, attraverso la cosiddetta Citizen Science. Nell’ambito delle patologie rare, siti come Patients like me consentono di condividere le esperienze di cura e di correlare i dati delle malattie; nell’esplorazione spaziale il coinvolgimento di comunità di astronomi amatoriali permette la classificazione dei crateri della Luna […].
Di fronte a questi cambiamenti è ragionevole ritenere che anche la lezione cambi la propria natura. In un contesto culturale profondamente rinnovato cambia il senso stesso dell’educare e di conseguenza cambiano le strategie didattiche e anche il ruolo e le funzioni di chi insegna. Se le istituzioni educative non sono più il luogo esclusivo di produzione della conoscenza e nemmeno quello di acquisizione dei contenuti, mantengono però una funzione che non può essere sostituita oggi da nessuna tecnologia, quella di facilitazione dei processi di apprendimento, di sostegno allo sviluppo delle facoltà cognitive, di guida all’acquisizione di competenze che consentono a ogni allievo di liberare le sue potenzialità e divenire parte attiva nella società.
Per meglio porsi in questa prospettiva occorre però operare profondi cambiamenti nella prassi didattica. È necessario rivedere i due momenti classici dell’attività educativa formale, quello della diffusione delle informazioni in classe e quello dell’assimilazione dei contenuti a casa, spostando maggiormente l’attenzione sul secondo rispetto al primo, diversamente da quanto fatto in passato, ovvero focalizzandosi sui processi di apprendimento che favoriscono in ogni studente la costruzione della propria conoscenza. Tutto questo cambia profondamente il ruolo del docente, ma certamente non lo sminuisce. Da esperto disciplinare e artefice della trasmissione dei contenuti egli si trasforma in guida, sostegno alla costruzione della conoscenza negli allievi, stimolo per favorire un’elaborazione personale dei contenuti, per attribuire significati a ciò che si studia, per sviluppare pratiche che consentano l’acquisizione di competenze. In questo processo, come ovvio, cambia anche il ruolo dello studente, che deve divenire più attivo, più partecipe, più responsabile dei propri processi di apprendimento.
Queste riflessioni non sono certo una novità per la ricerca pedagogica, e non lo sono nemmeno per chi lavora nella scuola e ad essa dedica il proprio impegno tutti i giorni. Molte sono le teorizzazioni, le esperienze concrete e le pratiche quotidiane che da tempo spingono in questa direzione, ma oggi questo processo è fortemente sostenuto da una diffusione sempre più allargata dei canali info-comunicativi anche ai contesti scolastici, e dai processi di libera condivisione di risorse per l’apprendimento in quelle che si configurano come “comunità educative online”. Tutto questo apre la prassi didattica a nuove strategie che possono divenire entro breve tempo una concreta realtà quotidiana.
Flipped classroom
Una di queste prospettive è la Flipped classroom. Nonostante il nome indichi un capovolgimento, non si tratta di una rivoluzione che si abbatte sulla scuola in modo tanto improvviso quanto inaspettato, ma di un processo da tempo in evoluzione e che ha radici educative profonde. Esperienze didattiche che possono rientrare in questa definizione si trovano in grande quantità, da diverso tempo e a diverse latitudini, ma oggi, grazie ai noti sviluppi tecnologici e a un mutato panorama culturale e comunicativo, assumono un notevole rilievo e ne è stata prodotta una sistematizzazione teo-rica e applicativa. È opportuno sottolineare che la Flipped classroom non è una nuova tecnologia, un gadget di qualche creativa azienda del settore hi-tech, una innovazione che viene spinta a forza nella scuola, magari da chi a scuola non c’è mai stato; è invece una proposta pedagogica che emerge dalla comunità degli stessi docenti, in particolare dai docenti della scuola che operano negli Stati Uniti. Nella Rete, assieme a centinaia di migliaia di riferimenti, se ne può reperire un manifesto. Si tratta quindi di una proposta accreditata, con le credenziali per essere realmente e effettivamente trasformativa, per incidere significativamente sulle pratiche didattiche e non svanire in una bolla di sapone, come spesso accade alle innovazioni guidate solo dallo sviluppo tecnologico senza un’adeguata elaborazione pedagogica.
In prima analisi la Flipped classroom prevede di invertire i momenti classici dell’attività didattica: la lezione frontale a scuola e lo studio individuale a casa. Nella norma, e a grandi linee, a scuola avviene la fase di esposizione, di esplicazione dei contenuti disciplinari attraverso lezioni frontali. Successivamente a casa gli studenti affrontano individualmente, e spesso da soli, la fase di riflessione e di elaborazione personale dei contenuti attraverso lo studio e lo svolgimento di problemi ed esercizi. Questa impostazione è funzionale in un quadro di scarsezza delle fonti di conoscenza, siano esse un testo o un docente, ma risulta superata dal contesto informativo e comunicativo nel quale ci troviamo immersi. Le fonti dalle quali trarre informazioni non sono più scarse e l’aula della scuola, o quella universitaria, non è più il luogo privilegiato dal quale accedere all’informazione, vista la quantità di risorse che nelle più svariate forme e modalità di fruizione pos-siamo avere a disposizione con le tecnologie digitali. Risulta quindi poco sensato dedicare il prezioso tempo che si trascorre a scuola ad attività come la diffusione dei contenuti, che possono essere svolte, anche me-glio, al di fuori di essa, mentre diviene opportuno utilizzare il tempo in classe per attività più significative e più critiche per l’apprendimento, che sono i processi di elaborazione personale attraverso la riflessione, il confronto, la discussione e la negoziazione con gli altri, nonché la messa in pratica della conoscenza. È in queste attività, oggi molto più rilevanti di quelle della diffusione dei contenuti, che è opportuno utilizzare il tempo che si trascorre in classe, dove il docente può svolgere un ruolo di guida molto più proficuo di quello di divulgatore.
Prima inversione
Sulla base di queste argomentazioni la prima inversione della Flipped classroom prevede appunto di spostare la fase di fruizione dei contenuti prevalentemente al di fuori della scuola, sfruttando i nuovi canali di comunicazione e avvalendosi della crescente e libera disponibilità di risorse educative come testi, prodotti audiovisivi, multimediali, videolezioni, ma anche strumenti interattivi che consentono simulazioni, riproduzioni virtuali, contatti con esperti.
Questa interposizione tecnologica, alterando i luoghi e i modi della pratica didattica, introduce anche aspetti pratici che risultano indubbiamente vantaggiosi, come la gestione individuale della fruizione dei contenuti. Ogni studente può disporre delle risorse senza vincoli di spazi e tempi; può seguire il proprio ritmo visualizzando più volte una risorsa, fermando, avanzando, riproducendo un video; può fruire dei contenuti anche chi non può essere presente fisicamente in aula per qualche impedimento; si possono così individualizzare percorsi e risorse in base alle esigenze di ogni allievo. In queste attività gli allievi sono portati a maturare un maggior controllo e una maggiore responsabilizzazione sul loro apprendimento, spesso sviluppando anche un maggior coinvolgimento dovuto al fatto che operano con strumenti familiari e con i quali hanno un buon feeling, fattori che possono contribuire a superare la disaf-fezione che spesso manifestano nell’ascoltare passivamente le lezioni in aula.
Ma questa inversione, al di là della retorica che accompagna costantemente gli sviluppi tecnologici, è veramente percorribile? La rete offre concretamente la possibilità di operare questa trasformazione oggi? Per cercare di rispondere a questa domanda analizziamo concretamente le due strategie che possono essere adottate: da una parte il riutilizzo di risorse online liberamente disponibili; dall’altra lo sviluppo di strumenti che semplificano la produzione in proprio di prodotti video, come le videolezioni. Sul primo punto vi sono ormai da tempo e continuano a moltiplicarsi iniziative e operatori rilevanti che forniscono, anche per scopi di carattere commerciale, accesso gratuito a risorse educative. Ha iniziato il MIT ormai 10 anni or sono con il suo OpenCourseWare pubblicando interi corsi tenuti dai suoi più quotati docenti, ma attualmente praticamente tutti i più prestigiosi atenei hanno attivato la pubblicazione libera di corsi su piattaforme come YouTubeEdu o iTunesU, le divisioni educational di YouTube e iTunes. Ma in questa corsa non ci sono solo le realtà educative universitarie, si moltiplicano, soprattutto oltreoceano, nuovi operatori che coinvolgono direttamente la scuola, in particolare nei gradi superiori.
Una realtà che sta riscuotendo un forte successo e che può fornire un rilevante sostegno proprio al modello della Flipped classroom è la Khan Academy. La Khan Academy può godere oggi di ingenti risorse, frutto di donazioni da parte di società come Google o la Fondazione di Bill Gates, ma fino a non molti mesi fa era composta da un’unica persona, Salman Khan, che ha iniziato questa avventura pubblicando brevi videolezioni di matematica su YouTube. Come racconta lui stesso in un video che si può vedere su TED, l’attività è iniziata molto informalmente, dopo aver costatato che i suoi cugini, ai quali dava ripetizioni di matematica, preferivano i video alle sue lezioni in presenza. Oggi nel sito ci sono oltre 3300 lezioni, prevalentemente di matematica, ma anche di scienze naturali, economia, scienze umane e informatica, che aumentano ogni giorno. Chiunque può accedere gratuitamente al sito e ascoltare le lezioni sul calcolo differenziale, sui limiti, sulle equazioni di secondo grado e su ogni singolo argomento della matematica e di altre discipline. Con quasi 200 milioni di visualizzazioni non possono esserci dubbi sul fatto che la Khan Academy incida in modo significativo sullo studio, almeno della matematica, dell’attuale generazione di studenti di lingua inglese.
Capire il suo successo non è così immediato. La Rete pullula di iniziative apparentemente simili che non superano la cerchia di pochi intimi affezionati frequentatori. Certamente la popolarità non deriva da effetti speciali o strabilianti tecnologie. Nei suoi video non ci sono animazioni avvincenti, grafica 3D, interattività, simulazioni. C’è solo lo schermo nero che funge da lavagna virtuale, segni colorati tracciati a mano libera e la voce di Salman Khan. Le innovazioni, più che nella dimensione tecnologica, possono essere rintracciate in quella didattica, dove ci sono almeno due aspetti che emergono. Da una parte c’è la grande competenza nelle discipline trattate, derivanti dalle diverse lauree conseguite da Salman Khan, che gli hanno consentito di suddividere ampie aree scientifiche in una rete di brevi interventi della durata massima di 10 minuti, creando un tessuto di contributi fortemente e logicamente interconnesso. Questa operazione, nonostante le lezioni non siano esenti da lacune, carenze ed errori, come è ovvio considerando l’estensione dell’opera, è di notevole valore, che pochi misconoscono. L’altro aspetto riguarda la strategia comunicativa. Ascoltando le sue lezioni si capisce che Salman Khan non si pone come un docente in cattedra, ma come un tutor al fianco dello studente. I video non sono “lezioni magistrali” condotte con tono ufficiale e concepite per trasmettere contenuti con rigore scientifico. Non sembrano il prodotto di un lavoro progettato a tavolino nei minimi dettagli e realizzato in modo professionale, ma interventi che hanno un carattere informale, quasi pensieri ad alta voce, che riflettono senza schermi precisi il ragionamento che in quel momento gli passa per la testa. E infatti a volte sbaglia e poi si corregge, ritorna sui propri passi, procede per tentativi ed errori, ma non risulta mai asettico, distaccato e pre-confezionato. Questi aspetti producono una forte identificazione da parte degli studenti, che si sentono accompagnati nell’apprendimento da una persona che promuove entusiasmo ed empatia, da un amico piuttosto che da un docente. Tutto ciò, lungi dell’essere frutto dell’improvvisazione, richiede invece, come facilmente intuibile, una profonda competenza delle materie trattate e grandi doti di carattere didattico e comunicativo.
Il successo dell’iniziativa e i finanziamenti ottenuti consentono il continuo sviluppo di nuove aree disciplinari e funzionalità, come ad esempio un sistema interconnesso di esercizi per verificare il grado di competenza acquisito nei vari argomenti. Attraverso una rappresentazione grafica chiamata Mappa della conoscenza, ogni studente è costantemente aggiornato sugli esercizi eseguiti, su quelli sbagliati, su quelli consigliati, su quelli di argomenti collegati, tutti seguiti da feedback immediato. Un sistema di punteggi introduce gli elementi di sfida tipici dei videogiochi: livelli differenziati e incrementali di difficoltà che si autoregolano in base alle proprie performance, premi e badge di livello crescente che si possono esibire come trofei.
La Khan Academy non si esaurisce in attività che appaiono riconducibili alla semplice autoistruzione, ma si propone anche come piattaforma di intermediazione fra un docente e la sua classe. Attraverso l’iscrizione gratuita dei suoi studenti, un insegnante può disporre di un sistema di comunicazione e monitoraggio che consente di gestire e valutare le varie attività didattiche svolte da ciascuno di loro o anche dall’intera classe. Gli argomenti affrontati, le risorse visualizzate, il tempo dedicato, i progressi ottenuti, gli errori compiuti, tutto viene tracciato da un sistema di analisi delle interazioni (learning analytics) che produce dati puntuali, statistiche avanzate, grafici automatici, un vero e proprio “pannello di controllo”. Nell’insieme queste attività propongono un modello centrato su un paradigma comportamentista, che certamente non costituisce una novità in ambito educativo e i cui limiti sono stati ampiamente messi in luce dalla ricerca e dalla pratica didattica. In questo senso le critiche più ragionate sostengono che Khan Academy non rappresenti nessuna innovazione sul piano pedagogico, ma, lungi dall’essere la scuola del futuro come molti ipotizzano, offra semplicemente una ulteriore risorsa funzionale alla scuola così com’è oggi. Le videolezioni non sarebbero altro che ripetizioni a buon mercato che rinforzano un apprendimento di tipo meccanico migliorando comunque il rendimento scolastico, da cui appunto deriverebbe il suo successo. Anche il sistema di esercizi proposto incentiva gli studenti ad acquisire punteggi e conquistare livelli come nei videogiochi, piuttosto che sollecitare una comprensione profonda di ciò che si sta affrontando. Si tratta di analisi fondate che però, a mio avviso, non inficiano il valore della Khan Academy, ma consentono di inquadrarlo in una più corretta prospettiva, che è proprio quella della Flipped classroom, attraverso cui può divenire una preziosa risorsa integrabile in modelli di apprendimento costruttivisti, come più avanti vedremo.
Un’altra iniziativa da segnalare è TEDEd, la sezione educativa di TED, che propone risorse appositamente pensate per la Flipped classroom. Si tratta di video prodotti da insegnanti e messi a disposizione per essere utilizzati in percorsi didattici. Sono corredati da una serie di strumenti che consentono ad altri docenti di personalizzarli in base alle proprie esigenze. Ciò significa che si possono aggiungere testi, percorsi di approfondimento, domande, quiz e quindi proporli in modo esclusivo alla propria classe. In questo ambiente ognuno può caricare i propri video, passando attraverso YouTube, e poi predisporre la propria lezione con gli strumenti di personalizzazione. Un altro prodotto simile, che è opportuno segnalare per l’innovatività dei suoi servizi, è Edmodo, pensato per creare una comunità fra docenti, alunni, genitori e realizzare percorsi di apprendimento aggregando risorse e gestendo processi di interazione e di valutazione in modo semplice ed efficace.
Visti alcuni esempi delle risorse rintracciabili in Rete, possiamo ora valutare se e fino a che punto questi prodotti possono incidere anche sulla realtà educativa italiana. Naturalmente ci sono tanti aspetti da considerare e il primo grande ostacolo è certamente quello della lingua. La Khan Academy ha una sezione che si occupa della sottotitolazione delle videolezioni in varie lingue avvalendosi del contributo di migliaia di volontari, ma c’è anche una comunità italiana che pubblica su YouTube i video doppiandone la voce (http://www.youtube.com/user/KhanAcademyItaliano/videos). Oltre a queste iniziative comunque è indispensabile, se vogliamo preservare la nostra cultura e la nostra visione della conoscenza, che si sviluppino iniziative che partono dalla nostra comunità di docenti. In questo senso qualcosa si muove anche in Italia. Possiamo citare: ScuolaInterattiva, che pubblica libera-mente su YouTube videolezioni in ambito umanistico utilizzando mappe concettuali; Insegnalo.it che si propone come strumento per favorire lo sviluppo di corsi online, come piattaforma dove i docenti possono proporre i propri corsi, che però possono essere anche a pagamento.
Rimanendo invece nell’ambito delle cosiddette Open Educational Resource, le risorse ad accesso libero, ci sono anche in Italia repository di materiali didattici molto conosciuti come Innovascuola che consente di scegliere le varie risorse in base a diverse tipologie, come il ciclo scolastico o la materia insegnata. Ci sono poi tutte le iniziative dei singoli insegnanti che da anni pubblicano e rendono disponibili i loro lavori nei propri blog, che possono essere riutilizzati per “ca-povolgere” il proprio insegnamento.
Rimane infine da considerare un ulteriore percorso che può portare alla Flipped classroom, cioè quello che passa attraverso la produzione di videolezioni e risorse digitali da parte di ogni docente in prima persona. Questa strategia consente di realizzare prodotti che soddisfano le specifiche esigenze che ognuno ha sul contenuto, sulla metodologia didattica, sulla comunicazione educativa, ma richiede lo sviluppo di competenze tecnologiche di video editing, nonché metodologiche e comunicative del tutto distinte da quelle dell’insegnamento in presenza. Per l’aspetto tecnologico ci sono una molteplicità di servizi e di strumenti di libero accesso per fare screencasting, cioè videoregistrarsi e/o riprodurre sul PC contenuti che si vogliono presentare. Si tratta di strumenti di facile uso, che non richiedono attrezzature costose ma un normale computer dotato di webcam e microfono. Softwa-re come Camtasia, oppure Jing, si apprendono in poco tempo. Effettuare la registrazione, l’editing, il montaggio e la produzione di una videolezione, almeno per chi ha competenze di base nell’uso delle tecnologie digitali, richiede solo un po’ di buona volontà. Lo stesso Salman Khan ha utilizzato e utilizza tecnologie alla portata di tutti. Ma ci sono molti altri strumenti che si possono adottare per produrre risorse didattiche. Un esempio è Voicethread che consente anche un confronto online, una partecipazione attiva online di tutta una classe attraverso modalità intuitive e immediate. E poi ci sono software gratuiti per realizzare presentazioni come Google documenti, per condividerle online come Slideshare, e anche per realizzarle come mappe con Prezi. La Rete offre una moltitudine di applicazioni che arricchiscono giorno dopo giorno le risorse disponibili e soprattutto offre un ambiente che favorisce l’apertura, la condivisione, il riutilizzo libero delle risorse, sostenuto da movimenti come l’Open Access per le risorse scientifiche e l’Open Educational Resource per le risorse educative.
Se questo scenario ci consente di affermare che nella produzione di videolezioni ci sono molte soluzioni di carattere tecnologico, la situazione si presenta più complessa per quanto riguarda le competenze comunicative. Parlare davanti ad una webcam richiede capacità del tutto diverse da quelle richieste in aula, capacità che non si apprendono in poco tempo, a meno di non avere una dote naturale. Occorre la volontà di mettersi in gioco e la disposizione a impegnarsi in una nuova sfida. Certamente questa non è una prospettiva che possa coinvolgere nel breve periodo tutti i docenti, ma comunque si sta facendo strada e potrebbe divenire una realtà concreta anche da noi.
Seconda inversione
Visto il primo “capovolgimento”, cioè quello che sposta le classiche attività d’aula al di fuori, passiamo adesso all’altro, quello di portare in aula lo studio individuale, lo svolgimento dei compiti, la fase di interiorizzazione dei contenuti. Per prima cosa occorre dire che è proprio su questa inversione che la Flipped classroom esplica la sua vera portata innovativa sul piano pedagogico. Il tempo d’aula, liberato dallo spostamento delle lezioni a casa, permette di cambiare radicalmente l’impostazione dell’attività didattica. Si può passare infatti da una didattica fondamentalmente istruzionista ad una costruttivista e sociale.
Su questo fronte sappiamo che l’impostazione canonica implicita nel modello della lezione frontale è sostanzialmente quella istruzionista, che si fonda sulla “trasmissione del sapere”. Questa impostazione si basa a sua volta sull’idea che ci sia una conoscenza oggettiva, consolidata e sostanzialmente fissa nel tempo e, soprattutto, che si possa trasmettere “sapere” da un soggetto ad un altro. Certamente si può fare lezione frontale in molti modi diversi, anche molto lontani da questo modello, ma l’idea del docente come fonte autorevole in un determinato ambito disciplinare e di allievi che in qualche modo devono assorbire la conoscenza sta alla base dell’impianto pedagogico che ha fondato e ha mantenuto vivo nei secoli questa strategia didattica. Come già detto, questo schema appare oggi superato grazie, da una parte, alla ricerca pedagogica che ha messo in luce come l’apprendimento sia un processo attivo di costruzione di significati che devono diventare propri di ogni discente e, dall’altra parte, alla rapida obsolescenza delle conoscenze, e delle relative pratiche professionali, che vengono sempre più rapidamente rigenerate in una realtà sociale che viene definita “liquida” (Bauman, 2000).
Quindi, più che programmi da svolgere, come noto, ci sono competenze da promuovere: sono competenze cognitive, collaborative, comunicative, di partecipazione, di sviluppo di pensiero critico, di capacità di avvalersi dei nuovi linguaggi, delle nuove forme espressive, di sa-per valutare e di connettere i nodi di conoscenza che divengono disponibili attraverso i nuovi canali di comunicazione, ponendo sempre maggiore enfasi sulle molteplici sfumature dell’apprendimento stesso, sulle strategie per potenziare le proprie capacità, strategie cognitive, linguistiche, creative, emotive. Si tratta di sviluppare, quindi, le potenzialità delle diverse forme di intelligenza (Gardner, 1987) nel rispetto delle attitudini di ognuno, più che i contenuti delle diverse discipline. Sono queste le competenze che potranno essere utili in un futuro nel quale non riusciamo ad immaginare le attività e le professioni che saranno chiamati a svolgere gli attuali studenti.
Portare le attività di studio e di elaborazione personale in classe significa svolgere, in un contesto collaborativo, assistito dalla presenza del docente, ciò che prima avveniva in solitudine. In sostanza lo studente non è più solo nel processo di elaborazione dei contenuti, ma è sostenuto in questo dal docente che assume così una nuova veste, che è quella del méntore, di una persona che funge da sostegno, da aiuto nello sviluppo, nella costruzione dei processi di conoscenza, con tutte le implicazioni pedagogiche e metodologiche conseguenti. Occorre progettare attività laboratoriali cariche di significato, contestualizzate sugli interessi di chi apprende, che favoriscano la creatività di ognuno, lo sviluppo di strategie, di stili cognitivi, di attitudini diverse. Il tempo recuperato in aula dà la possibilità di svolgere le diverse attività didattiche costruttive, collaborative, esperienziali che vedono la partecipazione attiva degli allievi, tutte le attività che normalmente sono bandite o relegate a margine, perché ostacolano lo svolgimento del fatidico “programma”. Questo setting educativo consente anche una maggiore adattabilità alle diverse esigenze di ogni allievo. Come tutti i docenti sanno ogni classe è molto eterogenea al proprio interno e l’attività didattica ufficialmente rivolta a tutti in realtà è rivolta inevitabilmente allo studente medio. Ciò comporta che spesso in classe ci sono studenti dotati che si annoiano e studenti in difficoltà che rischiano di sentirsi esclusi. Con la Flipped classroom si possono facilmente individualizzare i percorsi di studio, con una maggiore flessibilità nei tempi, costituendo gruppi di lavoro che possano meglio stimolare i partecipanti, affrontando anche materiali e argomenti diversi. Come si trasforma quindi l’attività didattica in questo senso? Ogni disciplina ha i propri statuti epistemologici e pratiche didattiche diverse che ogni buon docente conosce. Dalla ricerca pedagogica però possiamo derivare delle linee comuni che sono riconducibili all’active learning e a tutte le strategie che qui possono essere assunte come corollario: dall’inquiry learning al problem solving; dal cooperative learning al peer tutoring.
Proprio su questo ultimo punto, in sostanza sull’apprendimento fra pari, che può essere considerato centrale e connaturato al nuovo setting d’aula, sono stati sviluppati alcuni modelli che hanno già un ottimo background applicativo. Uno di questi, che ben si adatta a questo contesto e che può essere facilmente implementato, è quello messo a punto da Eric Mazur. Non si tratta di un pedagogista, ma di un fisico di Harward che si è dedicato per lunghi anni a migliorare l’efficacia dei suoi corsi universitari conducendo attività di ricerca e arrivando a definire un metodo, peer instruction, e a realizzare un ambiente tecnologico di supporto. In sostanza le attività d’aula sono anticipate da un lavoro preparatorio che non si limita a presentare i contenuti con testi o videolezioni, ma che richiede agli studenti di inviare i propri feedback su quanto appreso. In particolare gli studenti sono chiamati a dare indicazioni su ciò che ritengono di aver ben compreso e ciò che invece è risultato poco chiaro. Questi feedback, che possono derivare anche da una sollecitazione strutturata, vengono analizzati dal docente che predispone la lezione in base ai risultati. Come si può notare, già in questa fase è richiesta la partecipazione attiva dello studente, che non è chiamato a fruire passivamente di contenuti, ma a riflettere su quanto appreso e a rielaborarlo. Attività, queste, che lo responsabilizzano sul suo apprendimento e che danno la possibilità al docente di monitorare la partecipazio-ne attiva di tutti. Per inciso, questa fase, al di fuori di un contesto di flipped classroom, può anche essere svolta direttamente in aula, in apertura di lezione.
Successivamente, quando ci si ritrova in aula, l’attività si svolge secondo uno schema basato sul problem solving. In pratica viene posta una domanda o chiesto di risolvere un problema che impegna a riflettere sui concetti sottesi e ad applicarli in contesti di vita reale. Le domande dovrebbero essere concepite per sfidare effettivamente la classe e non risultare troppo semplici o troppo complesse. L’obiettivo è che risponda correttamente un intervallo compreso fra il 30 e il 70% della classe. In questo modo si può dare avvio ad una fase di confronto fra pari, in piccoli gruppi che comprendano studenti che hanno offerto soluzioni diverse. Ognuno è chiamato a sostenere la propria posizione, giusta o sbagliata che sia; questo processo, come indi-cano i dati delle ricerche in tema, porta ad un miglioramento complessivo della comprensione. Per uno studente sostenere le proprie opinioni in un gruppo è una potente strategia per migliorare le proprie capacità riflessive. Spiegare agli altri le proprie idee aiuta a chiarirle e a sviluppare capacità di analisi e di sintesi. Lo studente che ha formulato una risposta corretta può essere di grande aiuto per i suoi pari, perché possono facilmente ricostruire il percorso che lo ha portato al risultato e ad escludere risposte sbagliate. Il suo modo di concepire il problema molto probabilmente è più vicino a quello degli altri studenti di quanto non sia quello dell’insegnante, il quale possiede tutt’altro dominio della materia che può sfavorirlo nel capire le difficoltà che possono incontrare gli studenti. Durante queste attività tra pari il docente si avvicina ai vari gruppi e ascolta le diverse opinioni prendendo atto dei processi che portano a conclusioni errate e delle principali difficoltà che impediscono di giungere alla risposta corretta. Successivamente coinvolge l’intera classe in un confronto e una condivisione collettiva dei processi e delle soluzioni maggiormente condivisibili, procedendo poi alla proposta di un altro stimolo.
Questo processo può essere condotto senza l’impiego di alcuna tecnologia digitale, ma ci si può anche avvalere di un ambiente online, Learning Catalytics, prodotto dallo stesso gruppo di ricerca, che aiuta a gestire l’interazione degli studenti nelle attività online e in quelle d’aula. La visualizzazione delle risposte corrette e sbagliate in una mappa della classe permette di definire i gruppi e di far interagire gli studenti secondo le diverse strategie d’aiuto. Se ci decide di condurre questa attività didattica in una aula numerosa, come può essere quella universitaria, l’interazione fra studenti e docente può avvenire distribuendo schede pre-stampate con le diverse risposte, oppure con dispositivi elettronici (clicker) che consentono ad ognuno di indicare in forma anonima le proprie scelte, o anche utilizzare semplicemente gli smartphone. Nello schermo del docente appare in tempo reale il quadro delle risposte, per impostare i gruppi di interazione fra studenti e procedere con le attività.
Un altro modello più radicale, ma che si adatta altrettanto bene alla seconda inversione della flipped classroom, è quello dell’inquiry learning e i suoi corollari come il modeling instruction. Alla base di questo approccio pedagogico vi è il rifiuto dei metodi tradizionali di insegnamento accusati di preconfezionare i contenuti in formati standard orientati alla pura memorizzazione. Altrettanto sotto accusa sono le strategie di verifica attraverso esercizi che richiedono la semplice applicazione di formule astratte e processi codificati, che portano al risultato senza aver compreso effettivamente i concetti realmente sottesi. L’inquiry learning prevede un coinvolgimento dello studente non tanto nella soluzione di problemi, ma nella loro formulazione e solo dopo lo porti, attraverso una ricerca attiva, a ricavare i modelli che possono portare alla loro soluzione. Apprendere i fondamenti di un ambito disciplinare vuol dire innanzitutto apprendere i processi di pensiero, le strategie, le metodologie che costituiscono le basi epistemologiche di quell’ambito. In questo senso apprendere vuol dire fare esperienza diretta e concreta di ricerca adottando per quanto possibile le stesse strategie e metodologie della ricerca scientifica. Gli studenti sono quindi chiamati non solo a risolvere problemi, ma a porre problemi significativi e rilevanti, a individuare strategie per la loro soluzione, a produrre elementi che giustifichino le loro conclusioni e a difendere le loro tesi di fronte agli altri. Sono queste le competenze significative che la scuola dovrebbe essere in grado di fornire loro e sono queste le attività dove il ruolo e le capacità del docente diventano critiche. Favorire i processi intuitivi, sostenere la creatività, promuovere la riflessione e il dialogo sono tutte attività che richiedono la presenza concreta di un docente. Si ritrovano qui quindi gli elementi di una didattica trasformata dalla par-tecipazione attiva, dalle attività laboratoriali, dal confronto fra pari, dalla messa in pratica della conoscenza attraverso l’esperienza diretta
Come si può facilmente intuire anche questa trasformazione può essere condotta senza alcuna particolare tecnologia digitale, ma non mancano nella Rete risorse che condividono le buone pratiche condotte in molte scuole e servizi che aiutano a realizzare una didattica improntata all’inquiry learning. Fra le molte significative ci sono: WISE, acronimo di Web-based inquiry science environment, un ambiente implementato dall’Università di Berkeley dove si possono trovare esperienze di inquiry learning per diverse discipline; nQuire, un software per PC sviluppato dalle Università di Nottingham a dalla Open University che guida gli studenti nelle varie fasi di un progetto di ricerca e forni-sce ai docenti una libreria di ricerche facilmente personalizzabili. Infine, molto innovativo è iSpot, un sito e, a breve, un’applicazione per smartphone rivolti a provetti ricercatori in scienze naturali. Chiunque può inviare l’osservazione di un animale, una pianta o un fenomeno naturale chiedendo aiuto per l’identificazione o scambiare informazioni. Il sito sta producendo un’appassionata comunità che mette in contatto giovani studenti con appassionati esperti, una sorta di ponte fra inquiry learning e citizen science.
Al termine di questa analisi credo siano emersi elementi che indichino come la Flipped Classroom, se correttamente applicata, si allontani da una scuola luogo di trasferimento delle informazioni, funzione che diviene sempre più anacronistica, e si avvicini invece ad un ambiente di costruzione sociale di capacità e competenze, vale a dire alla vera funzione che la scuola dovrebbe svolgere nella società della conoscenza.
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