Guantanamo. Un dibattito

by gabriella

In preparazione dell’incontro-dibattito con l’insegnante e delegata ai servizi culturali del municipio di Caimanera Adriana Silvente e la sua collega Ofelia Garcia, abbiamo dedicato una settimana di studio alla reclusione senza diritto e senza diritti dei prigionieri di Guantanamo, attraverso un libro e un film: Prigionieri di Guantanamo dell’avvocato dei diritti umani Michael Ratner e della giornalista Ellen Ray [Guantànamo. What the World Schould Know, 2004; trad. it. Nuovi mondi media, 2005] e Camp X Ray.

Dopo aver visto Camp X Ray, la 5E ha così affrontato i temi della violazione dei diritti umani, della tortura, della legalità [americana e internazionale] e della legittimità calpestate, nel «buco nero giuridico» edificato dagli USA dopo 9 11.

 

Il film

Camp X Ray è il nome di uno dei tre campi di detenzione della base extraterritoriale [base militare situata fuori del suolo statunitense] di Guantanamo. È qui che si svolge l’incontro tra la soldatessa americana Amy Cole e «il detenuto 4.7.1», un tunisino emigrato in Germania catturato in un luogo imprecisato in un’azione di extraordinary rendition – cioè di cattura illegale, o rapimento, di un sospettato di terrorismo da parte dei servizi di intelligence.

La storia ruota intorno al graduale cambiamento del punto di vista della soldatessa sul prigioniero durante la permanenza nel campo, nella quale alla sistematica violazione della dignità dei detenuti fa eco la desolata esistenza delle guardie, specialmente se donne, in un ambiente sessista e prevaricatore.

In un anno di lavoro Amy – che il prigioniero chiama Blondie in mancanza dell’adesivo con il nome che le guardie devono rimuovere dalla divisa entrando nel campo – apprende che la difesa della libertà che giura ogni mattina all’alzabandiera ha contenuti diversi da quelli immaginati, che i «detenuti» non sono trattati secondo giustizia e norme di regolamento ma esposti all’arbitrio di ordini brutali e che «4.7.1» è un uomo in cui sopravvivono intelligenza e talento artistico: la curiosità per il finale della saga di Harry Potter, il sudoku, il disegno.

Nel deserto relazionale in cui è immersa, la soldatessa accetta così uno scambio comunicativo con il detenuto che disabilita i dispositivi ideologici attivati dal campo, permettendo il reciproco riconoscimento e la nascita di un delicato rapporto di amicizia.

In questo percorso, il più anziano ed esperto Alì accompagna il doloroso apprendimento della ragazza che, dopo aver restituito al prigioniero un nome e dei diritti [denuncerà un superiore per averle comandato di assistere alla doccia del detenuto, accampando carenza di personale] e aver compreso la natura di Guantanamo, si congeda da lui con il dono del libro mancante alla biblioteca del campo.

 

Il campo di prigionia

Il campo di prigionia di Guantanamo è stato aperto l’11 gennaio 2002 sotto la presidenza Bush jr. per la detenzione di sospettati di terrorismo catturati in Afghanistan o Pakistan anche attraverso extraordinary rendition, ai quali l’amministrazione si riferiva come a «nemici combattenti» invece che prigionieri.

Tale definizione, che escludeva si trattasse di prigionieri di guerra o di imputati di reati ordinari, permetteva di trattenerli indefinitamente senza imputazione e senza possibilità di difesa in un processo, in violazione sia dei trattati internazionali, quali le Convenzioni di Ginevra, che del diritto statunitense. Ciò è reso possibile dallo statuto di zona franca, dal punto di vista giudiziario, della base nella quale la Costituzione degli Stati Uniti non trova applicazione.

Per questo i prigionieri di Guantanamo non hanno alcun diritto di vedere, parlare o scrivere a un avvocato, di essere visitati dai familiari, di essere formalmente accusati di un capo di imputazione. Dal 2005 non possono presentare istanza di habeas corpus, cioè un’istanza per chiedere a un Tribunale di portare in giudizio l’autorità che li tiene in detenzione per verificarne la legalità.

Camp X Ray

Si stima che i prigionieri detenuti a Guantanamo sono stati circa 800, di cui attualmente forse ancora un centinaio è presente nel campo.

Proteste contro il trattamento inumano e illegale dei prigionieri sono state sollevate all’istituzione del campo di detenzione dall’Alto Commissario ONU per i diritti dell’uomo, Mary Robinson, e la stessa Corte Suprema degli Stati Uniti, nel 2004 ha stabilito la violazione delle convenzioni di Ginevra e del codice di giustizia militare americano per le modalità di detenzione e l’assenza di giudizio del detenuto Salim Ahmed Hamdan.

Per l’inumanità delle modalità di detenzione caratterizzate da isolamento, violenze, pestaggi e interrogatori sotto tortura è stato coniato il termine “guantanamizzazione”.

Quasi tutti i detenuti sono stati accusati di “fornire supporto materiale ai terroristi”, un’attività che il Congresso ha dichiarato “crimine di guerra” nel 2008, anni dopo che i presunti atti sarebbero stati compiuti, nonostante il divieto alla criminalizzazione retroattiva di qualsiasi comportamento.

Qualche cambiamento è stato apportato dall’amministrazione Obama che si era impegnata, peraltro, a chiudere il campo di detenzione. Con il Military Commissions Act del 2009, il presidente ha disposto il cambiamento della definizione di “nemici combattenti” creata durante il mandato Bush, con quella di “belligeranti irregolari” a cui viene garantito il diritto di difesa. La nuova legge proibisce le prove raccolte con la tortura e vieta l’uso delle prove “per sentito dire”.

 

La storia della zona franca

Il diritto degli Stati Uniti ad istituire e mantenere una base militare sul territorio cubano risale alla guerra di indipendenza dell’isola di Cuba nella quale gli USA intervennero contro la Spagna assumendo nel 1899 il controllo dell’isola, di Puerto Rico, delle Filippine ed altre ex colonie spagnole.

La prima costituzione cubana, promulgata nel 1901, conteneva l’emendamento Platt che concedeva, appunto agli USA di mantenere permanentemente una base militare sull’isola. Nel 1903, gli USA presero quindi in affitto Guantanamo dallo stato cubano, sulla base dell’emendamento Platt.

 

La tortura

Stralci del reportage di Janet Retiman del 24 aprile 2016, tradotto e pubblicato da Rollingstones.

Una delle forme di tortura più comunemente praticata è l’alimentazione forzata, detta a Guantanamo “alimentazione enterica”, somministrata nel 2013 al 60% dei detenuti in sciopero della fame.

«Forse sono talmente depressi per il fatto che dal 2006 sono stati dichiarati trasferibili, ma non sono mai stati trasferiti, che preferiscono morire piuttosto che rimanere a Guantanamo»,

ha detto  Wells Dixon del Center for Constitutional Rights, un’organizzazione che rappresenta, tra gli altri, Tariq Ba Odah, un detenuto che ha fatto lo sciopero della fame per otto anni, arrivando a pesare 33 chili.

L’alimentazione enterica è considerata una forma di tortura dalle associazioni dei medici, e per molti anni gli avvocati di Guantanamo hanno pressato il governo per mostrare le 11 ore di video che mostrano il trattamento subito da Abu Wa’el Dhiab, un ex detenuto rilasciato nel 2014 per ordine di un giudice federale.

Tre ufficiali di Guantanamo hanno dichiarato separatamente che diffondere quelle informazioni avrebbe potuto «causare danni alla sicurezza nazionale» e hanno classificato i nastri come «materiale segreto». I dottori militari spiegano che i prigionieri sono autorizzati a digiunare finché non perdono il 15% del loro peso, mostrano segni di disidratazione o malfunzionamento degli organi, dopodiché la procedura richiede che

«optino per essere alimentati in modo enterico, come parte della loro pacifica forma di protesta».

Dato che hanno già optato per non mangiare, non è chiaro se essere costretti a ricevere il cibo sia un’opzione. Penso si tratti più di una decisione su come ricevere il trattamento, se andando da soli nell’ambulatorio medico a farsi mettere un tubo nel naso oppure trascinati a forza dalla propria cella e legati a una sedia. Tra gli effetti collaterali di questa pratica c’è la costipazione cronica e la paralisi dello stomaco.

I militari hanno smesso di diffondere dati sui detenuti alimentati per via nasale nel dicembre del 2013.

Splash Box

I prigionieri di Camp Five sono monitorati da due guardie che pattugliano il blocco e li controllano ogni tre minuti. Ricevono il cibo attraverso un buco nella porta che le guardie chiamano “splash box”. Lo “splashing”, mi spiegano, è un’altra forma di protesta: il detenuto riempie una bottiglia di acqua o una tazza di polistirolo con feci, urine, sangue, vomito e altri liquidi corporei e lo tira alle guardie per

«manifestare il suo disprezzo verso le procedure di detenzione».

Tutto viene messo nello splash box: acqua, cambio di vestiti, libri. Le guardie non hanno nessun tipo di contatto fisico con i detenuti. Il tour è stancante e frustrante, e fondamentalmente inutile, se non nel rendere evidente quello che secondo me è lo scopo principale di questa struttura: cancellare l’esistenza dei detenuti. Eppure esistono.

Per circa 15 minuti ci viene permesso di osservarli da dietro un vetro, mentre visitiamo Camp Six, una prigione con un livello di sicurezza medio in cui “detenuti altamente collaborativi” vivono in blocchi comuni.

Un paio di uomini vestiti con abiti logori vagano per una stanza con delle cuffie in testa per ascoltare la grande televisione piazzata sopra di loro. Un uomo più anziano con un copricapo da preghiera sfoglia un libro voluminoso. Due guardie a volto coperto stanno in piedi dietro a un carrello pieno di libri e li distribuiscono con cautela ai detenuti attraverso le sbarre. L’effetto è quello di osservare degli animali allo zoo.

La nostra richiesta di assistere alla preghiera dei detenuti viene rifiutata, così come quella di poter incontrare gli insegnanti, i terapeuti, gli avvocati o chiunque altro possa avere una interazione significativa con loro. La spiegazione che viene sempre data è una generica “regola”, cosa che capisco essere un eufemismo in un luogo dove un numero considerevole di persone sono tenute in custodia senza essere mai stati accusati. A molti è stato riconosciuto già da molto tempo il diritto di essere rilasciati, ma non hanno idea se o quando questo avverrà.

Il carcere iraqeno di Abu Graib nelle foto scattate dagli stessi carcerieri

Abu Graib

L’ultima tappa del tour è Camp X-Ray, il famigerato luogo (oggi chiuso) in cui sono stati custoditi i primi detenuti di Guantanamo. È un posto che tutti ricordano, anche se è stato in attività solo per 92 giorni. I prigionieri venivano tenuti in gabbie per cani, mentre questi ultimi dormivano in canili attrezzati con aria condizionata:

«Gli unici ad avere l’aria condizionata qui erano i cani»,

mi dice un sergente, recitando un copione secondo cui anche gli agenti di custodia soffrivano molto per il caldo. Oggi Camp X-Ray è ricoperto dalla vegetazione, rami e foglie spuntano dalle gabbie vuote, ma sembra ancora un posto orribile. Le stanze degli interrogatori mi ricordano Abu Ghraib. Lo dico al sergente, ma lui non sa di cosa sto parlando. Guantanamo è stato l’incubatore degli abusi applicati negli interrogatori che sono poi stati esportati a Bagram e Abu Ghraib in Iraq, e poi in centri di detenzione sparsi in tutto il mondo. Ma il sergente aveva 10 anni quando queste cose sono successe.

«Ce ne hanno parlato durante l’addestramento», mi dice, «l’unica cosa che ci ripetevano era: non scattate fotografie».

Gli abusi e gli interrogatori brutali oggi non ci sono più, ma continua la tortura silenziosa di essere imprigionati senza assistenza legale in un posto sperduto. Guantanamo trasuda la sua disgustosa e scomoda verità. È impossibile dimenticare che questo luogo dimenticato e nascosto agli occhi dell’opinione pubblica è soprattutto un luogo di sofferenza.

 

Storie di prigionieri  

I file segreti diffusi da Wikileaks nel 2011. Tratto da Il fatto quotidiano.

Per essere rinchiusi nel carcere di massima sicurezza statunitense di Guantanamo bastava aver fatto “un viaggio in Afghanistan per qualsiasi ragione dopo gli attacchi terroristi dell’11 settembre 2001”. Oppure indossare un preciso modello di orologio Casio, “spesso consegnati agli studenti dei corsi di esplosivi di Al Qaeda in Afghanistan”. Così, almeno 150 persone sono state detenute anche se innocenti. Tra queste, un 89enne afghano affetto da demenza senile e un 14enne rapito dai Talebani.

Molti dei nuovi cables raccolgono i profili creati dagli analisti statunitensi per ogni prigioniero. Il loro livello di pericolosità per il Paese, in caso di rilascio, veniva classificato in ‘alto’, ‘medio’ o ‘basso’. La decisione veniva presa in base agli interrogatori resi dai sospetti.

“Fondamenti inconsistenti – secondo The Guardian – o sulla base di oscure confessioni estorte con maltrattamenti”.

Waterboarding – una sorta di ‘annegamento controllato’ -, posizioni forzate privazione del sonno e del cibo: torture già note, raccontate dai testimoni e ammesse a mezza voce dalle stesse forze armare Usa. Quello che non si sapeva, però, è che le dichiarazioni rese in questo modo venissero considerate più che valide per trattenere i prigionieri per anni.

Il suo caso è uno tra quelli dei 150 prigionieri considerati innocenti ma comunque detenuti. Come il contadino afghano Mohammed Sadiq, 89 anni all’epoca e malato di demenza senile. Sadiq era stato destinato a Guantanamo per alcuni “numeri di telefono sospetti” ritrovati nel suo appartamento e appartenenti al figlio. A Cuba è stato interrogato per sei settimane e ritenuto “non affiliato ad al Qaida e privo di valore di intelligence per gli Stati Uniti”. Eppure il suo rilascio è avvenuto solo quattro mesi dopo.
Tra le storie diffuse da Wikileaks c’è poi quella di un ragazzino di 14 annirapito dai Talebani e costretto ad arruolarsi nell’organizzazione terroristica. La sua frequentazione, seppur forzata, con i miliziani era abbastanza per imprigionare il ragazzo, detenuto per i “suoi possibili contatti con i leader locali dei talebani”, riferisce il quotidiano americano.

 

Muhammed Rahim al-Afghani

Una delle storie che Rosenberg ha raccontato proviene dal purgatorio di quel gruppo di “prigionieri di guerra”, o come li definisce lei “prigionieri per sempre” che sono stati giudicati “troppo pericolosi per essere rilasciati”. Le accuse rivolte contro di loro sono ancora avvolte nel mistero.

Muhammed Rahim al-Afghani

Carlos Warner, un avvocato che rappresenta alcuni detenuti di Guantanamo ha seguito il caso di Muhammed Rahim al-Afghani, un “prigioniero per sempre” di Camp Seven.

Rahim è stato l’ultimo prigioniero ad arrivare a Guantanamo nel marzo del 2008 dopo aver passato sette mesi nelle prigioni segrete della CIA, dove, secondo un’indagine del Senato, è stato sottoposto a diversi abusi, tra cui la privazione del sonno per più di cinque giorni consecutivi, ammanettato e con indosso un pannolone. Nessuna di queste misure coercitive ha prodotto informazioni utili. Il Governo ha rilasciato un comunicato stampa a proposito di Rahim, descrivendo nel dettaglio la sua attività nemica, ma si è poi scoperto che era il resoconto delle azioni di un’altra persona.

Secondo Warner è un esempio della confusione da parte del Governo: il rapporto descrive un affiliato di basso livello di Al Qaida e non, come si dice, uno stretto collaboratore di Osama bin Laden con: «Legami con Al Qaida in tutto il Medio Oriente». Warner ha inoltrato una richiesta di habeas corpus chiedendo il suo rilascio, e il governo ha risposto con un rapporto che lo descrive come un membro del circolo ristretto di Bin Laden, basato principalmente sulle dichiarazioni di altri due prigionieri di Guantanamo e di un informatore che è stato probabilmente sottoposto a tortura. Secondo Warner non ci sono prove che Rahim sia collegato a Bin Laden.

Suo fratello Basit, che ho intervistato via Skype dalla sua casa a Londra, dice che Rahim ha effettivamente combattuto in Afghanistan, ma contro i sovietici e ha anche lavorato per la CIA:

«L’aspetto più paradossale è che, quando è stato arrestato dall’ISI (il servizio segreto del Pakistan), la prima cosa che Rahim ha chiesto è stata di parlare con la CIA», mi spiega Warner, «si fidava di loro, perché aveva lavorato per la CIA e pensava che potessero aiutarlo».

Qualunque sia la verità a proposito di Rahim, il governo gli ha detto che non sarà mai accusato o processato. Warner dice che non ci sarà mai nemmeno un riesame del suo caso da parte del Periodic Review Board che decide sulla detenzione a Guantanamo, dato che a nessun detenuto considerato di “alto valore” viene concesso. Warner spera di convincere il governo che l’unico elemento che rende Rahim di “alto valore” è il fatto che è stato testimone della propria tortura.

 

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