Claudio Magris, Il bufalo di Rosa Luxemburg

by gabriella
Gustave Courbet, L'hallalì del cervo, 1867

Gustave Courbet, L’hallalì del cervo, 1867

La bella recensione di Claudio Magris [Corriere della Sera, 14 novembre 2007] a Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, Milano, Adelphi,  2007.

 

La lettera di Rosa

Nel dicembre del 1917, Rosa Luxemburg scrive a Sonja Liebnecht (Sonicka), mentre si trova nel carcere di Breslavia da tre anni.

Nella prima parte della lettera si occupa di questioni politiche e invita la sua interlocutrice e tutto l’entourage spartachista a non prestare ascolto alla stampa borghese in merito a ciò che avviene in Russia e ad avere fiducia.

A tratti, il suo linguaggio si fa perentorio, come si conviene a una leader politica che intende orientare e prendersi le sue responsabilità. Nella seconda parte la lettera si fa più personale e intima: prima il ricordo di Karl Liebnecht, imprigionato anche lui, poi quello dell’ultimo Natale trascorso tutti insieme intorno a un grande abete, mentre quello che ha in carcere è così piccolo e modesto.

L’accenno all’albero la porta al ricordo nostalgico delle escursioni nello Stiglitzer Park a Berlino e in mezzo ai suoi fiori e piante: ligustri, mirti e altri vegetali e arbusti che Luxemburg descrive in pochi tratti, tanto poetici quanto competenti. Dopo altri ricordi e un breve excursus di carattere letterario, la lettera vira improvvisamente e assume un tono solenne e drammatico:

Aimè Soniucka; qui ho provato un dolore molto intenso.

rispoliNon può essere il carcere di per sé, cui lei è ormai avvezza, deve trattarsi qualcosa d’altro e di più decisivo, tanto decisivo che citerò il testo pressoché integralmente fino alla sua conclusione.  All’incipit solenne, segue una breve descrizione del contesto.

Siamo nel cortile del carcere durante l’ora d’aria, quando le capita di assistere all’arrivo dei carri che portano masserizie varie. Recentemente i carretti, invece di essere tirati da cavalli o da buoi, lo sono anche da bufali.

«Di struttura più robusta e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore… Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra…

I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto vae victis...

Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese così a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì, chiedendogli se non avesse un po’ di compassione  per gli animali.

Neanche per noi uomini c’è compassione, rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per esser dura e resistente, ma quella era lacerata.

Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo.

Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa e perché… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – ma erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella dolorosa sofferenza.

Quanto erano lontani, quanto erano irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania!… E qui, in questa città, ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseante e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei  e terribili… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta.

Oh, mio povero bufalo, mio povero e amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi impotenti e torbidi, e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto, i carcerati correvano operosi qui e là intorno al carro… ; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò, fra sé una canzonaccia.

E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi.
Scrivetemi presto. Vi abbraccio Sonicka. La vostra Rosa.
Sonjusa, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi  e sorridenti – nonostante tutto. Buon Natale!»

Kraus

Karl Kraus (1974 – 1936)

Karl Kraus, in partenza per una serie di conferenze in Germania e Austria, lesse per caso la lettera sulla Arbeite Zeitung. Ne rimase così impressionato che decise di darne lettura durante tutto il ciclo dei suoi incontri. T

ornato a Vienna, la pubblicò sulla Fackel nel luglio del 1920, con una sua breve introduzione nella quale si augura che lo scritto della rivoluzionaria polacca sia inserito in tutte le antologie per le scuole! Accade poi che una lettrice della rivista interviene con un testo di commento piuttosto acido, per non dire peggio, al quale Kraus risponde per le rime.

Molto probabilmente, la lettrice non è mai esistita, anche il curatore propende per tale ipotesi. Ci sono tre indizi che lo fanno pensare: prima di tutto Kraus scriveva la Fackel per intero, cambiando registri linguistici e altre volte era ricorso alle false lettere al direttore.

Secondo indizio: la lettera in questione sarebbe stata inviata da una proprietaria terriera ungherese che fra l’altro, sostenendo di conoscere bene i bufali in quanto ne possiede alcuni, si permette di irridere i sentimenti della Luxemburg. Il tono vorrebbe essere sarcastico, ma la lettera rivela una tale angustia mentale da risultare in contrasto con il linguaggio usato e … arriviamo qui al terzo indizio.

Sebbene scritta in uno stile più basso di quello sontuoso di Kraus, la lettera della finta lettrice lo è solo di un poco, quel tanto che dovrebbe bastare per depistare il lettore, facendogli credere che davvero si tratta della lettera di una possidente ungherese.

La megera, come talvolta, la definisce, è Kraus stesso, ma a differenza di altre volte in cui l’escamotage finisce per essere uno sfoggio narcisistico di cui il nostro era ricco in quantità industriali, diventa in questo caso il trampolino necessario per un’appassionata e indignata requisitoria nei confronti del mondo che aveva decretato la morte di Luxemburg: un mondo fatto di poteri alti e bassi, di livore di classe e meschinità piccolo borghesi. La risposta di Kraus diviene così uno dei più forti scritti di denuncia nei confronti dei suoi assassini.

rosa_luxemburgEra passato ormai un anno dal delitto, avvenuto nel 1919 (Kraus pubblica la lettera nel 1920) e mi sembra degno di nota che per commemorare la grande rivoluzionaria polacca egli scelga proprio questo testo, apparentemente laterale rispetto all’attività di una leader politica quale lei era, eppure così decisivo. Merito di Kraus, grande scrittore e grande antipatico, ma di certo dall’intuito fine. Per questo la sua testimonianza è altrettanto rilevante!

Nella sua requisitoria Kraus mette alla berlina la borghesia tedesca, l’ipocrisia del ricco borghese, riversa la bestialità sugli esseri umani, sceglie il punto di vista di Luxemburg, di identificarsi con l’altro da sé più lontano: il bufalo, definito il fratello più caro.

Rispoli, nella sua nota finale, ricorda come tutto il secolo diciannovesimo aveva visto imporsi un pensiero che, a partire da Shopenhauer, vedeva con occhi diversi l’animale:

«… l’uomo, affrancandosi dal principio di individuazione, non poteva che estendere anche agli animali, la propria compassione» (p. 54).

Dopo il grande filosofo tedesco erano stati Dostojevski e Nietzsche (l’episodio in cui a Torino, abbraccia un cavallo definendolo fratello), a mettere al centro della riflessione etica anche il rapporto fra la specie umana le altre; infine, Rispoli cita le nuove correnti del pensiero ebraico che proponevano una diversa visione del mondo animale.

Tutto questo era certamente conosciuto anche da Luxemburg, che aveva cultura e interessi vastissimi, ma la grandezza del suo scritto sta nella sua immediatezza, nella presa diretta sulla realtà, nell’assenza di metafora e nella piena adesione a un processo di identificazione con l’altro da sé che provoca in lei una vera e propria metamorfosi, concentrata in poche righe densissime.

Prima lo sguardo: il volto del bufalo che diviene quello di un bambino che ha pianto a lungo è il primo passo. La sensibilità tutta femminile contenuta in questa immagine, è un breve transito verso il secondo passaggio. Non sono le sue lacrime ma quelle del bufalo che lei sente scorrerle addosso: l’identificazione è compiuta. Dopo avere idealmente abbracciato il più amato fratello, con la frase finale che conclude la lettera vera e propria e precede i saluti, lo sguardo di Luxemburg si estende ancora:

«E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi….».

Ho parlato di metamorfosi perché nel momento di concludere, Luxemburg stabilisce un parallelismo ardito e decisivo. Il bufalo non è la metafora di qualcosa d’altro, ma diventa, alla fine del processo di identificazione, l’individuo nel quale precipita e diventa leggibile la totalità della sofferenza, racchiusa in quella guerra, dove l’aggettivo grandioso che la definisce sta qui a indicare in modo amaro e dolente la sua riduzione da grande evento storico a manifestazione di violenza gratuita e insulsa.

La lettera, però, non è veramente finita e il post scriptum è una moderna catarsi. Forse timorosa di avere troppo angustiato la sua interlocutrice, Luxemburg ha un vero e proprio colpo d’ala: ritorna alla conciliazione con l’umano in un abbraccio finale che comprende tutto. Non ricordo un augurio di buon natale tanto potente e liberatorio, tanto lontano dalla ritualità da risultare appunto catartico.

 

Natura e cultura

Il racconto di Kafka s’intitola Una vecchia pagina e si trova nella raccolta Un medico condotto.

Il protagonista narratore è un calzolaio che osserva quanto avviene nella piazza antistante il palazzo imperiale. I nomadi, un’entità non meglio definita, l’hanno trasformata in una stalla. Essi non parlano, si esprimono a gesti. Il calzolaio viene derubato come altri nella piazza e osserva tutto quanto accade sgomento, ma del tutto impotente. Non si può dire che i nomadi usino violenza, semplicemente invadono e occupano lo spazio. L’imperatore che dovrebbe proteggere la città sembra, un giorno, comparire rapidamente a una finestra del palazzo, ma non si è certi neppure di ciò. Tutti gli artigiani della piazza sono in balia dei nomadi, finché un mattino, il macellaio, visto che la piazza è piena di animali, pensa bene di portarci anche il proprio bue. È a questo punto che il racconto ha una virata tragica. I nomadi si gettano sull’animale e gli strappano pezzi di carne con i denti. Nel silenzio assoluto del linguaggio umano i muggiti disperati del bue sono la sola voce che si ode. Alla fine, il calzolaio constata l’impossibilità da parte degli artigiani della piazza di salvare la città.

Il commento di Canetti al racconto si allarga alla Metamorfosi: il calzolaio, infatti, quando ode il muggito disperato dell’animale si getta a terra e cerca di strisciare per non sentirlo e di rimpicciolire più che può. Riprendendo un passaggio di una lettera a Felice, dove il grande praghese scrive dell’angoscia della posizione eretta, Canetti vede nell’identificazione con i piccoli animali, fino all’insetto più insignificante, il modo di difendersi sia dall’orrore sia dal potere, ma anche il modo di prendere le distanze da quella posizione di dominio sul mondo che è la tragedia dell’essere bipede: dominare senza poter fermare l’orrore.

«Bisogna sdraiarsi per terra fra gli animali per essere salvati»scrive Canetti (p. 39).

La metamorfosi in ciò che è più piccolo e dunque fino a una sorta di grado zero della vita, diviene anche un gesto di umiltà. Clarice Lispector, decenni dopo, nel romanzo La passione secondo Gh porterà fino alle estreme conseguenze l’identificazione, incorporando l’animale più vile, in una comunione reale e simbolica capace di oltrepassare tutte le barriere che separano l’umana dalle altre specie animali; e un’altra grande autrice, la poeta statunitense Marianne Moore, farà lo stesso, dando vita a un bestiario originalissimo.

Infine, Joseph Roth con Scene dal mattatoio di St. Marx. Lo scrittore descrive la moderna macellazione industriale come un meccanismo cui sono estranei il sacrifico, il senso arcaico di un gesto che si accompagnava a rituali di ordine religioso e di purificazione. Non più omaggio agli dei o al dio della tradizione ebraica e poi cristiana, la macellazione industriale appare, agli occhi delle scrittore viennese, come una tragedia asettica senza catarsi. Lo scrittore ne rammenta i momenti e i titoli dicono già quasi tutto, scandendo la sequenza come se si trattasse di una catena di montaggio taylorista: Verso la macellazione, i macelli in funzione, 233 celle frigorifere.

Le note di Rispoli, con le quali termina il libro, non sono improntate a una facile cultura animalista, tanto meno sono giudicanti, come nessuno dei testi che ha così felicemente assemblato. Proprio per ciò traspare da questo testo così minuto un respiro etico di grande portata. La lettera di Rosa Luxemburg è l’architrave che regge questo libro sapiente: una mini tragedia in tre brevissimi atti e un epilogo, nella quale precipita tutta la ricchezza umana e la vastità dello sguardo della rivoluzionaria polacca, capace di certo di abbracciare una realtà più ampia di quella porzione che si trova racchiusa nel semplice agire politico, di cui peraltro, fu maestra impareggiabile. In questo testo, l’intelligenza del cuore si colloca alla stessa altezza della sua lungimiranza politica: il pane e le rose e queste ultime mancarono spesso ai suoi compagni di partito in Germania e altrove. E chissà che anche questa non sia una delle cause di tanti disastri!

Tuttavia, questo piccolo libro parla a noi oggi, non è un semplice collage di testi letterari bellissimi.

Isabelle Stengers e Ilya Prigogine scrissero anni fa un libro che per un periodo andò molto di moda: s’intitolava La Nuova alleanza. In esso, sottolineavano la necessità di ristabilire fra natura e cultura un nuovo patto, capace di superare l’attitudine predatoria che, dall’avvento della società industriale in poi, minacciava di distruggere l’habitat in cui viviamo e la natura organica: l’aria, la terra, l’acqua. Quando oggi parliamo di beni comuni, dobbiamo prendere atto al tempo stesso che quella alleanza non c’è stata e che la predazione è continuata, travolgendo i rapporti sociali, approfondendo la violenza dei rapporti fra i generi e anche con il mondo animale. Quando Vandana Shiva, in un suo recente scritto, sottolinea il nesso fra violenza sulla terra e violenza sulle donne, quando mette in evidenza tutta la follia presente nella creazione di semi che hanno in sé un principio mortale (il cosiddetto seme terminator), che obbliga i contadini indiani a rifornirsi ogni anno presso le multinazionali dei semi per continuare a produrre, il messaggio contenuto in queste pagine scritte all’inizio del secolo scorso arriva fino a noi, ma non come una eco bensì come un grido di allarme, un monito. Quando parliamo di reti di solidarietà, democrazia partecipata, prospettiva di genere stiamo parlando (forse non avendone sempre coscienza), proprio di questa nuova alleanza. Consumare meglio, ritrovare un equilibrio fra risorse territoriali e catena alimentare (tutta la problematica del chilometro zero, dei gas, della filiera corta) può essere il nostro modo di cominciare a imboccare una diversa strada, senza le illusioni troppo facili dell’ideologia vegetariana. Sappiamo ormai dalla scienza che anche una pianta tagliata emette un grido di dolore, ha delle sensazioni di morte come qualunque altro organismo vivente. La catena alimentare è crudele in sé, ma può essere governata in altro modo.

Il dolore dell’animale che viene ucciso, ha scritto Schopenhauer, è più grande del piacere di chi lo mangia. Il bilancio della vita è un deficit, il suo peccato originale che la costringe a vivere di morte e a creare sofferenza. È un passivo che si può ridurre, ma non eliminare, come si illudono ecologisti e animalisti, anche perché i nostri oscuri cugini di cui ci siamo proclamati e fatti padroni non sono soltanto il cane o il gatto di casa, le bestie che possiamo osservare e accarezzare, ma anche tutte le specie inappariscenti che non possono destare in noi affetto. Mattatoio di milioni di esseri umani, il mondo lo è ancor più di animali; è un edificio impastato di sangue. Le religioni raccolgono una domanda di redenzione che riguarda non solo l’uomo bensì l’ intera creazione:

«Tutto il creato» – dice San Paolo – «condannato a non aver senso soffre e geme come una donna che partorisce».

L’ ebraismo mostra una turbata attenzione al dolore animale: nello Schiavo di Isaac Bashevis Singer, Jakob, guardando le vacche destinate al macello, pensa che pure per loro deve esserci la salvezza e recita il Kaddish, la preghiera funebre, per la piccola farfalla bianca che ha vissuto un sol giorno e senza peccato. Se c’ è un peccato mortale, questo è la crudele e imbecille aggiunta di sofferenze gratuite a quelle inevitabili. Anche nei confronti degli animali, di quel vitello dagli occhi «larghi e bagnati» che, in un passo memorabile della Storia di Elsa Morante, ha una «prescienza oscura» della sua sorte.
La lettera che Rosa Luxemburg – pochi mesi prima di venire massacrata in quanto comunista, nel 1919, con i calci dei fucili da parte dei Corpi Franchi parafascisti – scrive dal carcere alla moglie di Karl Liebknecht (leader comunista spartachista poi assassinato insieme a lei) è un documento di altissimo valore morale. Karl Kraus, il beffardo vendicatore dell’umanità oltraggiata, pubblicando la lettera nella sua rivista «Die Fackel» con la quale combatteva da solo contro la guerra e l’ orrore del mondo, scriveva che essa avrebbe dovuto venir accolta nei libri di scuola. Kraus non era né comunista né socialista: era un conservatore, uno spirito aristocratico, satirico e religioso che difendeva le vittime di ogni violenza; non condivideva il pensiero marxista-libertario di Rosa Luxemburg, una delle più grandi figure del movimento internazionale. Ma sapeva che le classi dominanti non erano meno feroci dei tribunali rivoluzionari e che i padroni erano pronti ad ogni abiezione pur di restare padroni; aborriva la violenza rivoluzionaria, ma sapeva che spesso chi, giustamente, se ne scandalizza, tace invece sulle dame dell’alta società che si deliziavano di assistere alle fucilazioni anche di bambini della Comune di Parigi. Che il diavolo si porti la prassi del comunismo, scriveva, ma che
«Dio ce lo conservi come costante minaccia sulle teste»
di coloro che per salvare il loro dominio spediscono senza batter ciglio moltitudini alla guerra, al massacro e alla morte.

Rosa Luxemburg (1871 – 1919)

Imprigionata e avviata alla sua fine, ma intatta nella sua gioia di vivere – proprio perché è pronta a perdere la sua vita e così la salva, secondo il detto evangelico – Rosa è tanto aperta al mondo da patire e sdegnarsi per la sofferenza di un bufalo che vede, nel cortile, picchiato senza ragione a sangue, mansueto e stupefatto di quella crudeltà che non riesce a capire – gli occhi dell’animale morente, ha scritto Rossana Rossanda, hanno uno stupore insostenibile. Aliena da ogni sentimentalismo da società zoofila, Rosa Luxemburg coglie nel muto dolore della bestia quel pianto di ogni altro male e di ogni vita che Saba (in una famosa poesia ricordata da Marco Rispoli, il quale ha curato con finezza il volume, che comprende altri testi di grandi autori dedicati alla sofferenza animale) coglieva nel belato della capra legata. Quel bufalo è più vicino a Dio della zotica nobildonna e proprietaria terriera ungherese che insulta Rosa Luxemburg e che Kraus si rammarica di non poter prendere a frustate al pari di quel bufalo, così come i muggiti dei buoi avviati al macello sono più umani di quelli dei bestiali violenti che non meriterebbero un destino molto migliore. Il ruolo di padrone del creato che l’uomo si assegna, scrive Rispoli, è «fallace»; volersi padroni è essere servi e consegnarsi alla frusta, come quell’ animale che in un aforisma di Kafka si frusta da solo «per diventare padrone». Scriveva Noventa, grande poeta cattolico, classico e anticonformista:

«Mi me credevo – Un òmo libero/ E sento nascer – In mi el paròn».

Rosa Luxemburg fu tra i fondatori del Partito comunista tedesco – Lega di Spartaco. La lettera di «Un po’ di compassione» fu scritta nel carcere di Breslavia poco prima che venisse trucidata nel 1919. Il volume contiene testi di Kraus, Kafka, Canetti, Roth e di un’ ignota lettrice della «Fackel».

Immagine: Gustave Courbet, Hallali del cervo sotto un cielo nevoso (Parigi, Musée d’Orsay). La sofferenza di un cervo picchiato a sangue e senza ragione, richiama quella che domina tutto il mondo. (L'”hallali” è il grido di esultanza dei cacciatori per l’abbattimento della preda).

Una foresta in cui l’unico colpo è il click di una macchina fotografica

volpe

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