Il dibattito su eredità e ambiente nella definizione delle caratteristiche umane è uno dei più sensibili e ricchi di implicazioni socio-politiche delle scienze sociali. Decidere se intelligenti si nasce o si diventa diventa infatti dirimente davanti a scelte fondamentali come quella di educare o meno i bambini con deficit cognitivo, potenziare le strutture educative e scolastiche o tagliare i costi, fissare l’accesso a posizioni e professioni per merito o promuovere forme più evolute di democrazia (secondo comma, art. 3). Il testo che segue è la prefazione stesa da Alberto Angela per presentare al pubblico l’accanito e pluriennale dibattito tra Hans Eysenck e Leon Kamin, due degli studiosi più noti per aver abbracciato in modo radicale le tesi della neuroscienza innatista e del costruttivismo umanista.
Se prendesse piede la convinzione che questi test misurano realmente l’intelligenza,
che costituiscono una sorta di giudizio ultimo sulle capacità del bambino, che rivelano «scientificamente» le sue abilità innate,
sarebbe mille volte meglio se tutti coloro che misurano l’intelligenza sprofondassero nel mar dei Sargassi con tutti i loro questionari.
Walter Lippmann, 1922
Raramente, nella storia della scienza, ricercatori e studiosi si sono scambiati tante accuse e insulti, come è avvenuto, e sta avvenendo oggi, nel dibattito eredità-ambiente. Conoscendo la tradizionale moderazione del linguaggio scientifico (anche se spesso le parole mascherano strali sottili e velenosi) può sorprendere il tono assunto da questa polemica: tuttavia non è difficile rendersi conto che la questione della componente genetica nell’intelligenza coinvolge, direttamente o indirettamente, tali e tanti aspetti sociali, etici, politici, che il dibattito travalica l’ambito scientifico.
A ridar fuoco alle polveri è stato un lungo articolo di oltre 100 pagine pubblicato nel 1969 da A. Jensen sull’autorevole Harvard Educational Review. In questo articolo, Jensen sostanzialmente riportava una serie di studi sull’importanza del carattere genetico dell’intelligenza, concludendo che era illusorio cercare di recuperare le differenze attitudinali e di profitto scolastico puntando sull’educazione: l’ambiente poteva ben poco contro certe predisposizioni innate, che determinavano in pratica il livello di intelligenza. Da allora molte nuove ricerche sono venute ad alimentare la polemica, dirette a confutare o a confermare quest’idea. Hans J. Eysenck e Leon Kamin sono stati due protagonisti di questo dibattito senza esclusione di colpi.
Il libro è scritto in modo assai chiaro, volutamente accessibile a un grande pubblico, proprio perché l’argomento, nel pensiero dei due autori, deve permettere a ogni lettore di farsi un’opinione per quanto possibile piccina sul problema. Inquadrare questo dibattito in un contesto più allargato non è semplice, proprio per le implicazioni di cui si parlava prima. Tuttavia qualche considerazione si può tentare, anche se il terreno è estremamente scivoloso e si rischia spesso di essere fraintesi. Si potrebbe forse cominciare col cercare di separare l’aspetto più propriamente scientifico da quello socio-politico, e vedere poi come le due cosa interagiscano insieme.
Cominciamo allora con l’aspetto genetico. Sembrano esserci pochi dubbi, oggi, sul fatto che la vita è regolata da processi simili in tutti gli organismi viventi; e che nel giro di qualche miliardo di anni, grazie all’evoluzione, si è passati da organismi semplici a organismi sempre più complessi fino a giungere all’uomo. In altre parole, un batterio, una carota, un coniglio o un uomo sono costruiti dagli stessi materiali, « montati » diversamente (la proporzione degli elementi chimici è sorprendentemente simile in tutti gli esseri viventi). È il filamento di DNA, cioè i cromosomi, a decidere della forma e delle caratteristiche di un organismo, in base al codice genetico che guida la sintesi delle proteine.
Detto questo (e su questo c’è sostanziale accordo nella comunità scientifica) possiamo chiederci se le stesse regole valgono anche per il cervello, in particolare per il cervello umano, sede di funzioni cosi elevate. Se infatti si ritiene che nel cervello umano abitino altre entità immateriali che sfuggono alle leggi della biologia e della gravità (e che perciò l’intelligenza sia una qualità « diversa ») il discorso è bell’e finito. Non c’è più ragione di continuare a ricercare l’intelligenza nei cromosomi. Se invece si ritiene che anche l’attività cerebrale, in tutti i suoi aspetti, sia semplicemente il frutto di un’interazione elettro-chimica delle cellule nervose, e che quindi anche l’intelligenza (quella potenziale) sia iscritta nel codice genetico, allora anch’essa si inserisce nelle leggi generali che regolano tutti gli altri aspetti della vita. Se così è, anche il cervello, come ogni altro organo, ha necessariamente seguito, nel corso dell’evoluzione, un processo di diversificazione e complessificazione che ha portato strutture sempre più adatte a far fronte ai problemi di sopravvivenza. Che le cose stiano in questo modo sembra indicarlo la storia stessa della vita.
Se guardiamo per esempio il quadro fornitoci dalla paleontologia appare sufficientemente chiaro un processo d’aumento delle dimensioni relative del cervello, e sembra abbastanza convincente l’idea che il processo evolutivo che ha portato dagli australopitechi all’Homo Sapiens si sia basato, almeno in buona parte, sulla selezione delle capacità mentali in senso lato (capacità di costruire armi e rifugi, di preparare trappole e strategie, di capire e imparare, di sviluppare l’organizzazione di gruppo e il linguaggio). In altre parole così come, nel corso dell’evoluzione, in certi animali la pressione selettiva si è basata sulle zanne, sui garretti, sull’odorato, sulle corna, sulla vista, la strada che ha portato all’uomo si è basata sullo sviluppo delle strutture nervose, in particolare di quelle che elaborano le percezioni ambientali. In realtà quando si dice « l’uomo » bisognerebbe usare il plurale: infatti se è vero che esiste una sola specie umana, ogni uomo è diverso da ogni altro. Non esistono due esseri viventi uguali in natura. Le mosche ci sembrano tutte uguali, eppure sono tutte diverse. E così gli uomini. Perché i loro codici genetici sono diversi, anche se simili [e diversa è anche la loro esperienza, NDR].
Ma come può il DNA esprimere questa sua diversità a livello di qualità mentali? Non lo sappiamo con precisione, ma possiamo formulare qualche ipotesi. Per esempio, poiché il DNA regola la costruzione cellulare, pare evidente che anche le cellule nervose e la loro organizzazione funzionale siano costruite a partire da questo codice (diverso in ogni individuo). E che questo valga anche per la struttura delle radici nervose, per la rete di circolazione sanguigna nel cervello, per la biochimica dei neurotrasmettitori, per le membrane, ecc.
In altre parole, così come i cromosomi creano differenze nella fisionomia delle varie parti del viso, analogamente ogni cervello sin dalla nascita ha probabilmente una sua « fisionomia » particolare, una sua peculiarità dovuta appunto alla diversità del codice genetico individuale. Questa diversità vale, del resto, anche per molte altre caratteristiche innate, che riguardano il comportamento (in particolare quelle regolate dagli ormoni, a loro volta regolati dal DNA). In ricerche sui topi si cerca attualmente di tracciare una mappa dei geni, per quanto riguarda appunto il comportamento. E taluni studi ritengono di aver localizzato dei geni preposti a certi comportamenti innati: per esempio una maggiore attività esplorativa, o una maggiore capacità nell’evitare una scossa elettrica (in pratica, una maggiore capacità di apprendimento da parte dei topi che posseggono certi geni, rispetto ad altri). In altre ricerche si ritiene di aver individuato anche dei geni che predispongono alla depressione nervosa.
Nell’uomo, naturalmente, queste differenze genetiche si « impastano » molto rapidamente con l’ambiente, e risulta poi difficile separare ciò che è innato da ciò che è acquisito. Tuttavia sembra ragionevole pensare, per esempio, che una persona sia stonata o intonata non per càuse ambientali ma genetiche. Analogamente sembra difficile credere che sia solo per cause ambientali che Mozart fosse un genio precoce, o che Giotto sapesse disegnare bene, o che Pauli a 18 anni avesse scritto un’opera fondamentale sulla relatività. Del resto, anche tra fratelli allevati in una stessa famiglia esistono differenze, a volte notevoli, di temperamento, talenti, predisposizioni, intelligenza.
Che vi siano dunque delle differenze individuali, non solo fisiche ma cerebrali (e quindi mentali) sembra difficilmente contestabile. E infatti non è su questo punto che verte il dissenso, altrimenti bisognerebbe sostenere che tutti gli uomini hanno lo stesso codice genetico e sono stampati in serie (o che il DNA determina solo le strutture del corpo e non quelle del cervello). Il dissenso verte piuttosto su altri fattori, e, in particolare: su quale sia l’ampiezza di questa differenza, 2) in quale misura queste predisposizioni siano veramente ereditarie, 3) e soprattutto in quale misura l’ambiente possa in seguito modificare le differenze, attraverso l’educazione e le opportunità di sviluppo.
Su questi tre punti principali (e sulle loro implicazioni) verte il dibattito tra Eysenck e Kamin. Il libro, naturalmente (e forse è questo il suo implicito limite) affronta soltanto il problema dell’intelligenza: qualità quanto mai difficile da definire, come riconoscono gli stessi autori.
Il principale strumento d’indagine usato sin dall’inizio del secolo, come è noto, è costituito dai famosi test per misurare il QI, il quoziente di intelligenza. Sull’ambiguità di questo strumento, sulla difficoltà di sapere cosa misura effettivamente, e sulla difficoltà di separare l’intelligenza « fluida » da quella « cristallizzata » (cioè quella innata da quella sostanziata dalle esperienze) si è discusso per decenni: il confronto fra due punti di vista radicalmente opposti può essere molto utile per capire i termini del dibattito. Leon Kamin rivela, in proposito, un acuto spirito di indagatore, rivisitando in modo critico certi risultati e dimostrando quanto bisogna stare attenti nel prendere per buoni dei dati apparentemente attendibili.
Il problema è assai complesso, e riguarda anche il modo in cui vengono usati questi test. È come per le statistiche: esse possono essere utilizzate per dimostrare cose diverse, se non addirittura opposte. Tuttavia bisogna naturalmente stare attenti a non buttare via il bambino con l’acqua del bagno: infatti i test sul QI, pur con i loro limiti, rappresentano uno strumento assai utile per valutare certe situazioni e per studiare i cambiamenti eventualmente indotti dalle variazioni ambientali. Non sono ovviamente da prendere alla lettera, ma neppure da rifiutare, per l’aiuto che possono offrire all’indagatore. Anche perché al di là dei test di QI (e di una nuova tecnica sui potenziali evocati assai contestata) i mezzi di indagine per stabilire qual è il substrato genetico dell’intelligenza appaiono oggi molto scarsi. Infatti non sappiamo gran che dei geni coinvolti in questa dote (o complesso di doti), né sappiamo come identificarli. Si ritiene che l’intelligenza non dipenda, naturalmente, da un solo gene, ma sia un carattere « poligenico », cioè risulti dall’azione congiunta di molti geni (Eysenck cita il numero di 51, Erlenmayer Kimling, qualche anno fa, diceva più di 80). È molto azzardato fare delle cifre. Quello che sappiamo invece, è che ad ogni riproduzione sessuale i geni si ridistribuiscono, le carte si mescolano e le combinazioni cambiano. In quale modo però è difficile dirlo: il dibattito sull’ereditarietà dell’intelligenza, che copre buona parte del libro, può solo far riferimento a test incrociati di genitori, figli biologici e figli adottivi, gemelli monozigoti e dizigoti, fratelli, ecc. E il lettore potrà farsi un’idea sulla validità dei metodi seguiti.
Bisogna però a questo punto dire che, se non sappiamo ancora quali sono i geni che determinano l’intelligenza, sappiamo però quali sono gli ambienti che la possono sviluppare o deprimere. Si apre qui il discorso sull’ambiente, un discorso assai ampio, che è stato abbastanza approfondito in questi ultimi anni.
Per capirne l’importanza si potrebbe fare un esempio estremo: quello dei cosiddetti « bambini-lupo ». Cioè bambini cresciuti in forte deprivazione culturale. È noto a tutti il celebre caso del bambino ritrovato il secolo scorso nei boschi dell’Aveyron in Francia, e osservato a lungo da Jacques Itard. Il bambino, che era vissuto praticamente allo stato selvatico forse sin dalla prima infanzia, si comportava come un piccolo animale. Tutto il suo patrimonio genetico di uomo non gli era servito a molto: senza un contesto culturale non aveva potuto sviluppare un’attività mentale superiore, e neppure un linguaggio. E gli sforzi per educarlo, per portarlo a un livello almeno elementare, furono pressoché vani. Casi come questo sono la prova che senza un ambiente adatto i cromosomi non riescono a esprimere molto, così come a una pianta non basta un buon seme per svilupparsi: ha bisogno di un buon terreno, di luce, di calore e di acqua. E occorre che ciò avvenga al momento giusto, prima che la pianta inaridisca e appassisca.
Numerosi studi sui bambini hanno, per esempio, dimostrato che se certi sviluppi non si hanno nei primi armi di vita difficilmente potranno essere recuperati in seguito. È come una partita a scacchi, in cui le prime mosse contano per l’impostazione generale del gioco. Naturalmente conteranno anche tutte le mosse successive nel corso dello sviluppo. E specialmente là dove gli ambienti socio-economici particolarmente svantaggiati non sono in grado di offrire quella ricchezza di stimoli culturali che permetterebbero alle potenzialità innate di esprimersi al meglio.
Appare molto chiaro, a questo punto, lo stretto legame che esiste tra lo sviluppo dell’intelligenza innata e l’ambiente in cui ogni individuo nasce e cresce. Chi ha genitori istruiti e fortemente motivati nel suo successo negli studi, buone scuole, occasioni di letture e di incontri, frequentazioni più stimolanti, ecc., ovviamente svilupperà meglio la sua intelligenza di chi cresce invece in un ambiente povero e poco colto, in cui gli stimoli sono modesti e limitati, l’avviamento al lavoro (magari precoce) prevale sulla spinta allo sviluppo intellettuale, ecc. È evidente che se si misureranno i QI di questi due individui, si troveranno nette differenze: a parità di potenzialità iniziali, infatti, le capacità raggiunte (e misurate) saranno assai diverse. Coloro che applicano i test, naturalmente, conoscono bene questi problemi: ma le possibilità di separare, di « disaggregare », ciò che è acquisito da ciò che è innato appare molto ardua. Non solo perché le potenzialità iniziali possono essere diverse, ma perché possono esservi fattori non valutabili che modificano l’atteggiamento di un individuo verso il proprio ambiente (temperamento, motivazioni, esperienze, ecc.); lo stesso concetto di ambiente, del resto, non può essere visto in modo troppo rigido, poiché all’interno di ambienti apparentemente diversi possono esservi situazioni particolari, occasioni e incontri differenti, esperienze incrociate, itinerari più stimolanti o più deprimenti, e cosi via.
Ciò che noi vediamo in ogni individuo, quindi, è sempre il risultato di questi vari fattori, combinati e intrecciati in modo a volte imprevedibile. Ognuno di noi ha la sua storia genetica e la sua storia ambientale: ed è l’interazione continua di queste due cose che finisce per plasmarci e renderci quello che siamo: con le nostre qualità, i nostri difetti, le nostre capacità e i nostri limiti. L’intelligenza (ma non solo l’intelligenza, poiché il discorso vale per ogni altro aspetto del comportamento e coinvolge le risposte emotive, affettive, ecc.) appare dunque come il risultato di questo continuo impasto di caratteri ereditari e acquisiti, con un dosaggio che varia a seconda delle circostanze e delle persone.
La domanda che si pone il libro è sostanzialmente questa: di fronte a due individui che mostrano un differente quoziente di intelligenza (ammesso che i test di QI siano attendibili) queste variazioni di punteggio sono dovute più all’ambiente o più a fattori genetici?
La risposta di Eysenck è che le variazioni di QI sono dovute per l’80% a fattori genetici, e solo per il 20% all’ambiente. Traducendo poi meglio il valore di queste cifre egli precisa che questa percentuale viene spesso fraintesa, nel senso che il patrimonio genetico sembrerebbe essere 4 volte più importante dell’ambiente: in realtà questi indici, dice Eysenck, derivano da un calcolo che eleva al quadrato la deviazione standard, e quindi in termini più semplici ciò significa che l’eredità è due volte più importante dell’ambiente, e non quattro. In altre parole tra due individui che presentano un diverso quoziente di intelligenza, i fattori genetici sarebbero due volte più importanti di quelli ambientali nel determinare quella differenza. Anche perché, dice Eysenck, una maggiore intelligenza innata consente a un individuo di imparare di più e quindi di valorizzare meglio la quantità di stimoli che provengono dall’ambiente. Cioè l’ambiente verrebbe trasformato in acquisizioni, in misura maggiore o minore, attraverso il moltiplicatore genetico, per così dire.
A sostegno della sua tesi Eysenck cita una serie di esperimenti e di studi, che vengono puntualmente e efficacemente contestati da Kamin attraverso ulteriori analisi degli stessi dati e indagini personali. Gli studi sui gemelli separati e sulle adozioni, in particolare, offrono lo spunto per un vero e proprio scontro, con reciproche accuse di « falsità ». È ovvio, come dicevamo all’inizio, che dietro questo dibattito sulle cifre e sulle statistiche, esistono grossi problemi etici, sociali, politici. Ed è venuto il momento di parlarne, poiché tutto questo discorso non riguarda lo sviluppo delle farfalle o degli echinodermi, ma riguarda in definitiva lo sviluppo e le relazioni tra uomini e tra gruppi umani.
Il primo punto è quello dell’accusa di razzismo, che è stata duramente rivolta a Eysenck, a Tensen e agli altri sostenitori della prevalenza dell’intelligenza innata. Infatti nelle rilevazioni del QI fatte ripetutamente negli Stati Uniti i neri, come è noto, risultano mediamente 15 punti sotto i bianchi: la teoria ereditaria sostenuta da Eysenck attribuisce questa diversità a ragioni genetiche, implicando un’inferiorità razziale (cioè congenita, non solo dovuta alle più svantaggiate condizioni socio-economiche) della popolazione nera, con tutte le conseguenze che ne derivano (discriminazioni scolastiche, inevitabilità di una ripartizione in classi e di una divisione verticale del lavoro).
Come si difende Eysenck da questa accusa di razzismo? Innanzitutto dicendo che non si può accusare il termometro del fatto che fa caldo oppure freddo: il termometro si limita a misurare la temperatura. Poi ricorda che non bisogna confondere il QI medio di una popolazione con quello individuale: ci sono tanti neri molto più intelligenti dei bianchi (e viceversa), e ognuno va giudicato per quello che è, non per la sua appartenenza a una razza (e qui Eysenck tenta addirittura di rovesciare le posizioni); e infine sostiene che, contrariamente a quello che affermano i suoi detrattori, questi test non sanciscono affatto la superiorità della razza bianca. Anzi essa risulta avere un indice medio di intelligenza più bassa delle popolazioni asiatiche (cinesi e giapponesi) e degli ebrei, che risultano i più bravi di tutti nei test di intelligenza. Che poi siano i cromosomi e non le condizioni sociali a provocare i bassi risultati dei neri, dice Eysenck, lo prova il fatto che gli immigrati messicani (che vivono in condizioni socio-economiche ancora più basse) fanno meglio dei neri nelle prove di QI.
Kamin ha buon gioco nel rispondere che nel 1925, usando test per le prove di intelligenza, i bambini ebrei immigrati a Londra furono considerati inferiori ai bambini inglesi. E ciò fu « dimostrato » con l’ausilio di 144 tavole e 46 illustrazioni in 127 pagine, dalla autorevole rivista Annals of Human Genetics. In realtà, dice Kamin, qualsiasi cosa possano affermare gli esperti, non esistono prove schiaccianti che il quoziente di intelligenza sia ereditario all’80, al 50 o al 20%. Non vi sono nemmeno basi sufficienti, aggiunge un po’ paradossalmente, per liquidare l’ipotesi che l’ereditarietà del QI sia pari a zero. I risultati sperimentali sono comunque incompatibili con una elevata ereditarietà. In ogni caso, aggiunge Kamin, non siamo in grado di misurare tali fattori. Abbiamo solo dei test di livello, di portata limitata e chiaramente dipendenti dalla pregressa esperienza. Del resto, guarda caso, questi test « condannano » proprio quei gruppi umani che sono in posizione socio-economica più svantaggiata: i neri, i poveri e le donne (per le donne bianche i test indicherebbero, secondo Eysenck, una sostanziale parità con gli uomini, ma gli uomini avrebbero una maggiore « variabilità » vale a dire che vi sarebbero, alle due estremità della scala, da un lato più uomini molto ottusi e dall’altro più uomini molto intelligenti e quindi in posizioni eminenti).
Basta questa breve elencazione di dati per comprendere quanto esplosiva sia questa polemica in un paese come gli Stati Uniti, dove oltre il 10% della popolazione è nero. Anche perché, al di là di una loro fondatezza scientifica, queste teorie vengono a interferire in un lento processo di integrazione che intende basarsi proprio sulla parità degli individui e sull’eliminazione delle differenze dovute all’ambiente. Come è noto, negli Stati Uniti si è spesso stabilito che delle « quote » proporzionali di minoranze etniche possano accedere di diritto a vari tipi studi e livelli professionali (università, amministrazione dello Stato, giornalismo televisivo, ecc.). Una specie di lottizzazione alla rovescia, che tende a favorire i meno privilegiati, che in normali concorsi rischierebbero di essere eliminati.
Questo processo di integrazione cerca non solo di correggere lo svantaggio ambientale iniziale, ma di innescare un meccanismo, per così dire, autofertilizzante. Nel senso che solo in questo modo è possibile rompere la sequenza circolare sottosviluppo economico-sottosviluppo culturale, che tende a perpetuarsi soprattuto se ha di fronte a sé il continuo sbarramento di selezioni basate sull’accertamento del livello raggiunto. Anche per queste ragioni le teorie di Jensen, Eysenck e altri (tra questi vi è anche W. Shockley, premio Nobel, inventore del transistor), sono considerate nefaste, perché riproporrebbero in pratica un ritorno indietro. Ed è il motivo per cui alcuni autorevoli scienziati hanno chiesto che non si continui più in questo tipo di studi, e che comunque tali studi non siano sovvenzionati dallo Stato.
C’è a questo punto un argomento molto importante, che sarebbe bene mettere in evidenza. Un argomento che, come si dice, taglia la testa al toro. Ed è questo: qualunque sia la fondatezza o l’infondatezza delle teorie di Eysenck, rimane il fatto che il patrimonio genetico di un individuo non è in alcun modo modificabile: il suo ambiente invece sì. In altre parole, gli studi di genetica sull’intelligenza riescono solo a fornirci delle tabelle e delle statistiche, che non possono cambiare la situazione di fatto, dal momento che non è possibile intervenire sui cromosomi per migliorare l’intelligenza (a meno che i nostri posteri ci riescano con l’ingegneria genetica). Quindi anche se questi studi fossero seriamente probanti, potrebbero solo distribuire agli uni e agli altri delle patenti di ottusità e di intelligenza, senza risolvere i problemi. E sarebbe di poca consolazione sapere che in questo modo, separando i bambini in classi divise per « livelli genetici », si potrebbero ottenere, come sostiene Eysenck, sistemi educativi più razionali ed efficienti (ma anche più predeterminanti).
Sull’ambiente, invece, lo sappiamo, è possibile agire in modo assai ampio e articolato. Possiamo infatti fare dell’ottima « ingegneria ambientale » con le conoscenze che già possediamo. Esistono studi molto convincenti che mostrano la grande possibilità di creare dei veri e propri salti culturali, semplicemente correggendo gli svantaggi dovuti all’ambiente iniziale. Esiste per esempio una ricerca realizzata dal prof. Rick Heber, il quale ha studiato 40 bambini neri scelti tra quelli che abitavano i ghetti della città di Milwaukee. Metà sono stati utilizzati per l’esperimento, gli altri come gruppo di controllo. L’esperimento consisteva praticamente nell’ospitare sin dalla nascita questi bambini in un asilo nido modello, dove nurses e assistenti specializzate fornivano loro quegli stimoli culturali di cui solitamente dispongono i bambini che crescono in buoni ambienti socio-economici. A distanza di 8 anni questi bambini negri dimostravano ai test un QI medio di 104 punti, mentre i bambini del gruppo di controllo (cioè i coetanei lasciati nel loro ambiente) risultavano avere un QI medio di soli 80 punti! Un salto di questo genere significa ovviamente scavalcare il muro del suono dell’insuccesso. Vale a dire arrivare a scuola con degli attrezzi mentali e con un linguaggio capaci di permettere il normale inserimento nello studio, passando dal sottosviluppo mentale a una zona di normale intelligenza (e anche molto di più: i dati sopracitati sono quelli riferiti da Eysenck, ma Rick Heber, quando lo vidi anni addietro, mi aveva mostrato indici ancor più elevati. E tali risultano anche dalla letteratura esistente).
Eysenck, nel suo libro, rivolge numerose critiche a questo esperimento, e conclude dicendo che, comunque, esso non contraddice la teoria del 0,80 genetico e del 0,20 ambientale. Ma qui il problema è un altro: esperimenti come questo mostrano che è possibile aiutare efficacemente dei bambini predestinati al sottosviluppo mentale a saltare dall’altra parte del-fossato. Basta pensare che passare da 80 a 104 significa proprio superare quella distanza che nei test collettivi esiste tra bambini neri e bianchi nella popolazione americana (lo stesso Eysenck cita i risultati di una di queste misurazioni mediante test, che diede QI rispettivamente di 80,7 per i bambini neri e 101,8 per i bianchi). Ecco che allora il problema si pone in termini assai diversi, molto più concreti. Si tratta in sostanza di creare le condizioni per aiutare ogni individuo a realizzare quel potenziale di intelligenza che ha in sé, e a inserirsi nella comunità umana nel migliore dei modi con parità di diritti.
Se, in nome di una maggiore efficienza nell’utilizzazione dei potenziali innati, dovessimo adottare il modello dell’intelligenza genetica (ammesso che fosse misurabile) dovremmo creare una società stratificata sin dall’infanzia, con un cartellino che ognuno si porta addosso sin dal primo test, e che lo destina di fatto a un certo ruolo di leader, di gregario o di semplice esecutore manuale. La realtà invece è che, ovviamente, esiste una aspirazione generale ad andare verso società sempre più egualitarie, e quindi il costo sociale e conflittuale di un tale modello sarebbe molto più alto di quello di un’eventuale minore efficienza dovuta a una minore selezione preventiva. Questo vale non solo per il problema razziale, ma anche per i problemi relativi alle differenze tra individui che appartengono a una stessa razza, o addirittura tra fratelli. Chi, infatti, accetterebbe senza batter ciglio di essere cittadino di serie B, in base a un test o all’esame dei suoi cromosomi?
Detto tutto questo, bisogna anche aggiungere che le cose non sono così semplici. Bisogna infatti essere abbastanza onesti per riconoscere che, silenziosamente, noi tutti finiamo per praticare continuamente dei test di intelligenza per stratificare gli individui in base a certi parametri. Anche coloro che rifiutano la validità dei test di QI operano in pratica delle classifiche di intelligenza tra gli individui, in base a criteri personali (che probabilmente non sono migliori di quelli, più oggettivi, dei test). In altre parole, noi tutti assegniamo alle persone che conosciamo degli indici (o comunque dei livelli) di intelligenza, più alti o più bassi; e in base a questo nostro « test » segreto favoriamo oppure no la loro carriera, i loro studi, i loro successi. Ciò avviene quotidianamente ovunque: in ogni gruppo umano, in ogni società. Infatti, forse che a dirigere un progetto scientifico, uno stabilimento industriale, un’impresa spaziale, o un negoziato internazionale, un governo (qualunque esso sia) delega una persona poco intelligente? Ovviamente no. L’interesse generale richiede che per questi compiti siano selezionati i più capaci. E coloro che preparano gli studi e le documentazioni per questi dirigenti, devono essere poco intelligenti? Ovviamente no. Occorre scegliere anche loro tra i più capaci. E così via. Scendendo lungo i livelli, e passando dal pubblico al privato ci si rende conto che l’interesse generale, o personale, richiede ogni volta la scelta delle persone più capaci e intelligenti. Nessuno di noi vorrebbe rivolgersi a un medico ottuso, a un avvocato ottuso, o anche soltanto a un idraulico ottuso.
Ecco quindi che il problema, uscito dalla porta, rientra in qualche misura dalla finestra. Esso si chiama, per cosi dire, meritocrazia. Naturalmente è vero che la meritocrazia come” l’intelligenza, si basa su due componenti integrate tra loro: i talenti innati e le competenze acquisite. Ed è quindi vero che bisogna sempre più cercare di offrire parità di opportunità ambientali perché ognuno possa acquisire queste competenze. Ma una volta fatto ciò, non finiscono per emergere comunque coloro che posseggono maggiori capacità innate? Anzi la parità ambientale non finisce per esaltare ancor più queste differenze genetiche?
Per capire meglio questo concetto si può fare un piccolo paragone. Immaginiamo due nuotatori sul bordo della piscina: uno atletico e l’altro piccolo e mingherlino. Supponiamo che quello atletico sappia nuotare poco e male, e che quello mingherlino si sia invece allenato a lungo e con buoni maestri. In una gara, ovviamente, sarà il mingherlino a vincere: cioè l’ambiente (lo studio, l’allenamento) prevarrà sull’aspetto genetico (la corporatura atletica). Ma se entrambi si saranno allenati in modo uguale, con buoni maestri, allora sarà sempre l’atleta a vincere. Cioè l’aspetto genetico prevarrà su quello ambientale. In passato la grande disparità di ambienti culturali creava grande disparità di sviluppi: molti grandi talenti rimanevano probabilmente nell’analfabetismo, mentre magari individui mediocri (ma colti) riuscivano a dominare.
Ma ora, parificando sempre più l’ambiente e le opportunità di studio, non si finirà per far emergere sempre più gli « atleti » dell’intelligenza genetica? Cioè la parità educativa, non metterà ancor più in evidenza la disuguaglianza (anche se piccola) dei cromosomi? Sono domande scomode, perché non sappiamo bene che tipo di risposta trovare, una risposta che sia adeguata ai nostri princìpi egualitari. Forse una strada c’è per uscire da questa impasse dell’intelligenza innata, che sembra incombere come una forma di ingiustizia biologica, un numero magico che ogni individuo si trova nella culla alla nascita (e che, anche se eli poco superiore a quello di un altro, sembra avere un’importanza determinante, così come per vincere in una gara hanno un’importanza determinante anche i decimi di secondo). Ricorriamo a un esempio un po’ immaginativo: quello della tombola. Quando estraiamo i numeri della tombola dal sacchetto, noi non consideriamo il 14 inferiore al 32, o il 64 superiore al 21. I numeri, pur essendo tutti diversi, sono tutti uguali. Nel senso che hanno uno stesso valore. Quello che conta, in realtà, non è il numero, ma la cartella in cui si inserisce. È infatti la cartella che determina se è più utile il 32 o il 64 (per fare cinquina) o magari il 21 (per fare tombola).
In altre parole la natura non si diverte a fare gli uomini « superiori » o « inferiori »: semplicemente li fa diversi. Così come fa diversi i batteri, le piante, gli uccelli. Se volessimo spingere questo concetto ai suoi limiti, potremmo dire che ogni essere vivente, teoricamente, può essere il « migliore »: è l’ambiente (sempre mutevole) a decidere quale è il più adatto, in quel momento e in quelle circostanze. Questo significa che tanto più numerose sono le « cartelle », cioè le disponibilità ambientali ad accogliere questa grande diversità e a valorizzarla, tanto più vi saranno numeri vincenti. Solo se le « cartelle » sono poche e non mutevoli, questa tendenza all’uguaglianza si restringerà. In una ipotetica società in cui, per esempio, essere « i migliori » volesse dire saper cantare bene, gli stonati sarebbero ovviamente sempre gli ultimi in classifica, malgrado l’uguaglianza di ambienti e di studi. Analogamente i tenori, a loro volta, sarebbero probabilmente in coda in una società di matematici, i matematici in coda in una società di calciatori, i calciatori in coda in una società di compositori, ecc. È solo un grande ventaglio di opportunità, che consente agli individui di esprimere al meglio i talenti che hanno (anziché quelli che non hanno).
Per fortuna sembra che ci stiamo avviando verso una società di questo tipo. Cioè aumentano le ramificazioni professionali, le diversificazioni, le specializzazioni. Aumentano le « cartelle », per così dire, e forse aumenteranno anche gli spazi per le vocazioni personali, se saremo capaci di gestire bene questo processo di trasformazione che investe molti aspetti sociali ed economici. Infatti, non è detto che sia l’intelligenza l’unica qualità importante per l’uomo (soprattutto l’intelligenza misurata da questi test). Il nostro cervello è capace di tante altre cose, ed è pieno di ricchezze, di risorse, di « numeri ». Mi ha colpito, per esempio, quello che mi ha detto un giorno il prof. D. Me Kinnon, uno dei massimi esperti in creatività: e cioè che gli inventori non sembrano avere mediamente ai test di QI un indice particolarmente elevato. O almeno, non così elevato come ci si attenderebbe. La loro grande qualità è la capacità inventiva.
E bisognerebbe allora aprire qui un discorso che nel libro è affrontato solo molto marginalmente (poiché il tema è circoscritto al QI): non è evidentemente il caso di dilungarsi troppo su questo argomento, ma non si può neppure ignorare che l’uomo (e anche l’uomo intellettualmente ben dotato) non è solo quello che ha capacità di « problem solving ». Esistono molte altre doti mentali clic sono altrettanto preziose: basta pensare appunto alla invenzione, alla creatività, alla musicalità, all’intuizione poetica, alla capacità critica, alla sensibilità artistica, al talento pittorico, alle doti di umorismo, ecc. Tutte cose che non si misurano con delle tabelline e dei punteggi. Del resto esistono moltissime altre capacita, tutte associate al cervello (poiché in definitiva tutto ciò che facciamo è regolato dalle nostre strutture cerebrali), che non sono neppure rubricabili sotto dei test, e che pure sono altrettanto importanti dal punto di vista mentale.
Per concludere questo rapido giro d’orizzonte ci possiamo infine chiedere in quale misura nelle società moderne (così come si stanno sviluppando) il quoziente di intelligenza misurato con i test potrà davvero incidere pesantemente, oppure no, sull’avvenire di un individuo. L’impressione è che esso conterà forse molto meno che per il passato. Perché innanzitutto un numero crescente di persone, attraverso l’educazione, giungerà in una zona di sviluppo mentale sufficientemente elevato, e le differenze quindi non appariranno più così vistose come per il passato. Secondariamente perché la tendenza delle società attuali non sembra essere quella di privilegiare, dal punto di vista retributivo e delle opportunità, il lavoro intellettuale. Basta guardare la busta paga di un profesessore universitario o di un ricercatore del CNR con un altissimo QI. Per non parlare dei giovani intellettuali disoccupati. Il « problem solving » è ovviamente una capacità ancora oggi necessaria, anzi indispensabile in un mondo sempre più complesso (anche perché lo sviluppo tecnologico porta inevitabilmente al dilagare delle società industriali, che nei loro molteplici aspetti tecnici, economici, organizzativi, amministrativi, richiedono proprio la capacità di risolvere continuamente nuovi problemi): ma a livello individuale ciò non sembra più garantire quella prevalenza sociale e possedere quella forza discriminante che aveva un tempo. Anzi, le strutture sociali tendono a proteggere i più deboli come mai è avvenuto in nessuna società del passato. E la tendenza generale, anche sindacale, sembra piuttosto orientata a privilegiare il livellamento (e spesso l’appiattimento) anziché la meritocrazia basata sul QI. Anzi, qui il problema, a volte, sembra quasi essersi rovesciato.
Che a questo punto vi siano individui con QI molto elevati, capaci di essere utili non solo a se stessi, ma, anche alla collettività, non sembra costituire un problema sociale molto sentito. Soprattutto se non si pone in termini di potere (questo e uno dei punti chiave) e se ci si sforzerà eli’ elevare al massimo il livello di coloro che, per ragioni ambientali, si trovano ancora in zone di arretratezza mentale.
Attualmente, secondo gli economisti, le nostre società stanno passando da una forma a piramide ad una forma a uovo. Vale a dire che la divisione del lavoro, che un tempo si poteva raffigurare come una piramide stratificata, con un piccolo vertice ed una larga base (quella dei lavori umili e pesanti), si sta trasformando in una struttura in cui il vertice si è allargato, la base si è molto ristretta e la zona centrale si è gonfiata, tendendo a una forma « a uovo » appunto. In altre parole, le differenze diminuiscono, e nelle zone molto basse rimane un numero decrescente di individui. Al punto che alcuni studiosi stanno già prefigurando società future in cui i lavori sgradevoli e ripetitivi (quelli delle zone basse) saranno svolti a turno da tutti, grazie a una rotazione verticale del lavoro basata su criteri egualitari, e non certo su una classifica dei quozienti di intelligenza.
Anche il quoziente di intelligenza, del resto (inteso come QI « cristallizzato », cioè acquisito), sta probabilmente passando da una forma a piramide a una forma a uovo. Nel senso che lo sviluppo educativo tende a elevale la media e a restringere la base del sottosviluppo. È ovvio che si tratta di un processo lento, e che molte differenze comunque rimarranno, proprio perché gli uomini per fortuna non sono stampati a macchina, ma sono tutti diversi. Ma se, in definitiva, malgrado la parità dovessero comunque esservi degli uomini più intelligenti, cosa bisognerebbe fare? Ucciderli? Oppure impedire che possano svilupparsi? Evidentemente no. Il problema non è quello di impedire agli uomini di essere diversi: l’uguaglianza non può essere confusa con l’uniformità. Sarebbe paradossale considerare l’intelligenza quasi come una colpa, un intralcio alla parità tra gli uomini. Il problema è di evitare che possano nascere ingiustizie tali da impedire agli altri di svilupparsi, costringendoli in ghetti mentali discriminanti.
Da questo punto di vista, comunque, sembra poco verosimile, da quanto possiamo presumere oggi, che si vada verso società in cui ognuno girerà con un numero stampato in fronte, e sarà classificato in base al suo QI.Il discorso sull’intelligenza, naturalmente, rimane mollo importante. Ma di fronte alla complessità umana, alla varietà e all’intreccio di elementi che concorrono a formare le tante qualità di un uomo, occorre evitare di rimanere intrappolati troppo da vicino in un labirinto di tabelle e di percentuali che non possono esaurire un discorso necessariamente molto più articolato.
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