«Ha fatto anche cose buone»: il culto di Mussolini e le bufale sul fascismo in Italia

by gabriella

culto del duce

Banalizzazione e ignoranza sono, secondo lo Spiegel, i due ingredienti della rimozione collettiva dei crimini fascisti e del conseguente culto di Mussolini.

L’articolo seguente, tradotto da italiadallestero.info, fa luce sull’incredibile persistenza delle falsità sul fascismo davanti a un popolo, quello tedesco, che a differenza del nostro non ha mancato di fare i conti con la storia. In coda l’elenco delle bufale fasciste, la storia di Faccetta nera, il campo di concentramento di Arbe.

 

Indice

1. Hans-Jürgen Schlamp, Il culto di Mussolini in Italia

1.1 «Sei l’unico Dio»
1.2 «Mussolini era un galantuomo»
1.3 Rimozione collettiva del passato
1.4 Un paese più sano grazie alla destra

 

2. I miti del fascismo

2.1 «Devi ringraziare il Duce se esiste la pensione»
2.2 «Il Duce garantì l’assistenza sanitaria a tutti lavoratori»
2.3
«La cassa integrazione guadagni è stata pensata e creata dal Duce»
2.4 «Il Duce ha avviato il progetto della bonifica pontina»
2.5 «Ai tempi del Duce eravamo tutti più ricchi»
2.6 «Il Duce ha fatto costruire grandi strade in Italia»
2.7 «Quando c’era lui i treni arrivavano in orario»
2.8 «Il governo di Mussolini raggiunse il pareggio di bilancio il primo aprile 1924 (e quindi è migliore dei governi attuali)»
2.9  «Mussolini rinunciò al suo stipendio per risanare l’economia e finanziare la guerra»
2.10 «Mussolini non aumentò le tasse»
2.11 Mussolini impose ai membri del governo l’uso delle biciclette facendo risparmiare miliardi al popolo italiano
2.12 I fascisti non hanno mai rubato
2.13 Il Duce è stato l’unico uomo di governo che abbia veramente amato questa nazione

 

3. Squadrismo e violenza politica

3.1 La repressione: dagli omicidi al Tribunale speciale per la difesa dello Stato
3.2 Il confino
3.3 La deportazione
3.4 La guerra

 

4. Il razzismo coloniale: la storia di Faccetta nera


1. Hans-Jürgen Schlamp, Il culto di Mussolini in Italia

In uniforme di guerra o con la mano tesa nel saluto fascista, è in bella mostra in edicola, in libreria e su Internet: il Duce Benito Mussolini, fondatore e “capo del fascismo”, gode di grande popolarità sui calendari italiani. Un mese è raffigurato con l’elmetto e il mento sollevato, e un altro sfoggia una daga romana, sempre con l’immancabile mento volitivo. Anche i suoi prodi soldati con l’elmetto marciano baldanzosi tutti gli anni, a colori o in bianco e nero, affiancati dai simboli dell’immaginario fascista come la svastica.

I turisti stranieri, soprattutto tedeschi, restano allibiti davanti a questa esibizione così esplicita e verificano furtivamente la data dei calendari. Ebbene sì, l’ex dittatore italiano vanta anche nel 2013 una fedele comunità di ammiratori che non si limita solo a comprare calendari.

 

1.1 «Sei l’unico Dio»

Questo culto del Duce, così incomprensibile agli stranieri, si manifesta in tutta la sua portata a Predappio, un paesino dell’Emilia Romagna di poco meno di settemila abitanti, che nemmeno varrebbe la pena visitare. Ma è qui che il 29 luglio 1883 nacque Benito Amilcare Andrea Mussolini, figlio di un fabbro e di una maestra elementare, il “Duce”, precursore e per molti versi modello ispiratore del “Führer” Adolf Hitler.

All’epoca questo desolato paese si chiamava ancora Dovia. Ma il suo figlio più famoso decise di trasformarlo in un fulgido esempio di architettura fascista, ribattezzandolo Predappio. Più tardi, nel 1945, dopo la sua fucilazione da parte dei partigiani e l’esposizione del cadavere appeso a testa in giù a un distributore di benzina di Milano, l’ex dittatore fu tumulato a Predappio insieme alla madre, al padre, alla moglie, alla figlia, alla nuora e al fratello.

Oggi la cappella di famiglia è abituale meta di giovani visitatori con teste rasate e lunghi impermeabili neri, che si mettono in posa per farsi fotografare. Nei libri di condoglianze si leggono frasi come “sei l’unico Dio”, e qualcuno solleva il braccio destro. Il cosiddetto “saluto romano” dei fascisti italiani sarà anche meno marziale della versione dei nazisti tedeschi, ma non per questo è più simpatico.

 

1.2 «Mussolini era un galantuomo»

Ogni anno centinaia di migliaia di visitatori si recano a Predappio, riempiendo bar, ristoranti e soprattutto i negozi di souvenir dedicati al Duce sul corso principale. Qui si possono acquistare tagliacarte, portacenere, monete, camicie, pantaloni, barattoli del caffè, vino, boccali di birra che sfoggiano frasi come “credere, obbedire, combattere”, o “boia chi molla”. Ovviamente Mussolini troneggia ovunque, con il suo mento marcato e il saluto fascista. Ci sono anche bandiere con la svastica, rune delle SS e busti del Duce color bronzo di 38 centimetri, al prezzo di 45 euro.

E non manca nemmeno il busto di Hitler, naturalmente molto più piccolo con i suoi 16 centimetri, in compenso però al prezzo stracciato di soli 15 euro. Questi articoli attirano di tanto in tanto anche qualche neonazista tedesco che così può farsi una bella bevuta con un boccale per le grandi occasioni: birra dentro e fuori la foto di Adolf con la scritta sottostante “Der Kamerad”, a soli tre euro.

Però gli italiani in genere snobbano i gadget nostalgici nazisti. Perché stonano con la versione storica largamente diffusa nel loro paese. Il più affermato negoziante locale di “souvenir del Duce”, Pierluigi Pompignoli, l’ha sintetizzata così:

“Hitler era un criminale, invece Mussolini era un galantuomo”.

 

1.3 Rimozione collettiva del passato

Ciò non significa affatto che un gran numero di italiani abbia aderito di nuovo al fascismo. La maggior parte di loro, anche gli ammiratori del Duce che si recano a Predappio, o comprano il calendario di Mussolini, non vota per partiti di estrema destra. Mette la crocetta sul simbolo del “Popolo della libertà” di Silvio Berlusconi, oppure vota per i cristiano-democratici, o il centrosinistra. Ad esempio, i sindaci di Predappio sono da molti anni di sinistra.

Molti italiani ammirano Mussolini perché sotto la sua egida furono aperti uffici postali in ogni città e  furono prosciugate le paludi della Maremma sulle quali furono poi costruite comode strade diritte. E anche perché, come si tramanda, ai suoi tempi i treni erano puntuali.

L’esaltazione del Duce è basata soprattutto su una cosa: un mare di chiacchiere. Le conoscenze di questo capitolo di storia d’Italia sono scarse e di conseguenza si sono diffusi miti e mezze verità. Un confronto autentico con il fascismo non c’è mai stato: poco dopo la guerra i fascisti erano di nuovo ben visti. C’era bisogno di loro nella lotta, globale e nazionale, tra capitalismo e comunismo. Del resto, agli inizi della sua ascesa, lo stesso Mussolini aveva ottenuto finanziamenti dalla Francia e dai servizi segreti britannici.

“Per spazzare via l’esercito abissino sarebbe bastato un po’ di insetticida”

Gli italiani non hanno elaborato il loro passato, bensì lo hanno rimosso collettivamente. Gli attacchi con il gas in Etiopia contro i civili? Mai sentiti o dimenticati.

L’aggressione all’Albania e alla Grecia? Sconosciuta. Solo così è stato possibile creare “il mito del buon soldato italiano”, ha dedotto già qualche anno fa Lutz Klinkhammer, dell’istituto storico tedesco di Roma.

Un graduato italiano malmena un partigiano slavo condotto alla fucilazione

Le leggi razziali di Mussolini del 1938, l’intervento italiano nella guerra civile spagnola a fianco di Francisco Franco e Hitler, deportazioni, fucilazioni di ostaggi? No, non può essere. Noi eravamo brava gente. I cattivi erano i tedeschi. E le poche colpe di cui ci siamo macchiati in fondo sono abbastanza veniali. Come ad esempio l’esilio forzato degli intellettuali dissidenti in contrade remote che, come ha affermato Berlusconi quando era ancora a Palazzo Chigi, erano tutt’al più delle “vacanze al confino”.

 

1.4 Un paese più sano grazie alla destra

Berlusconi ha proseguito con successo il processo di rimozione iniziato nel dopoguerra. Quando all’inizio degli anni ’90 scese in politica, aveva bisogno dei postfascisti per ottenere la maggioranza dei voti. Quindi li sdoganò, si alleò con loro e li accolse nel suo governo.

Mirko Tremaglia, già ministro per gli Italiani nel mondo, si vantava di essere stato un combattente della Repubblica di Salò fedele ai nazisti (1943-1945). L’allora ministro delle comunicazioni Maurizio Gasparri annunciò di voler “promuovere talenti culturali di destra” per porre fine all’egemonia della sinistra nelle scuole e nei canali RAI. Su sua iniziativa il catalogo della mostra “Roma dal 1948 al 1959″ si fregia di frasi come: “Grazie alla cultura della destra, che ha continuato a svolgere un’azione di resistenza, l’Italia è ancora oggi un paese più sano delle democrazie che vanno verso il nichilismo”.

Eppure Berlusconi & C. non hanno fatto dell’Italia un paese di destra. L’allora partito postfascista “Alleanza Nazionale” si è frammentato e oggi è politicamente quasi irrilevante. Anche i micropartiti collocati più a destra riscuotono pochi consensi. Tuttavia, il retaggio lasciato all’Italia dagli anni di Berlusconi è una banalizzazione del fascismo gravida di conseguenze, che ha incoraggiato gruppuscoli di estrema destra a esporsi più apertamente, anche con l’uso della violenza.

Se oggi sedicenti fascisti picchiano a sangue un gruppo di tifosi inglesi prima della partita di Europa League Lazio – Tottenham e poi, dagli spalti, li insultano con cori antisemiti, oppure se neofascisti fanno irruzione nelle scuole per protestare contro i tagli all’istruzione al grido di “Viva il Duce”, ciò è frutto dell’era Berlusconi. È stato innanzi tutto lui a sdoganare l’estrema destra.

 

2. I miti del fascismo

Studio storico sui miti del fascismo al netto della propaganda del regime elaborato con tagli e integrazioni da Io, Ex Trastrong.

 

2.1 Mito «Devi ringraziare il Duce se esiste la pensione»

Realtà: In Italia la previdenza sociale nasce nel 1898 con la fondazione della “Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai”, un’assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo anch’esso libero degli imprenditori. Mussolini aveva in quella data l’età 15 anni. L’iscrizione a tale istituto diventa obbligatoria solo nel 1919, durante il Governo Orlando, anno in cui l’istituto cambia nome in “Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali”. Mussolini fondava in quella data i Fasci Italiani e non era al governo.

Tutta la storia della nostra previdenza sociale è peraltro verificabile sul sito dell’Inps. La pensione sociale viene introdotta solo nel 1969. Mussolini in quella data è morto da 24 anni.

 

2.2 Mito: «Il Duce garantì l’assistenza sanitaria a tutti lavoratori»

Realtà: Con la legge dell’11 gennaio 1943, n. 138, con il nome di Ente mutualità fascista – Istituto per l’assistenza di malattia ai lavoratori, venne istituita la prima Cassa Mutua di Assistenza di Malattia che offriva tutele solo ai lavoratori del pubblico impiego. Tutti gli altri non ne avevano diritto.
Il diritto alla tutela della salute per tutti nasce il 13 maggio 1947, data in cui viene istituita l’INAM, Istituto Nazionale per l’assicurazione contro le malattie, riformato nel 1968, con la legge n. 132 (cosiddetta “legge Mariotti”), che assisteva tutti i lavoratori, anche coloro che dipendevano da imprese private.

Nel 1978, con la legge n. 833 del 27 dicembre, veniva estesa, oltre che l’indennità retributiva in caso di malattia, anche il diritto all’assistenza medica con la costituzione del Servizio Sanitario Nazionale, con decorrenza del 1º luglio 1980 (la cosiddetta “riforma sanitaria”). La norma era chiaramente ispirata al National Health Service (NHS) britannico.

 

2.3 Mito: «La cassa integrazione guadagni è stata pensata e creata dal Duce»

Realtà: La cassa integrazione guadagni (CIG) è un ammortizzatore sociale per sostenere i lavoratori delle aziende in difficoltà economica. Nasce nell’immediato dopoguerra per sostenere i lavoratori dipendenti da aziende che durante la guerra furono colpite dalla crisi e non erano in grado di riprendere normalmente l’attività. Quindi la cassa integrazione nasce per rimediare ai danni causati dal fascismo e della guerra che hanno causato milioni di disoccupati.

 

2.4 Mito: «Il Duce ha avviato il progetto della bonifica pontina»

Realtà: I primi lavori di bonifica cominciarono nel 1924 con l’istituzione del Consorzio di Bonifica di Piscinara che avviò la canalizzazione delle acque del bacino del fiume Astura, riprendendo un progetto di Leonardo Da Vinci, interessato anche lui su una ipotesi di bonifica.

Addirittura i primi lavori furono eseguiti da i Volsci (intorno al VI secolo a.c.) che, con un sistema di drenaggio a base di cunicoli rimasti celebri e forse insuperati, riuscirono ad assicurare la disciplina delle acque per cui la zona divenne prosperosa e fertile. Mussolini, quindi, non ha avviato un bel niente.

 

2.5 Mito: «Ai tempi del Duce eravamo tutti più ricchi»

Realtà: Mussolini permise agli industriali e agli agrari di aumentare in modo consistente i loro profitti, a scapito degli operai. Infatti fece approvare il loro contenimento dei salari.

Nel 1938, dopo 15 anni di suo operato, la situazione economica dell’italiano medio era pessima, il suo reddito era circa un terzo di quello di un omologo francese.

 

2.6 Mito: «Il Duce ha fatto costruire grandi strade in Italia»

Realtà: Il programma infrastrutturale che prevedeva la costruzione delle strade completate durante il ventennio cominciò già durante il quinto governo di Giovanni Giolitti, avendo constatato l’impossibilità di uno sviluppo industriale in mancanza di solide strutture [nell’immagine la costruzione dell’aeroporto di Torino, 1908].

Tale “rivoluzione” non potè essere attuata da Giovanni Giolitti, prima, e dal governo Bonomi che ne seguì solo per i sette mesi che resse a causa del boicottaggio e dell’ostruzionismo politico da parte del nascente fascismo, prima generico movimento popolare (1919) e poi soggetto in forma di partito dal 1921, con la costituzione del Partito Nazionale Fascista.

 

2.7 Mito: «Quando c’era lui i treni arrivavano in orario»

Realtà: non è vero. Si tratta di un mito derivante dalla propaganda durante il Ventennio. La puntualità dei treni era infatti per la propaganda fascista il simbolo del ritorno all’ordine nel paese ma, in realtà, è solo grazie alla censura sistematica delle notizie riguardanti incidenti e disservizi ferroviari che questa immagine si è potuta formare.

Rodolfo De Angelis, Una volta non c’era Mussolini, Ma cos’è questa crisi, Bravo ma come parla bene

2.8 Mito: «Il governo di Mussolini raggiunse il pareggio di bilancio il primo aprile 1924 (e quindi è migliore dei governi attuali)»

Realtà: Partiamo malissimo perché il pareggio è successo nel 1925 ed in altra data. Il mito calca la mano sul concetto fondamentale che il governo fascista fu in grado di pareggiare il bilancio dello stato mentre i governi attuali siano degli inetti.

Che ci sia riuscito non c’è dubbio, ma era già successo prima che Mussolini salisse al governo (fu Minghetti a realizzarlo) nel 1876. Come ogni disinformazione che si rispetti è più importante quello che si sta dimenticando di dire, e cioè che negli anni successivi però andò tutto in vacca: la crisi mondiale in parte e il disinteresse dell’economia del Duce, molto più interessato a fare la guerra, portarono il bilancio in negativo vanificando tutti gli sforzi fatti.

La politica di autarchia messa in atto limitò moltissimo le importazioni e le esportazioni, politica totalmente inapplicabile oggi. Oltre ad aver causato la distruzione della nazione nella Seconda Guerra Mondiale.

Citando Totò: “L’operazione è riuscita, ma il paziente è morto”

 

2.9 Mito: «Mussolini rinunciò al suo stipendio per risanare l’economia e finanziare la guerra»

Realtà: che Mussolini abbia o meno rinunciato al suo stipendio è irrilevante essendo stato un dittatore con spese personali non trasparenti. È noto peraltro che quando fu catturato a Dongo con Claretta Petacci, aveva con sé un importante patrimonio inclusi, tra l’altro, 42 kg. d’oro in lingotti  (l’Oro di Dongo).

 

2.10 Mito: «Mussolini non aumentò le tasse»

Realtà: a parte i primi anni non è vero che le tasse non furono aumentate, un po’ alla volta nuove tasse colpirono gli italiani e la lira che aveva rafforzato nei primi anni venne svalutata più volte per poter tirare avanti. In parole povere davanti alle difficoltà il governo prese di volta in volta decisioni diverse in base al momento storico.

 

2.11 Mito: «Mussolini impose ai membri del governo l’uso delle biciclette facendo risparmiare miliardi al popoli italiano»

Realtà: Non esiste nessuna conferma sulla fiaba delle biciclette. Anzi ad un certo punto per spingere l’industria dell’automobile si mise una tassa sulla bici e, almeno in alcune grandi città, si cominciò a limitarne l’uso.

Sull’effettivo risparmio di questa manovra come prima pesa il non detto: a chi rimosse l’auto? Quante erano le auto? Furono risparmiati miliardi di lire? Se parliamo di miliardi di lire (ne considero almeno due per essere plurale) del 1925 parliamo di circa 1.5 Miliardi di euro oggi.

Al 2012 la spesa per autoblu e autogrigie in italia è stato di circa 1 Miliardo di euro, quindi dobbiamo dedurre che negli anni ’20 in Italia c’erano più auto pubbliche che adesso? Vi sembra possibile? E cercando tra i documenti del parlamento di quegli anni si trovano stanziamenti per le automobili al servizio del governo…

 

2.12 Mito: «I fascisti non hanno mai rubato»

Realtà: Si è sempre detto che il Fascismo è stata una dittatura che ha strappato la libertà agli italiani ma che almeno i fascisti non hanno mai rubano, non sono stati corrotti. Invece non è così. Mussolini non fa in tempo a prendere il potere che la corruzione già dilaga. Un sistema corrotto scoperto già da Giacomo Matteotti: denuncia traffici di tangenti per l’apertura di nuovi casinò, speculazioni edilizie, di ferrovie, di armi. Affari in cui è coinvolto il futuro Duce attraverso suo fratello Arnaldo.

E poi c’è l’affare Sinclair Oil: l’azienda americana pur di ottenere il contratto di ricerche petrolifere in esclusiva sul suolo italiano paga tangenti a membri del governo, e ancora ad Arnaldo, per oltre 30 milioni di lire. Matteotti lo scopre ma il 10 giugno 1924 viene rapito da una squadraccia fascista e ucciso. Messo a tacere il deputato socialista, di questa corruzione dilagante gli italiani non devono, non possono assolutamente più sapere. Speculazioni, truffe, arricchimenti improvvisi, carriere strepitose e inspiegabili: gerarchi, generali, la figlia Edda e il genero Galeazzo Ciano e Mussolini stesso! Nessuno rimane immune.

I documenti scoperti e mostrati da storici di assoluto valore come Mauro Canali, Mimmo Franzinelli, Lorenzo Benadusi, Francesco Perfetti, Lorenzo Santoro presso l’Archivio Centrale dello Stato sono prove che inchiodano il fascismo alla verità. È stato anche realizzato un documentario RAI che lo testimonia bene.

Dossier, lettere, minacce, accuse vere e false oscenità, inganni, arresti, ricatti. Un ventennio di ricatti! Gerarca contro Gerarca, amante contro amante, e l’accusa di omosessualità come arma politica. E Mussolini su tutto e su tutti fa spiare, controlla, punisce, muove le sue pedine.

 

2.13 Mito: «Il Duce è stato l’unico uomo di governo che abbia veramente amato questa nazione»

Realtà: “Mi serve qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo delle trattative”
Già…proprio amore.

Mussolini amava talmente l’Italia che:
– ha instaurato una dittatura
– ha abbassato tutti i salari
– ha firmato i Patti Lateranensi
– ha portato il paese al collasso economico
– ha tolto la libertà ai cittadini italiani
– instaurando le leggi razziali ha scritto una delle pagine più infami e vili della storia italiana.

Voleva così bene al suo popolo da farlo sprofondare in una guerra civile quando fu esautorato dal potere creando la Repubblica Sociale Italiana. Un paese già allo sbando a causa dell’armistizio dell’8 settembre e provato dalla guerra (condotta da lui con esiti a dir poco disastrosi) venne dilaniato ancora di più tra cosiddetta” Repubblica di Salò” e Italia liberata.

IVREA, 1944 – IMPICCAGIONE ESEGUITA DALLA X MAS .

 

3. Squadrismo e violenza politica

Don Minzoni

Piero Gobetti

Giacomo Matteotti

Fra le attività “qualificanti” del fascismo del primo periodo vi è il sistematico ricorso alla violenza contro gli avversari politici, le loro sedi e le loro organizzazioni, da parte di bravacci legati ai ras locali. Torture, olio di ricino, umiliazioni, manganellate. Non di rado, tuttavia, gli oppositori perdevano la vita a seguito delle violenze.
Un calcolo approssimativo induce a calcolare in circa 500 i morti causati dalle spedizioni punitive fasciste fra il 1919 e il 1922.

Il parroco di Argenta, don Giovanni Minzoni, fu assassinato in un agguato da due uomini di Balbo, nell’agosto del 1923. Ma anche quando il fenomeno della violenza squadrista sembrò perdere le proprie caratteristiche originarie, e gli uomini legati ai ras locali vennero convogliati in organizzazioni ufficiali come la Milizia volontaria, forme di violenza politica sostanzialmente analoghe allo squadrismo non cessarono di costellare la vicenda del fascismo al potere.

Per tutti, tre casi notissimi: nel giugno 1924 Giacomo Matteotti venne rapito e assassinato con metodo squadrista, e il gesto sarebbe stato esplicitamente rivendicato da Mussolini nel gennaio dell’anno successivo; Piero Gobetti, minato dall’aggressione subita nel settembre 1924, morì due anni dopo, in esilio; Giovanni Amendola spirò per le ferite riportate in un’aggressione fascista subita nel luglio 1925.

 

3.1 La repressione: dagli omicidi al Tribunale speciale per la difesa dello Stato

Carlo e Nello Rosselli

Assunto il potere Mussolini si poté giovare dell’apparato di repressione dello Stato. Che venne rafforzato e riorganizzato. Con la nascita dell’OVRA (l’Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo) venne razionalizzata la persecuzione degli antifascisti, con tutti i mezzi, legali e illegali. Anche l’omicidio politico in paese straniero. Arturo Bocchini, capo della polizia, venne incaricato dallo stesso Duce e dal ministro degli Esteri Galeazzo Ciano di eliminare fisicamente Carlo Rosselli che allora risiedeva a Parigi.

Il 9 giugno 1937, a Bagnoles-de-l’Orne dove Carlo Rosselli e il fratello Nello si erano recati per trascorrere il fine settimana, un commando di cagoulards (gli avanguardisti francesi) compì la missione: bloccata l’auto sulla quale viaggiavano i due fratelli, Carlo e Nello furono prima pestati, poi, accoltellati a morte. Lo strumento ufficiale della repressione fascista fu invece il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. L’attentato di Anteo Zamboni a Mussolini, il 31 ottobre 1926, offrì l’occasione di una serie di misure repressive.

Tra queste la “legge per la difesa dello Stato”, n. 2008 del 25 novembre 1926, che stabilì, tra l’altro, la pena di morte per chi anche solo ipotizzava un attentato alla vita del re o del capo del governo. A giudicare i reati in essa previsti, la nuova normativa istituì il Tribunale speciale, via via prorogato fino al luglio 1943, quindi ricostituito nel gennaio 1944, nella Rsi. Nel corso della sua attività, emise 5619 sentenze e 4596 condanne. Tra i condannati anche 122 donne e 697 minori. Le condanne a morte furono 42, delle quali 31 furono eseguite mentre furono 27.735 gli anni di carcere. Tra i suoi ‘beneficati’, ci furono Antonio Gramsci, che morì in carcere nel 1938, il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini e Michele Schirru, fucilato nel 1931 solo per avere espresso “l’intenzione di uccidere il capo del governo”.

 

3.2 Il confino

Cesare Pavese

Antonio Gramsci

Giuseppe Di Vittorio

Il confino di polizia in zone disagiate della Penisola, fu una misura usata con straordinaria larghezza. Il regio decreto 6 novembre 1926 n.1848 stabilì che fosse applicabile a chiunque fosse ritenuto pericoloso per l’ordine statale o per l’ordine pubblico. A un mese dall’entrata in vigore della legge le persone confinati erano già 600, a fine 1926, oltre 900, tutti in isolette del Mediterraneo o in sperduti villaggi dell’Italia meridionale.

A finire al confino furono importanti nomi della futura classe dirigente: da Pavese a Gramsci, da Parri a Di Vittorio, a Spinelli. Gli inviati al confino furono, complessivamente, oltre 15.000. Ben 177 antifascisti morirono durante il soggiorno coatto.

 

3.3 La deportazione

Rastrellamento del Quadraro, 16 ottobre 1943

La politica antiebraica del regime fascista culminò nelle leggi razziali del 1938. Alla persecuzione dei diritti subentrò, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, anche la persecuzione delle vite. La prima retata attuata risale al 16 ottobre 1943 a Roma; degli oltre 1250 ebrei arrestati in quell’occasione, più di 1000 finirono ad Auschwitz, e di essi solo 17 erano ancora vivi al termine del conflitto.

Il Manifesto programmatico di Verona (14 novembre 1943) sancì che gli ebrei erano stranieri e appartenevano a “nazionalità nemica”. Di lì a poco un ordine di arresto ne stabilì il sequestro dei beni e l’internamento, in attesa della deportazione in Germania.
Nelle spire della “soluzione finale” hitleriana il regime fascista gettò, nel complesso, circa 10.000 ebrei.

Oltre alla deportazione razziale, fra le responsabilità del regime di Mussolini c’è anche la deportazione degli oppositori politici e di 700.000  soldati, 600.000 dei quali, dopo l’8 settembre, rifiutarono di prestare giuramento alla Repubblica sociale rimanendo nei campi di concentramento in Germania.

 

3.4 La guerra

Combattenti libici impiccati nel 1928

Un prigioniero del campo italiano di Rab

Fuori dai confini i morti contano meno? Allora non si possono proprio considerare tali gli etiopi uccisi con il gas durante la guerra per l’Impero, o i libici torturati e impiccati durante le repressioni degli anni Venti e Trenta, o gli jugoslavi uccisi nei campi di concentramento italiani in Croazia.

Ma la spada di Mussolini provocò tanti morti anche tra i suoi connazionali. Mussolini trascinò in guerra l’Italia il 10 giugno del 1940, per partecipare al banchetto nazista. I risultati, per l’Italia, furono questi. Fino al 1943, 194.000 militari e 3.208 civili caduti sui fronti di guerra, oltre a 3.066 militari e 25.000 civili morti sotto i bombardamenti alleati.

Dopo l’armistizio, 17.488 militari e 37.288 civili caduti in attività partigiana in Italia, 9.249 militari morti in attività partigiana all’estero, 1.478 militari e 23.446 civili morti fra deportati in Germania, 41.432 militari morti fra le truppe internate in Germania, 5.927 militari caduti al fianco degli Alleati, 38.939 civili morti sotto i bombardamenti, 13.000 militari e 2.500 civili morti nelle file della Rsi.

A questi vanno aggiunti circa 320.000 militari feriti sui vari fronti per l’intero periodo bellico 1940/1945 e circa 621.000 militari fatti prigionieri dalle forze anglo-americane sui vari fronti durante il periodo 1940/1943.

 

 

4. Il razzismo coloniale: la storia di Faccetta Nera

Uno stralcio dell’articolo di Igiaba Scego, dedicato alla sopravvivenza di Faccetta nera. Tratto da Internazionale del 6 agosto 2015.

Faccetta nera [è] un paradosso italiano. Ogni anno, quasi sempre d’estate o all’inizio dell’autunno, scoppia una polemica che la riguarda. O perché la cantano o perché qualche professore (di recente è successo con delle suore) la fa ascoltare in classe ai ragazzi. E giù fiumi di inchiostro che oscillano dall’aperta condanna all’ammiccamento solidale. E tutto si perde in un bla bla che spesso ci lascia indifferenti.

Il video della canzone è disponibile in rete in varie versioni e basta fare un giro turistico tra i commenti su YouTube per capire che chi la canta non sa la sua storia. Si sprecano infatti i vari “Orgoglioso di essere fascista” e “Viva il Duce”.

Ma queste persone sanno che Benito Mussolini odiava Faccetta nera? Aveva addirittura tentato di farla bandire. Per lui era troppo meticcia: inneggiava all’unione tra “razze” e questo non era concepibile nella sua Italia imperiale, che presto avrebbe varato le leggi razziali che toglievano diritti e vita a ebrei e africani. Oggi però, ed è qui il paradosso, il regime fascista è ricordato proprio attraverso questa canzone che detestava.

Ma facciamo un passo indietro. Faccetta nera, non molti lo sanno, nasce in dialetto, in romanesco. La scrive Renato Micheli per poterla portare nel 1935 al festival della canzone romana. Il testo assorbe tutta la propaganda coloniale dell’epoca. Di Africa si parla tanto nei giornali e nei cinegiornali. Gli italiani sono bombardati letteralmente di immagini africane dalla mattina alla sera. I bambini nelle loro tenute balilla conoscono a menadito le città che il fascismo vuole conquistare. E così nomi come Makallè, Dire Daua, Addis Abeba diventano familiari a grandi e piccini.
Il colonialismo italiano non nasce con il fascismo, ma con l’Italia liberale postunitaria, tuttavia negli anni trenta del secolo scorso si assiste a un’accelerazione del progetto di conquista. Mussolini vuole l’Africa, il suo posto al sole, e per ottenerlo deve conquistare gli italiani alla causa dell’impero. Dai giornali satirici come Il travaso delle idee al Corriere della sera sono tutti mobilitati. Uno degli argomenti preferiti dalla propaganda era la schiavitù. I giornali erano pieni di immagini di donne e uomini etiopi schiavi:

“È il loro governo a ridurli così”, spiegavano, “è il perfido negus, andiamo a liberarli”.

La guerra non viene quasi mai presentata agli italiani come una guerra di conquista, ma come una di liberazione. Il meccanismo non è molto diverso da quello a cui abbiamo assistito nel ventesimo secolo e a cui assistiamo ancora oggi. Andiamo a liberare i vietnamiti! Andiamo a liberare gli iracheni! Andiamo a liberare gli afgani! Per poi in realtà, lo sappiamo bene, a sfruttare le loro terre.

Faccetta nera nasce in quel contesto come una canzone di liberazione. Una canzone, nell’intenzione dell’autore, un po’ spiritosa che inneggiava a una sorta di “unione” tra italiani ed etiopi. Però, dal testo, si nota subito che l’italiano non vuole andare a liberare i maschi etiopi, bensì le donne (un po’ come è successo di recente in Afghanistan, dove si è partiti in guerra per liberare le donne dal burqa). E l’unione vuole farla con l’africana e solo con lei. Un’unione sessuale e carnale.

Per i colonizzatori l’Africa era una terra vergine e disponibile e questa disponibilità si traduceva nel possesso fisico delle donne del posto.

Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito, Al mercato, 1930 ca

D’altronde lo stereotipo circolava da un po’ nella penisola. Il mito della Venere nera è precedente al fascismo. L’Africa è sempre stata vista dai colonizzatori (non solo dagli italiani) come una terra vergine da penetrare, letteralmente. O come diceva nel 1934 lo scrittore coloniale Mitrano Sani in Femina somala, riferendosi alla sua amante del Corno d’Africa:

“Elo non è un essere, è una cosa […] che deve dare il suo corpo quando il maschio bianco ha voglia carnale”.

Una terra disponibile, quindi. E questa disponibilità si traduceva spesso nel possesso fisico delle donne del posto, attraverso il concubinaggio, i matrimoni di comodo e spesso veri e propri stupri.

Basta farsi un giro su internet o al mercato di Porta Portese a Roma o in qualsiasi altro mercatino delle pulci per ritrovare le foto di questo sopruso. Di recente ne ho vista una nel libro di David Forgacs Margini d’Italia (Laterza), dove una donna eritrea viene tenuta ferma in posizione da “crocifissa” da alcuni marinai italiani sorridenti che probabilmente l’hanno stuprata o si stanno accingendo a farlo.

Faccetta nera in questo senso è una canzone sessista, oltre che razzista. Una canzonetta che nasconde dietro la finzione della liberazione una violenza sessuale. Non a caso il suo testo a un certo punto dice:

“La legge nostra è schiavitù d’amore”

Temi che si ritrovano in altre canzonette dell’epoca come Africanella o Pupetta mora. Ma anche nella più colta (e precedente) Aida di Verdi: anche lei, come faccetta nera, è schiava e solo diventare l’oggetto del desiderio di un uomo la può redimere dalla sua condizione.

Armamenti, 1930 circa. - Enrico De Seta, Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell'Esercito

Faccetta Nera, una volta scritta, non ha pace. Micheli non riesce a portarla al festival della canzone romana. Viene musicata più tardi da Mario Ruccione e cantata da Carlo Buti, che la porterà al successo. La prima apparizione però è al teatro (oggi cinema) Quattro Fontane a Roma.

Lì una giovane nera viene portata sul palco in catene e Anna Fougez, una diva della rivista di allora, pugliese con nome d’arte francese, avvolta da un tricolore, la libera a colpi di spada.

La canzone da quel momento in poi decolla. La cantano i legionari diretti in Africa per la guerra di Mussolini e diventa uno dei successi del Ventennio insieme a Giovinezza e Topolino va in Abissinia.

Ma il testo iniziale di Micheli non piace al regime, che vi rimette mano più volte. Viene subito cancellato il riferimento alla battaglia di Adua. Per il regime era intollerabile ricordare quella disfatta italiana, che fu la prima battaglia vinta da un paese africano contro l’imperialismo europeo.

Saltò anche un’intera strofa che definiva faccetta nera “sorella a noi” e “bella italiana”. Una nera, per il regime, non poteva essere italiana. Sottointendeva dei diritti di cittadinanza che il fascismo era lontano dal riconoscere agli africani conquistati. Diritti di cittadinanza che, per perfida ironia della storia, latitano pure oggi.

Nonostante i rimaneggiamenti, la canzone continua a non piacere al regime, ma è troppo popolare per poterne impedire la circolazione. Il fascismo provò a farla sparire e in un goffo tentativo si inventò una Faccetta bianca scritta e musicata dal duo Nicola Macedonio ed Eugenio Grio. Una canzone dove una ragazza saluta sul molo il fidanzato legionario in partenza per l’Africa. Una faccetta da focolare domestico, sottomessa e virginale:

Faccetta bianca quando ti lasciai
quel giorno al molo, là presso il vapore
e insieme ai legionari m’imbarcai,
l’occhio tuo nero mi svelò che il core
s’era commosso al par del core mio,
mentre la mano mi diceva l’addio!

Chiaramente il paragone non reggeva. Gli italiani erano attratti dalla disponibilità sessuale che l’altra canzone prometteva. La libertà e la rigenerazione del maschio attraverso l’abuso di un corpo nero passivo. Faccetta nera fu anche al centro di un’accusa di plagio. La faccenda finì persino in tribunale.

Ma questa canzone ci dice molto anche dell’Italia di oggi. Il corpo nero è ancora al centro della scena. Un corpo vilipeso, spesso presentato come fantasma e cadavere invisibile dei mari nei telegiornali della sera. Ma è anche un corpo desiderato, inafferrabile. Un corpo che vediamo nelle bustine dello zucchero e che ammicca da uno studio televisivo fasciato in una tutina in lattice nero. Un corpo usato e abusato. Un corpo che deve essere sempre bello.

L’abissina non può essere altro che la bella abissina. Non può essere brutta, menomata, malata, non disponibile. Il suo corpo vive più paradossi. È da una parte desiderato, dall’altro oltraggiato, negato, imprigionato. Le faccette nere oggi in Italia non hanno solo la pelle nera: basta discostarsi da quello che la società considera “normale” per venire considerati facili, accessibili, stuprabili. Sei bissessuale, transessuale, sei punk, sei vintage, sei fuori dai codici? Allora il tuo corpo diventa di tutti. Corpo da liberare con lo stupro, con la sottomissione.

Ed è forse in questo sottotesto la chiave del continuo successo di questa canzone. La società italiana si porta dietro vecchi retaggi maschilisti di cui non è riuscita a liberarsi, e di cui spesso non riesce nemmeno a parlare.

E invece dovremmo parlarne, soprattutto a scuola.

Discuto spesso dell’opportunità di far ascoltare ai ragazzi questa e altre canzoni fasciste. Sono sempre più convinta che solo lo studio approfondito del fascismo, con tutto il suo carico di miserie, stereotipi, propaganda e sessismo, vada affrontato perché non si ripeta.

Il pericolo vero è l’oblio. Attraverso una serrata analisi di Faccetta nera si potrebbe destrutturare il testo, decolonizzare le menti, defascistizzare la società, educare la nostra politica che ormai ha fatto dell’altro il capo espiatorio per eccellenza, lo sfogatoio di tutti i mali. Sarebbe davvero un grande passo in avanti riuscirne a parlarne con serenità. Un passo in avanti per questa Italia che raramente affronta se stessa.

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