La ricerca di una razionalità diversa da quella positivista e il compito del filosofo «funzionario dell’umanità».
L’orizzonte del mondo quale orizzonte di un’esperienza possibile di cose. Cose: cioè pietre, animali, piante, uomini, anche, e formazioni umane; ma tutto, qui, è soggettivo- relativo anche se normalmente, nella nostra esperienza e nella cerchia sociale che è legata a noi in una comunità di vita, noi perveniamo a fatti “sicuri”. […]
Ma se noi siamo gettati in un ambiente estraneo, tra i negri del Congo, tra i contadini cinesi, ecc., ci accorgiamo che le loro verità, i fatti che per loro sono assodati e verificati o verificabili non sono affatto quelli che noi riteniamo tali. Ma se noi ci poniamo il fine di una verità concernente gli oggetti che sia incondizionatamente valida per tutti i soggetti, a partire da ciò su cui, malgrado la relatività, sono d’accordo gli europei normali, gli indù normali, i cinesi, ecc. – da ciò che rende identificabili, per noi come per loro gli oggetti del mondo-della-vita a tutti comuni, dalla forma spaziale, dal movimento, dalle qualità sensibili, ecc. -, noi veniamo a trovarci sulla via che porta alla scienza obiettiva.
E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, § 36
Indice
1. Husserl e la fenomenologia
2. Il fenomeno
3. Brentano e Bolzano
4. La filosofia dell’aritmetica
5. Le Ricerche logiche
6. Dalla logica pura alla fenomenologia
7. Tornare alle cose stesse, «zu den Sachen selbst»
8. La fenomenologa pura o trascendentale
9. La crisi delle scienze europee
10. Il filosofo «funzionario dell’umanità»
11. Armando Massarenti, Che cos’è la coscienza?
1. Husserl e la fenomenologia
Edmund Husserl, matematico e filosofo moravo di origine ebrea, ha inaugurato agli inizi del novecento un insieme di ricerche e un nuovo metodo di indagine filosofica che ha preso il nome di fenomenologia ed ha avuto una grande influenza sulla cultura del secolo.
Il termine fenomenologia, che compare già in Kant ed Hegel, è usato da Husserl in modo specifico, per identificare un obiettivo: assicurare alla filosofia una base certa e farne una scienza rigorosa; e un metodo, consistente nel ricavare questa certezza originaria con la riduzione fenomenologica.
Husserl si prefigge quindi di fondare una filosofia senza presupposti, basata su evidenze indubitabili, sulla quale edificare ogni altra forma di conoscenza. Tale obiettivo può essere conseguito riportando il pensiero all’esperienza reale, cioè a quel modo di essere originario che consiste nell’incontro tra io e realtà, attraverso un’analisi sistematica della coscienza e degli oggetti a cui essa si riferisce.
La coscienza è infatti lo spazio aperto orientato intenzionalmente agli oggetti che permette alle cose di manifestarsi nella loro evidenza, appunto, come fenomeni. Tornare alle «cose stesse», «zu den Sachen selbst», diventerà così il celebre motto della fenomenologia. Campo di indagine e interesse specifico della fenomenologia è quindi la riflessione sulla coappartenenza originaria di coscienza e realtà.
Con la fenomenologia, assistiamo quindi a una ripresa del dibattito gnoseologico moderno che Husserl riassume ripensando in profondità i presupposti del razionalismo e le istanze empiriste alle quali dà voce assumendo il punto di vista della psicologia, nuova scienza emergente. Un percorso, come vedremo, ricco di svolte e affascinanti ripensamenti.
2. Il fenomeno
Il punto aspetto da affrontare inoltrandoci nella filosofia husserliana è il concetto di «fenomeno». Esso è, innanzitutto, «ciò che si presenta alla coscienza»; è, dunque, l’esperienza di un soggetto.
Per Husserl, solo una tale esperienza può essere considerata un atto indubitabile, in grado di fondare la filosofia e, successivamente, ogni altra scienza. Centrale risulta quindi il ruolo dell’io, che deve essere considerato elemento comune a ogni soggetto conoscente, cosi come lo studio del fenomeno deve essere inteso, in senso generale, come ricerca delle «essenze» della realtà, cioè di ciò che fa delle cose determinate ciò che sono.
Tale impostazione ha condotto il dibattito fenomenologico a dividersi sull’origine dei fenomeni. Husserl giunse, infatti, a sostenere, al termine di un lungo percorso di ricerca, che è il soggetto a creare il fenomeno (lo affermerà in due conferenze parigine pubblicate con il nome di Meditazioni cartesiane), connotando dunque il proprio pensiero come una forma di idealismo, mentre altri aderenti alla fenomenologia assunsero una posizione realista, sostenendo che il fenomeno esiste a prescindere dall’attività del soggetto.
3. Brentano e Bolzano
Il punto di partenza delle riflessioni di Husserl, e quindi della formazione del metodo fenomenologico, può essere rintracciato nell’opera di Franz Brentano, filosofo e psicologo prussiano di origine italiana, di cui Husserl fu allievo all’Università di Berlino. Al centro del pensiero di Brentano – la cui opera principale è la Psicologia dal punto di vista empirico, uscita in tre volumi tra il 1874 e il 1928 – si trova il concetto di intenzionalità della coscienza, secondo il quale la coscienza è sempre coscienza di qualcosa. Ciò di cui la coscienza deve essere sempre cosciente, per Brentano, è da intendere in termini strettamente realistici, come qualcosa che esiste indipendentemente dall’esistenza della coscienza.
Questo «qualcosa» può essere distinto in fenomeno fisico (ad esempio, il suono come evento acustico) di cui si ha una coscienza primaria che può arrivare a formulare giudizi più o meno probabili; e fenomeno psichico (ad esempio, memoria, aspettativa, volizione o, facendo riferimento al medesimo esempio, l’essere udito da parte dell’oggetto e l’udire da parte del soggetto) di cui si ha coscienza secondaria, la quale può giungere alla certezza assoluta, poiché ha una consapevolezza immediata dei suoi oggetti.
All’interno dell’attività della coscienza, Brentano individua i tre processi fondamentali della rappresentazione, in cui l’oggetto è percepito ed è semplicemente presente o non lo è più; del giudizio, in cui l’oggetto o contenuto della rappresentazione è affermato o negato in base a un criterio di evidenza oggettiva, ovvero ciò che vedo o non vedo; e del sentimento, in cui tale contenuto è amato od odiato, cioè è considerato non dal punto di vista della verità o falsità, ma da quello degli stimoli affettivi che suscita.
È proprio partendo da questa distinzione che Husserl definirà il proprio «metodo fenomenologico»: mentre il giudizio e il sentimento possono essere rispettivamente veri o falsi, giusti o sbagliati, la rappresentazione, che corrisponde ai contenuti immediati della nostra coscienza, semplicemente è (si dà).
Il secondo grande ispiratore del pensiero husserliano può essere considerato Bernard Bolzano, un filosofo e matematico austriaco anch’egli di origine italiana, che ricercava nella filosofia teorie e proposizioni che avessero lo stesso rigore e la coerenza di una dimostrazione matematica. Bolzano era convinto dell’esistenza di alcune fondamentali verità che definiva «verità in sé» (Wareheit an sich) e che restano tali anche se non sono mai state pensate o considerate vere da nessuno.
Per giustificare l’esistenza di proposizioni vere in un senso tanto forte, Bolzano postulò l’esistenza di tre tipi di entità: gli oggetti sensibili, che sono conosciuti tramite la percezione; gli stati mentali, a cui abbiamo accesso tramite l’introspezione; e le idee, che non devono essere in alcun modo confuse con gli stati mentali di un determinato soggetto, ma che esistono indipendentemente da questi. Secondo Bolzano le idee sono conosciute grazie all’intuizione e, benché non abbiano nessuna controparte fisica, debbono essere considerate a tutti gli effetti come entità realmente esistenti dotate di proprietà ben determinate e non come costruzioni della mente umana o di una qualsiasi altra forma di coscienza.
Husserl concepisce le sue prime opere, da Filosofia della matematica alle Ricerche logiche [il cui secondo volume reca il sottotitolo Ricerche sulla teoria e la fenomenologia della coscienza] sotto la forte influenza di Brentano dalla quale prende progressivamente le distanze a partire dalla pubblicazione di Idee per una fenomenologia pura, nel 1913, con la quale intraprende la cosiddetta svolta trascendentale.
4. La Filosofia dell’aritmetica
Nel 1891 Husserl dà alle stampe Filosofia dell’aritmetica. Sviluppando l’approccio psicologico di Brentano, Husserl sostiene che il concetto stesso di numero deve essere fondato sulle operazioni mentali e sui processi psichici che stanno alla base dell’operazione del contare. Alla base della logica e della matematica ci sono quindi delle operazioni psichiche elementari che non possono essere ridotte ulteriormente.
Questo testo ricevette la recensione particolarmente negativa di uno dei più importanti logici e filosofi della matematica del Novecento, Gottlob Frege. Frege, capofila del movimento «logicista», per il quale logica e matematica si fondavano sull’apprensione di entità esistenti indipendentemente dall’esistenza degli uomini, obiettò, per usare un esempio divenuto famoso, che la genesi psicologica del concetto «mare del nord» non ci dice niente circa le proprietà e le caratteristiche di questo mare.
In pratica, non è necessario sapere come si crei la nozione «mare del nord» per conoscere che cosa esso sia. Analogamente, l’analisi psicologica del concetto di numero non ne chiarisce le proprietà. Ogni attività psichica è contingente, può verificarsi o meno, mentre i numeri sono verità necessarie e indipendenti da considerazioni di ordine empirico: le verità della logica non possono dipendere in alcuna maniera dalle strutture della coscienza, perché sarebbero tali anche se la coscienza fosse diversa.
Husserl accolse la critica di Frege e sottopose il proprio pensiero a un duro lavoro di revisione che troverà il suo compimento a partire dal 1900, con la pubblicazione delle Ricerche logiche.
5. Le Ricerche logiche
Questo lavoro di revisione porta Husserl a mettere a confronto la teoria dell’intenzionalità della coscienza di Brentano con la gnoseologia di Bolzano. La riflessione del filosofo parte dall’analisi del fenomeno per come esso si presenta alla coscienza individuale. Come si è visto, la coscienza è sempre coscienza di qualcosa di particolare. Tuttavia, è possibile individuare all’interno di ogni singola esperienza, «qualcosa» di non empiricamente determinabile e che, ciononostante, la qualifica: ad esempio, l’odio e l’amore sono due sentimenti opposti, ma c’è qualcosa che permette di definirli come sentimenti; il giallo e il blu sono due colori diversi, ma sono sempre colori e cosi via.
Se possiamo fare esperienze, e se possiamo dare un significato a ciò che sperimentiamo è dunque in virtù di quel «qualcosa» che va oltre l’esperienza – la quale è, inoltre, sempre contingente – e la rende possibile, rendendola inoltre universalmente valida. Husserl ne conclude che attraverso le singole percezioni individuali, noi giungiamo all’intuizione di queste realtà che, nelle Ricerche logiche, chiama «specie» e, in seguito, «essenze». Si tratta di un concetto fondamentale per Husserl che arriva a definire la stessa fenomenologia come «scienza di essenze». L’essenza, infatti, è ciò che caratterizza un fenomeno come tale e che permette di ricondurre una serie di esperienze contingenti ad un fenomeno universale.
Diversamente da quanto ritenevano gli empiristi, per Husserl non cogliamo le essenze estrapolando le somiglianze da una serie di fenomeni. Questo modo di procedere non è praticabile perché anche il concetto di «somiglianza» è un’essenza e se noi non possedessimo in via preliminare questa idea, non saremmo in grado di confrontare fra loro i fenomeni per individuare i tratti comuni, ma procederemmo a tentoni confrontando, ad esempio, suoni con sentimenti o colori con ricordi.
Contro la posizione che aveva assunto in Filosofia della matematica, Husserl ora nega che esista un processo psichico che possa «generare» per astrazione le essenze. Le essenze, infatti, sono colte da quella che definisce «intuizione eidetica» (da «èidos», idea) – per distinguerla dall’intuizione di un qualsiasi fatto, psichico o fisico – cioè la capacità di cogliere la caratteristica specifica che rinveniamo nei fatti e negli oggetti e di trasformarla in idea o schema mentale.
Ad esempio, osservo colori differenti in vari quadri e in tali colori individuo un «qualcosa» che li accomuna, ovvero l’essenza propria di tutti i colori e che li distingue dai sapori. Ogni colore ha in sé l’essenza di colore in generale ed è quel qualcosa che rende quell’ente specifico. Peraltro, come abbiamo visto, sono le essenze a rendere possibile l’esperienza e non il contrario. Infine, le essenze non sono astrazioni, ma enti che, pur non avendo un’esistenza fisica, devono essere considerati a tutti gli effetti come esistenti.
Inoltre, essendo necessarie e non contingenti, le essenze sono eterne e atemporali: per questo una verità logica resta sempre tale.
6. Dalla logica pura alla fenomenologia
La pubblicazione del primo volume delle Ricerche logiche [che recava il sottotitolo Prolegomeni a una logica pura] fu accolta con un grande entusiasmo, sull’onda del quale nacquero a Monaco e Gottinga i primi circoli fenomenologici [tra i partecipanti Alexandre Koyré ed Edith Stein].
Tanta attenzione era senz’altro legata al fatto che Husserl sembrava essere riuscito nell’obiettivo di fornire un fondamento saldo, oggettivo, a tutta la conoscenza partendo da un’analisi empirica della psicologia umana. Il filosofo aveva illustrato la propria «ontologia formale», ovvero l’insieme delle condizioni che rendono possibile la conoscenza in generale, confutando lo psicologismo e affermando il carattere ideale delle leggi e dei concetti logici – senza il quale, com’è noto dopo Hume, si torna a conseguenze scettiche e relativistiche.
Restavano ancora da delineare le condizioni necessarie a ogni singola scienza, vale a dire l’applicazione del metodo fenomenologico ai vari campi del sapere, ovvero quelle che Husserl definiva «ontologie regionali», intendendo ogni singola disciplina come una regione nel campo del sapere.
Soprattutto, restava da definire il rapporto tra l’ideale e il reale, cioè tra i principi logici e i dati di fatto psichici. Come possono infatti le leggi e i principi entrare in relazione con i dati di fatto psichici senza perdere la loro oggettività ideale? E come possono i dati di fatto psichici conoscere leggi e concetti che essendo ideali non hanno consistenza empirica?
A questi problemi Husserl dà risposta nel secondo volume delle Ricerche logiche [sottotitolo: Ricerche sulla fenomenologia e sull teoria della conoscenza] in cui, attraverso l’analisi del linguaggio, terreno comune all’empirico e all’ideale, evidenzia che i concetti puri sono intuiti in vissuti assolutamente a priori (erlebnisse) (a priori perché non coincidono con la percezione empirica di un oggetto ma anzi, la rendono possibile) che si impongono con evidenza alla riflessione.
7. Tornare alle cose stesse, «zu den Sachen selbst»
Le «cose stesse» sono dunque i vissuti intuitivi in cui leggi e concetti si presentano in modo originario alla coscienza. Studiarle significa quindi esaminare il modo di essere della coscienza e degli oggetti di presentarsi ad essa:
«Il titolo del problema, che abbraccia l’intera fenomenologia, si chiama intenzionalità. Esso esprime la proprietà fondamentale della coscienza; tutti i problemi fenomenologici […] trovano posto in esso. Pertanto la fenomenologia comincia con i problemi dell’intenzionalità» [Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, I § 146].
Ne secondo volume delle Ricerche logiche, Husserl aveva evidenziato che ogni atto di coscienza è rivolto a un contenuto specifico, non accade infatti mai che si ami o si odi in generale, ma
«nell’amore qualcosa viene amato, nell’odio qualcosa viene odiato, nel desiderio qualcosa viene desiderato […]» [Ricerche, II § 10].
Questo rapporto intenzionale non va però inteso come la coesistenza di due entità (l’io e l’oggetto) che entrerebbero in relazione, ma come un fenomeno unitario, tale che se la coscienza vive il «riferimento intenzionale all’oggetto», l’oggetto, a sua volta «si rende intenzionalmente presente».
La pubblicazione del secondo volume delle Ricerche fu interpretata come una ricaduta nello psicologismo. Infatti, sebbene sentisse l’esigenza di chiarire la correlazione tra il piano delle oggettività ideali e quello dei vissuti soggettivi di coscienza, Husserl non aveva ancora messo a punto gli strumenti per distinguerli. Sarà appunto questo il compito che il filosofo si assume nell’opera successiva, le Idee per una fenomenologia pura, pubblicata dodici anni dopo il secondo volume delle Ricerche logiche.
8. La fenomenologia pura o trascendentale
Facendo proprio un modus operandi molto simile al «dubbio sistematico» espresso da Cartesio nelle Meditazioni metafisiche, Husserl si impone di tornare alle cose stesse, ovvero di osservare i fenomeni senza domandarsi se siano o meno esterni alla coscienza, perché una concezione di tipo idealista o realista, ma anche un approccio scientifico o di senso comune, costituirebbero un pregiudizio in grado di inquinare le nostre conclusioni.
Husserl definì questo atteggiamento «epochè» o «sospensione del giudizio». Tuttavia, a differenza di quanto teorizzato da Cartesio, nel momento in cui questo metodo viene utilizzato, non si deve dubitare delle proprie convinzioni, quanto piuttosto «metterle tra parentesi», renderle inoperanti.
Sospeso il giudizio, saremo pronti a investigare la vera natura del fenomeno, osservandolo nella sua «datità originaria», ovvero nella sua evidenza immediata, approdando a ciò che non può essere negato: il «residuo fenomenologico», ovvero la coscienza non toccata dalla sospensione del giudizio, di cui non possiamo dubitare.
Su questo residuo potremo cosi fondare con certezza la filosofia, punto di partenza per la fondazione di ogni singola scienza. Anche in questo caso, è possibile notare la somiglianza tra il pensiero di Husserl e quello di Cartesio. Le posizioni del senso comune sono forse irrinunciabili per la vita di tutti i giorni, ma sono tutt’altro che evidenti; tale giudizio si applica sia alla scienza positiva, che per raggiungere i propri risultati deve accettare acriticamente i dati dell’esperienza, sia alle complicate costruzioni teoretiche dei filosofi.
L’unica conoscenza che può essere utilizzata come fondamento di una filosofia che voglia essere pienamente rigorosa è, dunque, individuata nella coscienza e nei suoi contenuti.
Husserl non si riferisce, tuttavia, a una singola coscienza, ovvero a un «io psicologico», bensì a un io trascendentale (da qui la definizione della svolta), ovvero alla forma generale di una qualsiasi coscienza. Il filosofo dedicherà buona parte dei suoi scritti successivi a chiarire che cosa sia e come debba essere interpretato questo io trascendentale. Probabilmente influenzato anche da Essere e tempo – che, nel frattempo, il suo ex assistente ed allievo Martin Heidegger aveva pubblicato (1927) – per Husserl l’io trascendentale non è frutto dell’attività di un singolo io isolato, ma dell’intersoggettività tra una molteplicità di io, la cui azione si dispiega nel linguaggio, nella società, nella storia.
9. La crisi delle scienze europee
Questa concezione dell’io trascendentale è presente anche nell’ultimo scritto di Husserl, La crisi delle scienze europee, uscito in parte in Jugoslavia – essendo ormai impossibile per Husserl pubblicare nella Germania nazista – e in parte postumo, sulla base dei testi di alcune conferenze. In quest’opera Husserl si concentra sulle operazioni basilari della coscienza il cui fondamento originario è rintracciato nel mondo della vita (lebenswelt): è questa la vera sfera trascendentale, precedente tutte le costruzioni teoretiche, quel mondo primitivo e immediato su cui la coscienza muove i primi passi. Esso non può essere identificato con il senso comune, è piuttosto il fondamento anche di questo, perché è il luogo dove viviamo e incontriamo gli altri.
Il motivo conduttore della Krisis è, per questo, la necessità del ritorno al mondo della vita, alla luce della constatata mancanza di senso della scienza occidentale. In proposito, Husserl è convinto che il declino della società europea si debba proprio a ciò che sembra il suo più grande successo: lo sviluppo della scienza e della tecnica. Cos’è, infatti, la ‘crisi’ a cui si riferisce il titolo? Husserl pensa in primo luogo alla crisi spirituale, umana, che Husserl esperisce come caratterizzante la vita dell’umanità europea tra le due guerre. Pur non essendo incline ad alcuna forma di analisi storico-politica della contemporaneità, il filosofo stesso addita a più riprese l’abisso in cui è caduta la cultura europea negli ultimi decenni.
Egli, come ebreo tedesco nato in Moravia nell’ambito della multietnica civiltà austroungarica, assiste dapprima all’autodistruzione europea della prima guerra mondiale, con la disgregazione della transnazionalità asburgica, e poi al progressivo sfacelo delle costituzioni europee a partire dall’italiana marcia su Roma fino all’ascesa al cancellierato di Hitler nel ’33.
Questi eventi non sono semplicemente vissuti come catastrofi militari, economiche o politiche, ma soprattutto come catastrofi spirituali: l’umanità europea ha perso ogni unità di senso e la cultura europea, le scienze europee, nel senso generale di scientia come ‘sapere’, non forniscono più alcuna risposta plausibile. La crisi delle scienze di cui Husserl parla non è quindi crisi dell’efficacia tecnica o della capacità predittiva delle scienze, bensì crisi di senso: il sapere non porta più con sé alcuna capacità palingenetica né alcuna ispirazione etica.
Una dura critica è lanciata da Husserl alla figura di Galilei, protagonista della rivoluzione scientifica del sedicesimo secolo.
La matematizzazione della natura operata dallo scienziato pisano è stata l’inizio di quello sviamento consistente nel considerare il mondo della vita una pura costruzione fisico-matematica, depurata di tutti gli aspetti (qualitativi) di vita vissuta: l’uomo occidentale ha così finito per perdersi, cosa tra le cose, dimentico del proprio ruolo di artefice del mondo [per comprendere quanto Husserl avesse ragione, si vedano gli inquietanti sviluppi contemporanei della mathesis universalis nelle applicazioni dei Big Data].
Galileo, considerando il mondo ina base alla geometria, in base a ciò che appare sensibilmente e che è matematizzabile, astrae dai soggetti in quanto persone, in quanto vita personale, da tutto ciò che in un senso qualsiasi è spirituale, da tutte le qualità culturali che le cose hanno assunto nella prassi umana [La crisi delle scienze europee].
10. Il filosofo «funzionario dell’umanità»
Il più pregnante lascito husserliano consiste così nell’affermazione di una razionalità diversa da quella positivista (moderna, burocratica, capitalistica), fondata sul soggetto e su un sapere in grado di fornire risposte ai grandi interrogativi umani, lontana dall’astrattezza calcolante delle scienze della natura novecentesche. Perché questo compito possa essere affrontato, c’è bisogno però di comprensione critica del corso degli eventi storici.
Ciascun uomo, ciascun evento umano è profondamente calato nel «divenire storico-spirituale, è cioè parte di una tradizione. Ma questa tradizione non si tramanda come un destino al quale non è possibile sottrarsi, né si riproduce in forma meccanica: essa possiede un’unità spiritale che le deriva da un preciso orientamento. Per questo è necessaria una comprensione della storia nel suo complesso, «della nostra storia».
Questa comprensione è compito del filosofo, anche il filosofo infatti appartiene a una tradizione, ma sulla tradizione del tutto peculiare della critica della tradizione, cioè della ricerca di una verità apodittica, razionalmente fondata. E’ su questa fondamentale storia di libertà che può basarsi ogni critica del tempo presente.
11. Armando Massarenti, Che cos’è la coscienza?
Come abbiamo visto, la filosofia di Husserl assegna una enorme importanza alla coscienza e alla sua attività. Ma esattamente, che cos’è l’attività della coscienza? Per rispondere a questa domanda in apparenza banale, basta considerare un esperimento mentale, proposto dal filosofo australiano David Chalmers (di cui si consiglia caldamente il sito ht- tp://consc.net/chalmers/ visitato nel settembre 2011) e ripreso da Roberto Casati e Achille Varzi nel loro Semplicità insormontabili (Laterza, Bari 2004). Supponiamo che possiate prendere una pillola, il «sonnifero zombie», che abbia come unico effetto quello di rendervi un essere totalmente privo di coscienza, come appunto sono gli zombie. In pratica, che cosa vi succederebbe?
È semplicissimo, verrebbe da rispondere: come nella migliore tradizione hollywoodiana, dovrei barcollare con gli occhi spalancati mugolando in cerca di cervelli umani. Ma abbiamo detto che la pillola non vi trasforma in mostri: il suo unico effetto è quello di togliere la coscienza. Bene, in questo caso dovrei restare catatonico, come un vegetale. Ma ancora una volta la risposta è no: tutte le altre facoltà dovrebbero restare intatte, e quindi dovrei poter parlare, muovermi ed eventualmente addirittura ricordarmi di ciò che ho fatto, la pillola infatti annulla la coscienza, non la memoria. E dunque? Dunque farei tutto quello che faccio adesso, ma non sarei cosciente di farlo in quel preciso istante: sarebbe come se fossi un automa o, appunto, uno zombie. Se mi tirassero un calcio urlerei: avrei provato dolore, perché il sonnifero non è un anestetico. Ma non saprei di aver provato dolore, né saprei di avere urlato: infatti non sono cosciente. Sembra incredibile, ma a quanto pare tutta l’attività della coscienza sembrerebbe ridursi a questo. Inoltre, tutto ciò è molto strano: noi possiamo perdere la memoria, perdere la sensibilità e quant’altro. Perché non possiamo perdere solo la coscienza?
Si potrebbe rispondere che questo è un puro gioco di parole. In realtà noi sappiamo benissimo che cosa voglia dire « perdere coscienza», e l’ipotesi proposta è semplicemente impossibile. Questo perché la coscienza, potremmo supporre, è la precondizione di tutti i fenomeni mentali: senza di essa non ci possono essere sensazioni, memoria o altro. Però c’è anche un’altra risposta: non possiamo toglierla perché non c’è una facoltà chiamata coscienza, ma è solo la somma di una serie di altre facoltà. Tutte e due le opzioni però sono difficilmente sostenibili, e per capirlo basta notare come spesso noi « perdiamo coscienza» senza svenire, entrare in coma o dormire: è capitato quasi a tutti, specie se assonnati o molto stanchi, di fare qualche gesto senza rendersene conto; dopo un incidente o uno shock, capita anche che la vittima si comporti in apparenza normalmente, ma non abbia coscienza dei suoi gesti. E con questo, torniamo alla casella iniziale: che cos’è veramente la coscienza, e quanto è importante?
Riusciresti a inventare un altro esperimento o a formulare un argomento per dimostrare‘che l’alternativa che hai scelto è giusta o che l’altra è sbagliata? Alla luce di quanto detto finora, che cosa dimostrerebbe questo esperimento? Che la coscienza non esiste? Che esiste ma non è importante? Che il sonnifero zombie è impossibile? È possibile formulare un argomento che sposi una di queste tesi alla luce dei dubbi posti dal nostro esperimento?
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