I neuroni specchio

by gabriella

macaco imitaL’intervista realizzata nel 2005 da Felice Cimatti a Vittorio Gallese, uno dei ricercatori dell’Università di Parma che negli anni ’90 scoprirono i neuroni specchio. Quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, le stesse cellule che entrano in funzione quando siamo noi stessi a compiere quel gesto.

Credo che questo contributo delle neuroscienze – dice Gallese – possa essere importante nel suscitare nuove riflessioni in ambito etico, politico ed economico. Perché ha messo in luce come la reciprocità che ci lega all’altro sia una nostra condizione naturale, pre-verbale e prerazionale.

Vittorio Gallese

L’animale umano è un animale sociale, che per crescere e vivere ha, per sua natura, bisogno della relazione – da quella fisica a quella comunicativa – con i propri simili. Uno dei meccanismi fondamentali dell’interazione sociale è l’imitazione. Cosa c’è di più semplice della capacità di imitare una azione altrui? In realtà, come spesso ci capita, riusciamo a imitare certi gesti, ma non abbiamo idea di come sia possibile farlo, di cosa si debba sapere per imitare. Una tra le scoperte neurologiche più importanti di questi ultimi anni è quella dei cosiddetti neuroni specchio, dovuta al gruppo di neuroscienziati – di cui fa parte Vittorio Gallese – che lavora nel dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma.

Di che si tratta? Quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, gli stessi neuroni (le cellule che compongono il cervello) che si attivano quando siamo noi a compiere quella stessa azione. Per questo possiamo imitare l’azione altrui, perché il nostro cervello risuona, per dir così, assieme a quello della persona che stiamo osservando. Si tratta di un meccanismo cerebrale fondamentale, perché permette una sorta di comunicazione non linguistica fra i cervelli.

C’è di più: se quel che fai tu è simile a quel che faccio (o potrei fare) io, allora io sono in qualche modo tuo simile, e viceversa. La soggettività umana, ma probabilmente anche quella di animali diversi dall’Homo sapiens, nasce attraverso meccanismi cerebrali di questo tipo. Detto altrimenti, l’animale umano scopre se stesso – così come sosteneva Merleau-Ponty – come quel certo corpo che è, quella certa soggettività che è, soltanto attraverso la relazione con l’altro. La più importante conseguenza psicologica e filosofica di questa scoperta è che, evidentemente, contro la tendenza individualistica prevalente nella psicologia contemporanea, in particolare nelle scienze cognitive, la soggettività animale e umana in particolare, è in realtà una intersoggettività originaria. Per parlare di questi temi la rivista «Forme di vita» ha organizzato un incontro – che anticipiamo in una versione più sintetica con il neuroscienziato Vittorio Gallese, il quale collabora da alcuni anni con filosofi della mente, psichiatri e psicolinguisti alla elaborazione di un approccio multidisciplinare all’intersoggettività.

Le scienze cognitive classiche si basano sul modello del calcolatore, secondo il quale la mente è una specie di computer. Una macchina di questo tipo ha bisogno, per funzionare, soltanto di energia e di informazioni che elabora internamente. Pensare significherebbe dunque calcolare: è un modello, questo, condannato all’idea che la mente sia una entità isolata e solitaria, che non ha bisogno della relazione con gli altri. Lei crede che le cosiddette scienze cognitive post-classiche, che spostano l’accento dalla mente disincarnata alla mente in un corpo (in un robot, ad esempio), rappresentino davvero una via di uscita al solipsismo? In altre parole, possiamo considerare la socialità come una caratteristica intrinseca alla mente umana, oppure è solo in un secondo momento, e in modo accessorio, che la mente entra in relazione con un contesto sociale?

Nutro una profonda perplessità nei confronti del solipsismo delle scienze cognitive «classiche». Credo che questo paradigma sia giunto ormai al capolinea. La scienza cognitiva classica ha concentrato i propri sforzi soprattutto nel chiarire le regole formali che strutturano una mente essenzialmente solipsistica, prescindendo dal contesto interpersonale in cui la mente si sviluppa. Si è molto meno indagato su ciò che innesca il senso di identità di cui comunemente facciamo esperienza quando entriamo in contatto con i nostri consimili.

Credo valga la pena di chiedersi se l’analisi solipsistica condotta dalla scienza cognitiva classica, ispirata dalla psicologia del senso comune, costituisca l’unico approccio esplicativo possibile. In particolare, dobbiamo chiederci se questo orientamento renda piena giustizia agli aspetti fenomenici ed esperienziali delle nostre relazioni interpersonali. La mia risposta a entrambe le domande è negativa. Come esseri umani, oltre a percepire la natura esterna e oggettiva del comportamento altrui, facciamo esperienza direttamente in modo pre-verbale anche del carattere intenzionale e teleologico, in modo simile a come facciamo esperienza di noi stessi quali agenti consapevoli e volontari di quanto ci accade.

Da una prospettiva in prima persona, il nostro ambiente sociale appare popolato da altri soggetti che, come noi, intrattengono relazioni intenzionali con il mondo. In altre parole, ci troviamo naturalmente in una relazione di «consonanza intenzionale» con le relazioni intenzionali altrui. Questa prospettiva si applica non solo al mondo delle azioni, ma anche e più in generale all’esperienza delle emozioni e delle sensazioni vissute da altri. Non siamo alienati dal significato delle azioni, emozioni o sensazioni esperite dagli altri non solo perché le condividiamo ma anche perché abbiamo in comune i meccanismi nervosi che le sottendono. Grazie alla consonanza intenzionale, l’altro che ci sta di fronte è molto più che un altro sistema rappresentazionale: l’altro è un’altra persona come noi. Il sistema dei neuroni specchio rappresenta verosimilmente il correlato nervoso di questa consonanza intenzionale.

Uno dei capisaldi delle scienze cognitive è la cosiddetta Theory of Mind, l’insieme di credenze in possesso di ognuno di noi, secondo alcuni in modo innato, e attraverso le quali attribuiamo ai nostri simili pensieri, intenzioni e scopi. Vale a dire che un essere umano si comporterebbe in modo peculiare nei confronti di un suo simile, e diversamente da come si comporta verso un oggetto inanimato, proprio grazie a questo insieme di credenze. Ora, questa posizione presenta un grave limite, perché l’altro diventa una astrazione, non qualcosa di immediatamente evidente. Come se nei confronti dell’altro dovessimo sempre, in primo luogo, scartare un dubbio radicale: come faccio a sapere che è veramente umano e non è, come in un celebre esempio cartesiano, soltanto un automa? Qual è il suo punto di vista al riguardo?

Sono abbastanza contrario all’uso della definizione Theory of Mind. Il motivo principale è che suggerisce esplicitamente come la nostra capacità di comprendere e interpretare il comportamento osservabile degli altri dipenda unicamente ed esclusivamente dall’applicazione di una teoria. Un’ulteriore implicazione fuorviante dell’utilizzazione del termine «teoria» per denotare le nostre facoltà esplicativo-ermeneutiche in ambito sociale è rappresentata dalla falsa aspettativa secondo la quale queste facoltà sarebbero assimilabili a un orientamento di tipo scientifico, e razionale.

La scoperta del sistema dei neuroni specchio mette in luce invece l’enorme importanza del corpo vivo nella cocostruzione del nostro rapporto con l’altro. Non a caso ho parlato di «simulazione incarnata» (embodied simulation) per caratterizzare il meccanismo che descrive la funzione dei neuroni specchio. In un certo senso i risultati delle nostre ricerche si avvicinano alle riflessioni offerte dalla prospettiva teorica fenomenologica di autori come Husserl e Merleau-Ponty. Sicuramente mi riconosco molto di più nella Fenomenologia della Percezione di Merleau-Ponty che nella Mente Modulare di Fodor.

I neuroni specchio permettono di spiegare fisiologicamente la relazione con l’altro, ad esempio l’imitazione. Il punto è, però: quanto ha, di effettivamente sociale, questo spazio governato dai neuroni specchio? La società è fatta di persone che possono sempre essere fraintese, e possono agire – ovviamente – in modo diverso da me. Perché ci sia libertà bisogna che non sia obbligato, nemmeno dai miei neuroni, a imitare i miei simili. Che aiuto ci forniscono i neuroni specchio per costruire una teoria naturalistica della società, in cui siano presenti tanto gli aspetti di consonanza che quelli di dissonanza?

I neuroni specchio non spiegano e non possono spiegare tutto. Bisogna intendersi sul livello di descrizione al quale vogliamo situarci. I neuroni – tutti i neuroni – sono macchine computazionali, che del mondo conoscono solo ioni e le correnti elettriche che quegli stessi ioni determinano fluendo dentro e fuori dalla membrana che li circoscrive. Non possiamo ridurre ontologicamente il libero arbitrio ai costituenti sub-personali dell’individuo. Questo tipo di riduzionismo ontologico è per me del tutto privo di senso. Ma esiste un altro tipo di riduzionismo, di tipo metodologico, che invece sposo in pieno. Abbiamo ottime possibilità di comprendere meglio il livello personale di descrizione, quello che attiene al singolo individuo e alla moltitudine di individui che costituiscono la nostra società, utilizzando come chiave di lettura la chiarificazione dei meccanismi neurali – quindi sub-personali – che sottendono il «funzionamento» degli individui.

È curioso come talvolta le scienze umane oscillino tra una radicale dismissione, in ambito sociale, dell’utilità esplicativa fornita dai risultati della ricerca neuroscientifica e una fiducia cieca nelle neuroscienze, come possibile supporto a una teoria del tutto. In realtà non possiamo perdere di vista l’esistenza di plurimi livelli di descrizione. Io sono fatto dei miei neuroni e delle mie sinapsi, ma da un altro punto di vista sono anche molto di più. I temi che costituiscono l’oggetto di queste domande rivolte al neuroscienziato a mio avviso richiedono un approccio multidisciplinare.

Prendiamo il caso di Abu Ghraib: i neuroni specchio «sentono» che l’altro sta soffrendo, ma la soldatessa Joe continua la tortura. Qui c’è un contrasto netto fra fisiologia – la risonanza dei neuroni specchio della vittima con quelli di chi la sta torturando – e il comportamento del soldato, che è del tutto dissonante con quanto il suo stesso cervello sta probabilmente registrando. Quel che ci dicono i neuroni specchio si può quindi mettere da parte volontariamente? Ma allora, cosa ci dicono della nostra reale esperienza sociale?

I neuroni specchio non «sentono». È la persona che comprende, al livello dell’esperienza ciò che prova l’altro, anche grazie al meccanismo di simulazione sostenuto dai neuroni specchio. Ciò detto, la domanda è molto interessante ed esemplifica il possibile contributo delle neuroscienze alla discussione etica. Credo che la capacità di fare esperienza di ciò che prova l’altro non implichi necessariamente l’impossibilità di usare la violenza contro di lui. Mi sembra una visione troppo deterministica. Si potrebbe, al contrario, sostenere che non c’è miglior sadico di chi sa precisamente quali siano le conseguenze della propria violenza su chi la subisce. Empatizzare e simpatizzare con l’altro sono due processi distinti. Se vedo gioire il mio avversario, posso comprenderne la gioia, grazie a un meccanismo empatico, senza necessariamente condividere lo stesso sentimento, ma anzi più probabilmente derivandone un sentimento negativo.

Non va inoltre dimenticato come storicamente la violenza di massa perpetrata nei confronti dei nostri simili si sia spesso accompagnata al tentativo di dimostrarne la supposta alterità e sub-umanità. Basta pensare allo sterminio delle popolazioni autoctone del continente americano o australiano o all’olocausto degli ebrei. In tutti questi casi all’altro viene negato la status di essere umano, forse anche per ridurre con un meccanismo top-down di tipo cognitivo, l’impatto emotivo indotto dall’esperienza delle sofferenze cui l’altro viene assoggettato.

Veniamo ora a un altro campo dell’esperienza umana, il linguaggio. Mi domando se quando è in gioco la comprensione linguistica non si verifichi qualcosa di simile al meccanismo indotto dai neuroni specchio. In altri termini, capire ciò che un altro dice significa in qualche modo risuonare ai suoi enunciati?

Si. Vi sono evidenze preliminari che sembrano suggerire come la comprensione semantica del linguaggio sia mediata, almeno in parte, da meccanismi di simulazione o «risonanza» che vedono coinvolto il sistema motorio. Comprendere una frase che esprime un’azione sicuramente induce a attivare parte degli stessi circuiti nervosi motori coinvolti durante l’effettiva esecuzione di quella stessa azione. Ma ci si può spingere oltre. In un articolo che ho appena pubblicato su Cognitive Neuropsychology insieme a George Lakoff, sosteniamo appunto come gran parte dei concetti che normalmente utilizziamo nel linguaggio e nel pensiero abbiano radici sensori-motorie. Credo che l’idea del linguaggio come un dominio modulare vada messa in discussione. Penso invece che il linguaggio rappresenti un esempio di «exaptation», cioè l’acquisizione di nuove funzioni adattative da parte di competenze che si sono originariamente sviluppate ed evolute per fini diversi da quelli del linguaggio come noi oggi lo conosciamo. Non so fino a che punto potremo spingerci, ma è un tema di ricerca estremamente affascinante a cui sto dedicando assieme ai miei colleghi sempre più energie.

Lei crede che i neuroni specchio, aiutandoci a spiegare la dimensione sociale intrinseca agli esseri umani, possano esserci d’aiuto anche per costruire una teoria materialistica della politica?

La realtà contemporanea ci offre continuamente esempi che contraddicono in modo palese l’idea cara alle scienze cognitive classiche della supposta razionalità perfetta dell’essere umano. Le nostre scelte, scelte politiche incluse, non sempre obbediscono a criteri di razionalità. In altri termini, spesso non scegliamo ciò che favorisce e garantisce i nostri interessi. Spesso scegliamo, invece, opzioni che fanno appello a dinamiche che potremmo definire «irrazionali» (ammesso che questa visione dicotomica razionale/irrazionale abbia un senso), cariche di componenti emotive. La rinnovata presa su milioni di persone di vari tipi di fondamentalismo ne costituisce una chiara esemplificazione. Inoltre, la dimensione globale e globalizzante dei moderni mezzi di comunicazione di massa rende quanto mai importante essere consapevoli di come le nostre scelte possano essere condizionate dai processi di «framing» cognitivo cui siamo continuamente esposti.

Le stesse decisioni politiche possono essere recepite in modo positivo o negativo a seconda di come vengono presentate. Parlare di «flessibilità» è, per esempio, molto diverso dal parlare di «precarizzazione». Credo che le neuroscienze cognitive possano aiutare a spiegare, e forse in un certo senso a «smascherare» questi meccanismi che vengono scientemente impiegati per manipolare e condizionare il consenso politico. In termini più specifici, mi piace pensare che la scoperta dei neuroni specchio abbia messo in luce un aspetto cruciale della nostra dimensione sociale, cioè la dimensione della reciprocità che ci lega all’altro. Il meccanismo esemplificato dal sistema dei neuroni specchio gioca un ruolo fondamentale nella costruzione del senso d’identità sociale, che è un processo di co-costruzione rispondente appunto a regole di reciprocità. Questa identità sociale è pre-verbale e pre-razionale, è una condizione appunto «naturale» che ci mette nelle condizioni di accogliere l’altro come simile a noi, dal momento che condivide con noi le stesse esperienze, e lo fa in quanto ha in comune con noi gli stessi meccanismi neurali che le sottendono. Credo, dunque, che questo contributo delle neuroscienze possa essere importante nel suscitare nuove riflessioni in ambito etico, politico ed economico.

Il manifesto, 22 giugno 2005.

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