Pubblicato nel Periodico di Informazione e cultura dell’UniTn.
L’immagine del tempo dominante nel nostro senso comune (di lontana origine aristotelica, ma confermata anche da Newton, che ritiene questo l’unico tempo verum et mathematicum) è costituita da una retta infinita sulla quale scorre, a velocità costante, un punto indivisibile e inesteso, il presente, che avanza separando in maniera irreversibile il passato, che gli sta alle spalle, dal futuro, verso cui procede.
Si tratta, senza dubbio, di un’idea esemplarmente semplice e comoda, di cui ci serviamo continuamente e da cui è difficile staccarci. Ma è anche l’unica vera? Appena affrontiamo la questione, vediamo sorgere diversi paradossi (da intendersi non come assurdità, bensì come affermazioni che vanno contro l’opinione, la doxa, prevalente), dotati di differenti gradi di plausibilità. ‘Aprendo’ il concetto di tempo nelle sue strutture elementari, come un bambino smonta un giocattolo, vedremo, appunto, scaturire da ogni sua componente (il punto, la linea, lo scorrere, la velocità, la divisibilità in parti uguali, la direzione) paradossi o apparenti mostri concettuali. Abbandoniamoci al dubbio su quello che ci sembra evidente e proviamo a logorare e a sabotare l’idea di validità assoluta attribuita alla comune immagine del tempo.
Chi ci assicura, in primo luogo, che il tempo scorra (in modo irreversibile)? Andando contro corrente, Agostino mostra, ad esempio, l’uguale plausibilità di un tempo che non scorre dal passato al futuro attraverso lo snodo del presente. Noi, infatti, non ci spostiamo mai dal presente e viviamo il passato solo nel presente del ricordo e il futuro solo nel presente dell’attesa. Il tempo, presente tridimensionale misurato dall’animo nella sua distensio (cfr. Confessioni, XI, 27, 36), è dunque elastico: si restringe e si concentra quasi in un punto solo nell’attenzione, ma si allarga ‘all’indietro’ nel rammemorare e si prolunga ‘in avanti’ nell’attendere o nel progettare.
Per questo il senso del passato si può modificare nel presente: quel che è accaduto non può certo essere più cancellato, ma il suo peso può certo variare attraverso il perdono, che permette a chi ha commesso il male o a chi lo ha subito, di ricominciare, più leggero, una nuova vita. Ed anche il futuro, per sua natura, incerto, può venire indirizzato e condizionato dalla fiducia, ad esempio, nell’assistenza e nella grazia divina, alimentata dalla speranza, o dalla fede laica nel progresso.
Perché, dunque, sostenere che il tempo scorre, se non ci allontaniamo mai dal presente? […]
Riferendosi al tempo psichico, Freud ha tentato di comprendere il nesso tra il tempo che passa e quello che non passa e ha suggerito – in poche righe dello scritto Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, del 1915 – un’audace soluzione. Per chiarirne l’originalità, si può confrontare la sua teoria con quella di Leibniz, in cui il tempo raffigura l’ordine della successione, mentre lo spazio rappresenta l’ordine della coesistenza (ciò significa che, diversamente da Newton, non esistono spazio e tempo absoluti, sciolti cioè dalla presenza degli enti del mondo e della mente). Lo spazio
“è l’ordine che rende i corpi situabili, e mediante i quali essi, esistendo insieme, hanno una posizione relativa fra loro; allo stesso modo anche il tempo è un ordine analogo, in rapporto alla loro posizione successiva” (Leibniz 1963, 471).
In Freud il tempo acquista invece, simultaneamente, la doppia natura del tempo e dello spazio leibniziani, in quanto
“la successione comporta anche una coesistenza” (Freud, 133),
ossia il passato convive con il presente che scorre e quanto è immobile perdura accanto a ciò che fluisce. In questo modo il tempo psichico appare, appunto, quale coesistenza di coesistenza e di successione, (i ricordi del passato, ad esempio, restano relativamente fermi, anche se spesso rielaborati, mentre il presente della percezione continua a scorrere).
Il telegrafo, il telefono, il cinema, la radio, la televisione o Internet hanno in meno di due secoli trasformato il senso della simultaneità e del passato, spargendo fecondi dubbi teorici sulla natura e sull’irreversibilità del tempo. Numerosi libri di fantascienza e pellicole (come Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, del 1985) hanno oggi reso popolari simili paradossi. Ma già nel 1871, con il romanzo Erehwon (che è il rovescio di Nowhere, da nessuna parte o “novunque”), Samuel Butler può chiedersi:
“Non è forse [il futuro] contenuto nel grembo del passato, e non deve il passato mutare perché muti il futuro?” (cfr. Butler, 141).
Alla fine dell’Ottocento vengono seminate, per effetto della tecnica, le prime perplessità sulla natura irreversibile del tempo. Dapprima suggerite dal grammofono di Edison – che può far ruotare all’indietro il rullo su cui sono stati incisi i solchi, provocando l’emissione di suoni al contrario -, vengono poi rafforzate dal cinema. Louis, uno dei fratelli Lumière, in una delle sue primissime esperienze, La charcuterie mécanique (La salumeria meccanica, del 1895) mostra le fette di un salame che si ricompongono nel salame intero. Lo segue, pochi anni dopo, nel 1902, il regista americano Samuel Porter, che, nel film The american fireman (Il pompiere americano), fa vedere il riformarsi di un palazzo dalle sue proprie macerie. Si tratta, indubbiamente, di espedienti artistici o tecnici, capaci, comunque, di indebolire e relativizzare la precedente granitica immagine del tempo che avanza in maniera irreversibile.
Ancora, incalzando: come fa l’istante o attimo (dal greco atomos, individibile) presente, che al pari del punto geometrico è inesteso e senza spessore, a stare nel tempo? Come è possibile che una serie di tali attimi puntuali e discontinui fondi la continuità del tempo? Se vi è tempo solo nell’intervallo fra due attimi, l’attimo non sta allora fuori dal tempo, come già aveva intuito Platone nel Parmenide (cfr. Platone 1992 c, 156 C-D) e come sosterranno i mistici, che vedranno in esso l’immobile nunc stans, la porta d’accesso all’eternità, intesa come pienezza di vita e non come durata?
Adeguandoci al senso comune, noi facciamo discendere il concetto di eternità da quello di tempo, immaginando l’eternità come un tempo lunghissimo, esteso all’infinito. Se andiamo a guardare il significato di aión greco e del suo corrispettivo latino aeternitas, vedremo che inizialmente aión designa la vita e ai suoi fluidi, come il liquido seminale, le lacrime o anche il midollo spinale, in seguito la durata della vita concessa agli uomini dagli dei, più tardi ancora alla vita stessa degli dèi e, infine, alla pienezza della vita in generale. Quest’ultima accezione compare in Plotino, quando definisce l’aión come zoé e, più esattamente, zoé en stasei, “vita in stato di quiete” (III, 7, 11, 44). Noi non viviamo soltanto in un passato che ci pesa e che in un certo modo ci condiziona, non viviamo soltanto in un presente atomico che ci sguscia di mano come la sabbia, e non viviamo o non dovremmo vivere soltanto nella proiezione in un futuro che è pura dissipazione e che diventa un inseguimento, un tentativo di accaparrarsi le cose.
La definizione plotiniana viene rielaborata e precisata da Boezio nella Consolazione della filosofia dove egli si interroga su cosa sia l’eternità (Quid sit igitur aeternitas consideremus) e dove essa diventa, andando oltre Plotino, “pienezza di vita” (plenitudo vitae), mentre il tempo, per così dire, è un’emorragia di vita, una perdita della sua pienezza, è aegestas, povertà, bisogno, un rincorrere continuamente quella felicità perfetta che, nell’esistenza terrena, balugina solo per un attimo (La consolazione della filosofia, V, 6).
La definizione di Boezio è stata riformulata, in una variante che piaceva a Borges, da un vescovo luterano dell’Ottocento, Hans Lassen Martensen:
“L’eternità è un puro oggi, l’immediata e chiara fruizione delle cose infinite (Aeternitas est merum hodie, est immediata et lucida fruitio rerum infinitarum)”.
Borges stesso aggiunge, parlandone:
“È vero che [l’eternità] non è concepibile, ma non lo è neppure l’umile tempo successivo. Negare l’eternità, sopportare il vasto annientamento degli anni carichi di città, di fiumi, di gioie, non è meno incredibile che immaginare la loro completa salvazione […] La vita è troppo povera per non essere anche immortale” (J. L. Borges, Storia dell’eternità, Milano, Adelphi, 1997, pp. 33-34 e cfr. 27, 36).
Aristotele ha per primo impostato sistematicamente questi paradossi e ha cercato di risolverli nel libro IV della Fisica (cfr. Aristotele 1973, IV, 218 a sgg.). Se non c’è tempo senza istante e istante senza tempo, il singolo istante è fuori dal tempo e il tempo compare appunto solo come intervallo tra due istanti. L’istante, considerato come limite indivisibile è bifronte, può separare o fungere da ponte:
“In quanto è divisorio, l’istante è sempre diverso, in quanto collega, è sempre lo stesso” (ivi, IV, 222 a).
Se rimanesse sempre lo stesso, se non trapassasse, sarebbe illimitato e si arriverebbe all’assurdo per cui
“le cose avvenute diecimila anni fa sarebbero simultanee a quelle avvenute oggigiorno, e nessuna cosa sarebbe né prima né dopo in relazione ad un’altra” (ivi, IV, 218 a).
D’altra parte, se ogni istante non fosse diverso dall’altro, non ci sarebbe neppure il tempo. Ammesso, dunque, che l’istante non può permanere in sé, né trapassare in altro, come si spiega la successione temporale e come si giustifica l’analogia tra il punto geometrico e l’istante e tra la linea e il tempo? Perché ci sia tempo occorre che vi sia la percezione del cambiamento: se nulla cambiasse, non avremmo il tempo. È l’anima che, con una operazione dell’intelletto, distingue il mutamento in un “prima” e in un “poi”, non solo diversi tra loro, ma aventi nel mezzo qualcosa di diverso da entrambi:
“Quando, infatti, noi pensiamo le estremità come diverse dal medio e l’anima ci suggerisce che gli istanti sono due, il prima, cioè, e il poi, allora noi diciamo che c’è tra questi due istanti un tempo” (ivi, 219 a).
Da qui la famosa definizione del tempo quale
“numero [o ritmo, arithmós] del movimento secondo il prima e il poi” (ivi, IV, 219),
da intendersi nel senso che il tempo è ciò che viene misurato secondo la successione del prima e del poi del cambiamento e che esiste, al pari del movimento – l’interpretazione è però più dubbia -, indipendentemente dall’anima che lo misura.
Ma l’istante è realmente indivisibile? Se non lo fosse, argomenta Aristotele, cadrebbe la diga che separa il passato dal futuro, per cui si troverebbe futuro nel passato e passato nel futuro (ivi, IV, 223 b) e il presente diventerebbe poroso e transitabile in entrambe le direzioni. Eppure proprio questa è, ad esempio, la concezione suggerita da Leibniz: che il futuro si trova già contenuto nel passato
(“Come in un corpo elastico che viene compresso, la sua dimensione più grande è presente come tendenza, così nella monade il suo stato futuro”) o il presente racchiude in sé il futuro: “Si può dire che nell’anima, come in tutti gli altri luoghi, il presente cammina gravido del futuro” (Leibniz 1960, III, 66).
Nel Novecento, ancora più paradossalmente, il filosofo e critico letterario Walter Benjamin, sostiene che il futuro sverna nel passato, anche nel senso che esiste un passato irredento, le cui promesse, non essendosi ancora realizzate, continuano a premere sul futuro: perciò noi non desideriamo niente se non quello che abbiamo già conosciuto e ci proiettiamo sul futuro sviluppando aspettative del passato (cfr. Bodei 1982, 165 sgg.).
L’istante, poi, è davvero privo di durata, di estensione? La fisiologia dell’Ottocento aveva calcolato che per percepire qualcosa occorrono almeno 0, 44 secondi. Il presente è dunque esteso, non coincide con un punto: ha una “prua” e una “poppa”, come dice William James.
Husserl prova a risolvere il problema della puntualità e discontinuità dell’attimo formulando l’ipotesi che esso sia sottoposto a una modificazione incessante dei contenuti, in cui però la forma resta costante:
“il fluire non è in quanto tale fluire, bensì ogni fase è di una medesima forma […] la forma consiste in ciò: che un istante si costituisce attraverso una impressione e che a questa si aggrega una coda di ritenzioni e un orizzonte di protensioni” (Husserl 1928, 476).
La ritenzione è un ricordo che si lascia dietro come “una coda di cometa”, la quale viene ad aggiungersi alla percezione di volta in volta attuale, e la protensione è, a sua volta, un’attesa che si proietta nel momento successivo.
Più radicalmente ancora, Bergson afferma che l’attimo, di per sé, non esiste. È solo l’intelletto – mediante un’astrazione di cui poi ci si dimentica – che opera tagli arbitrari nel continuo del tempo autentico, della “durata”. Questa è, invece, simile a una melodia, a una successione di tempi qualitativi, non numerabili, che si fondono e si compenetrano, senza contorni precisi (cfr. Bergson, 69 sgg.). Solo il tempo concepito alla maniera dello spazio in vista dell’utilità pratica (il tempo dell’orologio e del calendario) è omogeneo e divisibile in parti uguali.
Continuando: il tempo si dispone davvero lungo una sola retta di istanti che si susseguono? Ma perché non immaginare più tempi paralleli, più serie temporali tra loro estranee ma coesistenti, come quando in un sogno mi pare di vivere per anni una data vicenda, mentre in realtà la sua visione dura pochi minuti o come quando, tutto preso dalla lettura di un romanzo, che si svolge poche ore, mi sembra di aver attraversato secoli (cfr. Bradley, 210-211)?
Ancora: il tempo è realmente lineare, disposto secondo un’unica successione di “prima” e “poi” sempre diversi? Per millenni le società agricole hanno generalmente concepito il tempo in forma ciclica, come eterno ritorno. Sebbene nel mondo classico siano stati contati una ventina di casi di tempo lineare, la ciclicità rappresenta la concezione prevalente anche nella filosofia greca e latina.
Platone e il giovane Aristotele ipotizzano così catastrofi periodiche, dovute all’eccessivo calore conseguente al mutamento di inclinazione dell’asse terrestre o a diluvi in cui sopravvivevano soltanto gli abitanti delle cime dei monti, i pastori e gli uomini più rozzi. Le civiltà sono pertanto costrette a ripartire ogni volta da uno stadio intellettualmente e moralmente più povero, così che l’umanità ripercorre ogni volta la serie delle sue scoperte, fino a quando non giunge un nuovo cataclisma (questo modello serve anche a spiegare perché gli uomini, malgrado esistano da epoche immemorabili, non progrediscano mai, materialmente ed eticamente, oltre un certo livello).
Gli stoici erano ancora più radicali e pensavano che a date fisse, ogni 36. 000 o ogni 72. 000 anni, il mondo scoppiasse, prendendo fuoco (ekpyrosis). Dopo ogni cataclisma tutto sarebbe ricominciato identico:
“E ci sarà un nuovo Socrate e un nuovo Platone e ciascun uomo sarà lo stesso con gli stessi amici e concittadini; le stesse cose si seguiranno, le stesse cose si useranno; allo stesso modo di prima si ricostruirà ogni città, ogni villaggio, ogni territorio. Questo rinnovamento del tutto non avverrà una sola volta, ma più volte: o piuttosto avverrà che le stesse cose si ricostruiscano nella stessa forma all’infinito” (Nemesio, in Stoici antichi, II, 892).
Una fondamentale svolta alle teorie sul tempo viene, anche in questo caso, data da Agostino, il quale – pur condividendo la tesi stoica dell’invecchiamento del mondo quale preludio alla sua fine – considera il tempo umano come una breve parentesi dell’eternità, una fase che ha inizio con la Creazione e fine con il Giudizio universale. Rifiuta inoltre l’idea dell’eterno ritorno in favore di un tempo lineare della coscienza che ciascun essere umano inaugura nascendo (initium ut esset homo factus est). E questo perché, come vien detto nella Città di Dio, se tutto si ripetesse allo stesso modo, un destino ineluttabile negherebbe la libertà individuale, ucciderebbe la speranza, e obbligherebbe Cristo a reincarnarsi infinite volte dopo ogni deflagrazione cosmica. La ciclicità del tempo bloccherebbe, poi, anche gli affetti:
“Nessuno potrebbe amare fedelmente un amico, sapendo che quello diventerà un suo nemico” (Agostino 1984 b, XII, 21).
L’esperienza primaria di ognuno è quella di essere immerso nello spazio, in una dimensione entro cui i corpi coesistono e si muovono. L’organo della vista, che giunge più lontano degli altri, permette all’uomo di vedere persino le galassie. Nessuno dei cinque sensi lo mette, invece, a diretto contatto diretto con il tempo. Eppure, ognuno avverte suo il trascorrere attraverso i mutamenti del mondo esterno o dei suoi stati interni. Ma le domande e i dubbi si affollano. Sono i movimenti dei corpi celesti (i cicli lunari e solari, la rotazione del globo terrestre con l’alternarsi del giorno e della notte) a permettergli di misurare il tempo o è la sua anima che lo misura? Può esistere il tempo senza qualcosa muti? La luna piena tende a ridurre la sua superficie luminosa sino a scomparire, per poi crescere di nuovo; le stagioni si succedono ciclicamente, ma la vita di tutti gli esseri viventi ha un inizio e una fine e non sembra ripetersi: il tempo ha dunque natura circolare o lineare? Nello stesso tempo cronologico, quello misurato dal calendario o dall’orologio si trovano il microbo, il moscerino della frutta, l’uomo, la sequoia, il sole e ciascuno dura ore, giorni, decenni, secoli o miliardi di anni. Esistono, dunque, più tempi interni all’unico tempo che li misura? E il tempo breve dell’individuo umano non deve forse essere inserito, a sua volta, entro quello lentamente ritmato delle istituzioni e in quello che appare quasi immobile dell’ambiente fisico e del patrimonio genetico della sua specie?
Di fronte a tutti questi paradossi non si deve tuttavia trarre la conclusione che l’immagine comune del tempo sia falsa. Essa fornisce, al contrario, uno schema semplice e utile, che corrisponde perfettamente alle esigenze della vita quotidiana e a quelle della maggior parte delle teorie scientifiche e delle pratiche umane. L’errore consiste nell’assolutizzarla, nel considerarla espressione del tempo per antonomasia e non piuttosto una delle sue molteplici forme entro cui l’esperienza e le conoscenze umane possono essere pensate.
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