Il più famoso dei ragazzi selvaggi: la storia che animò il dibattito illuministico sull’uomo, lo stato di natura e la civilizzazione.
Indice
1. La specie umana tra biologia ed educazione
2. I bambini lupo osservati da Linneo
3. Victor dell’Aveyron
3.1 Victor a Parigi
3.2 Victor prova a parlare
1. La specie umana tra biologia ed educazione
Avete mai sentito parlare dei “ragazzi-lupo”, quegli esseri umani abbandonati in fasce e cresciuti allo stato selvatico grazie al buon cuore di qualche animale? Di leggende ce ne sono tante.
La più nota è quella di Romolo e Remo, ma ne esistono pure altre, come quelle di Ciro di Persia, Tarzan o Mowgli. D’altra parte è facile immaginare che i neonati indesiderati venissero abbandonati in prossimità di zone selvagge. Succede anche ai giorni nostri e ne abbiamo testimonianza ogni qual volta leggiamo del ritrovamento di bambini lasciati sulla soglia di una chiesa o, peggio, gettati in un cassonetto.
Sicuramente i casi scoperti sono una minoranza e tanti bambini muoiono in breve tempo, tuttavia, di quando in quando e incredibilmente, qualcuno riesce a sopravvivere.
2. I bambini-lupo osservati da Linneo
Secondo il biologo settecentesco Linneo l’essere umano trovato nel bosco era tetrapus, mutus, hirsutus, ed era sicuramente di una varietà diversa dal resto della specie umana.
Lo chiamò Homo sapiens ferus e citò i casi più famosi: un ragazzo-lupo di Hesse (1344), un ragazzo-orso lituano (1661), un ragazzo-pecora (1672), una ragazza di Cranenburg (1717), un ragazzo trovato in Germania nel 1724 (Peter) e una ragazza di Champagne (1731).
Le ragioni dell’abbandono possono essere tante, dalla povertà al degrado, dalla vergogna a gravidanze indesiderate portate a termine. O, ancora, in paesi come l’India o la Cina i neonati possono essere abbandonati per evitare sanzioni da parte dello Stato.
3.Victor dell’Aveyron
3.1 Victor a Parigi davanti agli scienziati
Le voci sul ritrovamento si diffusero a macchia d’olio. Il caso era eccezionale, soprattutto per lo studio della mente, così il ragazzo dell’Aveyron venne richiesto a Parigi dove l’interesse e la curiosità crebbero di giorno in giorno.
Il famoso ed esperto psicologo Philippe Pinel mise a tacere le voci discordi che si erano levate sul suo conto: il selvaggio era un ritardato mentale che differiva dalle piante solo perché si muoveva e gridava. La diagnosi era autorevole e non lasciava spazio a repliche, tuttavia lo studio andava approfondito.
Jean-Marc-Gaspard Itard, un medico appena ventiseienne, assunse l’incarico e subito si appassionò al caso. Quel selvaggio, così abulico e assente, non gli sembrava affatto ritardato.
Nel suo modo di essere, anche se fissava il vuoto e si dondolava ossessivamente, c’era qualcosa che sembrava nascondere un’intelligenza latente in attesa di esprimersi.
3.2 Victor prova a parlare
Non riuscendo a ottenere dei segnali di risveglio emozionale dal suo giovane paziente, il dottor Itard tentò di fargli dire qualche parola. Nel caso più favorevole Victor avrebbe potuto raccontare della sua esperienza di selvaggio, un’evenienza estremamente eccitante. Purtroppo, anche in questo settore, non ci fu nulla da fare e Itard, sconsolato, scrisse:
Vedendo che il prosieguo dei miei sforzi e il passare del tempo non portavano a nessun cambiamento, mi sono rassegnato e l’ho abbandonato al suo incurabile silenzio.
Dopo un impegno durato svariati anni Victor era riuscito a pronunciare solo due parole: “lait”, ma senza che ne conoscesse davvero il significato e “Oh Dieu”, un’esclamazione che aveva sentito dalla sua tutrice. Per il resto farfugliava ed emetteva i soliti grugniti. Neanche il tentativo di fargli distinguere i suoni, ad esempio la differenza fra una campana e un tamburo, ebbe successo.
Dopo tutto, il compito non era così difficile e Itard ebbe l’impressione che Victor rispondesse solo a ciò che gli interessava. Forse era giunto il momento di smuoverlo cambiando atteggiamento: se Victor non aveva intenzione di mostrare le sue capacità con le buone l’avrebbe fatto con le cattive. Itard non era sadico e non voleva certo il male del suo sfortunato amico e paziente, ma forse le maniere forti erano necessarie per completare il programma che si era imposto. Bendò il ragazzo affinché si concentrasse sull’udito e iniziò a percuoterlo leggermente sulle mani per punirlo quando sbagliava. Anche così non andava, anzi più si faceva pesante l’addestramento e più si inasprivano i rapporti.
Se i progressi di Victor si potevano riassumere nel capire alcune domande abbinate a piccoli compitini come “portami dell’acqua”, va da sé che il cercare di fargli compiere delle semplici operazioni mentali fu l’ultima frustrazione in ordine cronologico. Itard venne preso da sconforto. Dopo cinque lunghi anni di duro lavoro senza risultati il dottore divenne sempre più irascibile, perse spesso la pazienza, sfiorò persino la crudeltà e nel 1806 prese l’unica decisione possibile: rinunciò. Così scrisse:
Ho sperato invano. È stato tutto inutile. Sono svanite così le brillanti attese sulle quali mi ero basato.
Si pentì di aver iniziato quell’esperienza e arrivò a condannare la
sterile inumana curiosità degli uomini che avevano strappato Victor dal suo posto.
Victor visse ancora a lungo, ma né gli insegnamenti di Itard né le cure della sua tutrice Madame Guérin, proseguite per oltre trent’anni, lo fecero mai cambiare.
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