Due saggi sul concetto di capitale sociale; uno tratto dall’inchiesta di Ugo Carlone sull’insicurezza percepita a Perugia [U. Carlone, «Se fosse più vissuto sarebbe più sicuro». Capitale sociale e insicurezza urbana a Perugia, Perugia, 2013, pp. 13-26], è una ricognizione dello stato del dibattito sociologico sul concetto di capitale sociale; l’altro, di Pierre Bourdieu, uscito negli Actes de la recherche en sciences sociales [1980, vol. 31, pp. 2-3] è un classico, oggi reperibile in Persée (in francese).
Il capitale sociale
In tempi recenti, il concetto di capitale sociale si è diffuso molto rapidamente nelle scienze sociali europee ed americane. E difficile trovare, però, una sua definizione unanimemente riconosciuta. Le significative differenze tra le diverse definizioni rimandano a teorie e programmi di ricerca anche assai diversi tra loro.
In prima battuta, potremmo dire che il capitale sociale è la
«capacità degli attori di assicurarsi benefici in virtù del fatto di essere membri di una rete o di strutture sociali» (Portes 1998, 6);
l’insieme di «risorse di cui dispone un individuo sulla base della sua collocazione in reti di relazioni sociali» (Sciarrone 1998, 61),
«il patrimonio di relazioni di cui dispone una persona e che questa può […] impiegare per buoi scopi» (Bagnasco et al. 2007, 99),
la «struttura di relazioni tra persone, relativamente durevoli nel tempo, atta a favorire la cooperazione e perciò a produrre, come altre forme di capitale, valori materiali e simbolici» (Mutti 1990, 8).
Le prospettive da cui viene studiato sono raggruppabili in due tipi: quella individualista (micro-relazionale), che predilige il punto di vista dell’azione degli individui e sottolinea i legami e i contatti fra le persone; quella olistica (macro-relazionale), che invece pone l’accento sugli aspetti coattivi e societari. Ne esiste poi una terza, quella relazionale, che si concentra sulle qualità delle relazioni, e non sui singoli soggetti o sulle comunità nel loro complesso.
La non univocità della definizione e dei diversi approcci è dovuta al «carattere metaforico» del concetto e «costituisce una delle ragioni più evidenti del suo successo entro comunità disciplinari distinte (e, spesso, poco comunicanti)», principalmente l’economia e la sociologia (Almagisti 2007, 35). […]
Il capitale sociale è comunque un oggetto di indagine relativamente recente, sebbene si riferisca a dimensioni e temi tutto sommato tradizionali. Secondo Sciolla (2003), non siamo di fronte ad un concetto nuovo, quanto ad un termine nuovo che pone in risalto aspetti considerati a più riprese dalla sociologia classica. I padri fondatori della disciplina, infatti, hanno già messo in evidenza l’influenza che i «fattori non strettamente economici e individuali, ma sociali e culturali, hanno sulla vita economica e politica di una società» (ivi, 258)2. […]
L’introduzione del concetto di capitale sociale ha consentito di «attirare l’attenzione sull’importanza dei legami informali, personalistici, per l’organizzazione economica e politica» (Piselli 2001, 47). Il suo maggiore merito sarebbe quello di aver permesso una sorta di rivincita dei temi tradizionalmente ritenuti soft negli studi riguardanti la modernizzazione e lo sviluppo economico: focalizzarsi sul capitale sociale permette infatti di «riconoscere che la propensione e la capacità a cooperare espressa dai membri di una data società influenzano in modo significativo i caratteri dello sviluppo economico e politico» (Mutti 1998, 12)3.
Come si produce il capitale sociale
Il capitale sociale si genera nelle relazioni sociali. In particolare, esso viene prodotto nelle reti e nelle connessioni tra gli individui, che acquistano così valore per il soggetto che ne fa parte. Non tutte le relazioni sociali, però, contribuiscono a formare capitale sociale. Il requisito essenziale perché ciò accada è che esse siano in qualche modo continue e relativamente stabili nel tempo. Pizzorno (2001) ritiene che il capitale sociale implichi l’esistenza di una relazione sociale duratura, che può venire mobilitata per una specifica finalità da un individuo, ma esiste indipendentemente da essa. Le relazioni di mero scambio e incontro che non trovano continuità non producono capitale sociale; ne sono portatrici, invece, quelle
«in cui sia possibile che l’identità più o meno duratura dei partecipanti sia riconosciuta, e che […] ipotizzino forme di solidarietà o di reciprocità» (ivi, 22-3).
Per Bourdieu il capitale sociale si genera nelle connessioni sociali e coincide con
[L] insieme delle risorse attuali o potenziali legate al possesso di una rete durevole di relazioni più o meno istituzionalizzate d’intercono- scenza e d’interriconoscimento o, in altri termini, all’appartenenza a un gruppo (1986, 249).
Se vuole accumulare capitale sociale, l’individuo può, anzi deve, porre in essere un vero e proprio «investimento strategico» che renda «profittevole» la rete (ivi, 249-250). Similmente, secondo Nan Lin (2001), l’acquisizione e l’impiego delle risorse che costituiscono capitale sociale avviene a livello dei singoli attori, che investono volontariamente nelle relazioni; è a livello individuale che il contatto viene valutato come risorsa utile e si è consapevoli delle opportunità offerte dalla rete5.
Non tutti gli autori, però, condividono l’idea che il capitale sociale derivi da un investimento strategico volontario. Coleman, ad esempio, ritiene che la sua produzione sia il frutto del normale funzionamento dell’organizzazione sociale: «molto capitale sociale si sviluppa o scompare senza che nessuno lo voglia» e come sottoprodotto di altre attività.
E possibile individuare alcuni fattori che contribuiscono a generare capitale sociale (2005, 408 ss.): un certo grado di chiusura delle reti sociali, fondamentale per la nascita delle norme (che sono, per questo autore, una forma significativa di capitale sociale) e per la diffusione della fiducia tra chi fa parte delle reti stesse; la stabilità delle strutture e delle reti dove il capitale sociale si crea, visto che la «disgregazione sociale» ha effetti negativi sulla sua formazione; l’ideologia, che «può creare capitale sociale imponendo a un individuo che la adotta di agire nell’interesse di qualcuno o qualcosa diverso da lui»; l’insieme dei fattori che rendono le persone dipendenti le une dalle altre, tra cui la ricchezza o la presenza di fonti ufficiali di aiuto; il tempo, visto che, con il suo trascorrere, il capitale sociale perde di valore se non viene rinnovato, i rapporti sociali muoiono se non vengono coltivati e aspettative e doveri si cancellano.
Da una prospettiva diversa e parzialmente eccentrica, quella della sociologia relazionale, Donati (2003; 2008a; 2008b) ritiene che il capitale sociale sia una qualità delle relazioni: «non di tutte le relazioni sociali, ma – nello specifico – di quelle che valorizzano i beni relazionali» (2008b, 30)6. Questi ultimi «consistono in (o possono essere generati solamente da) relazioni sociali prodotte e fruite assieme dai partecipanti ad un dato contesto sociale» [ibidem]. Donati individua la famiglia come luogo privilegiato per la generazione di capitale sociale, non solo per gli individui, ma per l’intera società. In particolare, una famiglia stabile e con relazioni strette tra i suoi componenti (cioè una famiglia “chiusa”, aggettivo che in questo caso non ha certamente un’accezione negativa e che richiama uno dei fattori che generano capitale sociale anche per Coleman) è in grado di trasformare la coesione interna in presenza significativa all’esterno e porsi come intermediario tra individuo e società. L’autore arriva ad affermare che
«le famiglie meno frammentate e più solidali sono maggiormente capaci di dare vita ad un effettivo capitale sociale complessivo della società, mentre le altre forme familiari non contribuiscono alla creazione di capitale sociale, ma anzi lo consumano» (Donati 2008a, 15-6).
Non esiste dunque un’incompatibilità tra le relazioni sociali che si formano all’interno della famiglia e quelle che si costituiscono all’esterno: anzi, Donati riscontra una certa continuità tra i due ambiti, con il primo che assume il ruolo di generatore originario di capitale sociale7.
Cartocci (2007, 29), invece, ritiene che un capitale sociale di tipo familiare non possa esistere, a meno di non cadere in una contraddizione in termini, con gli aggettivi che si annullano a vicenda» . Infatti, la famiglia implica
«di per sé – come tale – un preciso contenuto in termini di densità di legami affettivi (ben più caldi di semplici, anche se intense, relazioni sociali) così come in termini di unità economica, di ricchezza e di consumi»; il capitale sociale, invece, designa «reti di relazioni elettive che si istituiscono oltre il nucleo dei legami ascrittivi della famiglia, un prius da considerare analiticamente distinto» (ibidem).
Effettivamente, la questione sul dove vada collocato il capitale sociale è uno dei punti di maggior dibattito sul tema: a livello individuale o collettivo? come bene pubblico o privato? o piuttosto come “ponte” tra i due livelli?
Bianco (2001) sostiene che il capitale sociale è più adatto ad individuare una risorsa specializzata e localizzata, piuttosto che una di carattere collettivo: in quest’ultimo tipo di applicazione, infatti, il concetto rappresenterebbe poco più che una metafora utile a descrivere una comunità ben integrata o una società funzionante. Cartocci (2007), al contrario, pensa ad una dotazione complessiva di capitale sociale che può variare sensibilmente tra le diverse comunità locali. Putnam (2004, 16) ritiene che il capitale sociale presenti sia un aspetto individuale sia uno collettivo, sia una «faccia» privata sia una pubblica: questo perché se è vero che i singoli costituiscono relazioni di cui essi stessi beneficiano, il capitale sociale «può presentare anche esternalità che si riversano sulla comunità più ampia», così che «non tutti i costi e i benefici dei legami sociali vanno alla persona che ha costruito la relazione»8.
Anche Coleman (2005) sostiene che molti dei vantaggi connessi al capitale sociale vanno a favore di individui diversi da coloro che vi investono. Si tratta di una conseguenza del fatto che, come detto, questo tipo di risorsa può essere il sottoprodotto di altre attività. Del resto, secondo questo autore il capitale sociale è una risorsa relazionale: non si trova né negli individui (come il capitale umano), né negli «inputs fisici alla produzione» (come il capitale fisico), ma nelle relazioni tra gli individui.Secondo Putnam (2004, 17),
«un individuo con un buon numero di contatti in una società povera di legami non è produttivo quanto può esserlo una persona ben dotata di relazioni in una società che è altrettanto ricca»; inoltre, «anche un individuo con pochi legami può trarre qualche beneficio dal fatto di vivere in una comunità che ne è sprovvista». In sostanza, «alcuni dei vantaggi derivanti da un investimento in capitale sociale vanno a coloro che stanno solo a guardare, altri direttamente a chi fa l’investimento» (ibidem).
Per Coleman, nella relazione tra i soggetti A, B e C, il capitale sociale non si trova in A, B o C, ma nelle linee che li congiungono. A, B e C però possono giovarsene. Esso perciò può essere usato da tutti coloro che possono farlo fruttare9. Il capitale sociale, cioè, è un bene pubblico,
«attributo della struttura sociale in cui una persona è inserita», e «non è proprietà privata di alcune delle persone che ne traggono beneficio» (ib., 405).
In quanto tale, esso ha alcune caratteristiche che lo distinguono dai beni privati, tra cui l’inalienabilità pratica: è infatti difficilmente scambiabile.
Nan Lin (2001) ritiene che il capitale sociale sia una sorta di “concetto ponte”, in grado di esprimere la sintesi tra azione e struttura: le relazioni sociali, attraverso le quali gli attori si legano ad altri al fine di ottenere risultati migliori, vengono inserite ad un livello intermedio, dove è possibile lo scambio e la mobilitazione delle risorse.
Anche Donati, che – come abbiamo visto – parte da un approccio parzialmente diverso dagli altri autori, colloca il capitale sociale ad un livello intermedio. Egli sostiene che questa risorsa non è un attributo né degli individui, né della struttura sociale:
Non è una dotazione individuale, più o meno strumentale o valoriale, né un patrimonio collettivo che possa essere trattato come uno stock o un’eredità storica consolidata (un asset) di un dato territorio. Certamente è attivato e utilizzato dagli individui, e indubbiamente caratterizza un certo contesto territoriale, ma […] deve essere generato e rigenerato nelle e dalle relazioni sociali che avvengono in ogni singolo contesto (2008b, 38).
Il valore del capitale sociale
L’«idea centrale» del capitale sociale è che «le reti sociali hanno valore» (Putnam 2004, 14). Come quello fisico e quello umano, esso è in un certo senso produttivo. In cosa consista il suo valore è ben sintetizzato da Hanifan (1916, 30), la studiosa che per prima ha formulato il concetto: il capitale sociale coincide con «quei beni tangibili che contano maggiormente nella vita quotidiana delle persone», cioè «buona volontà, amicizia, solidarietà, rapporti sociali fra individui e famiglie che costituiscono un’unità sociale». L’individuo,
«se lasciato a se stesso, è socialmente indifeso»; se invece «viene in contatto coi suoi vicini e questi con altri vicini si accumulerà capitale sociale che può soddisfare immediatamente i suoi bisogni sociali […]; la comunità, come un tutto, beneficerà della cooperazione delle sue parti, mentre l’individuo troverà nelle associazioni i vantaggi dell’aiuto, della solidarietà e dell’amicizia» (Putnam 2004, 15).
L’accento va dunque posto sull’importanza della reciprocità, delle obbligazioni fra individui, delle reti di fiducia, della cooperazione, tutti elementi che possono instaurarsi in relazioni sociali durature, formali o informali, e portano un vantaggio all’individuo e alla comunità di cui fa parte.
Per Pizzorno (2001, 27), ad esempio, il capitale sociale può essere di solidarietà e di reciprocità: il primo prende corpo con l’intervento di una sorta di «terzo garante» (un gruppo sociale, un’agenzia, un’istituzione, etc.), che assicura l’assenza di sfruttamento, frode od opportunismo nel rapporto tra due parti; il secondo si costituisce nella relazione in cui una parte «anticipa l’aiuto dell’altra nel perseguire i suoi fini, in quanto ipotizza che si costituisca un rapporto di mutuo appoggio».
Secondo Coleman (2005, 388), il capitale sociale «è definito dalla sua funzione», in quanto rende possibile il conseguimento di obiettivi che non potrebbero essere altrimenti raggiunti: «non si tratta di una singola entità, ma di diverse entità che hanno due caratteristiche in comune: consistono tutte di un determinano aspetto della struttura sociale, e tutte rendono possibili determinate azioni di individui presenti all’interno di questa struttura».
Coleman individua alcune forme specifiche in cui si realizza il capitale sociale, cioè «che cosa nelle relazioni sociali sia tale da costituire una dotazione di capitale utile per gli individui» (ivi, 392). Esse sono:
- i doveri e le aspettative, cioè i rapporti di fiducia, le concessioni di favori, le obbligazioni di una persona verso un’altra. «Se A fa qualcosa per B, e ha fiducia che B in futuro lo ricambierà, con questo si crea in A l’aspettativa che B non tradirà la fiducia, e per B l’obbligo di comportarsi in questo modo» (ibidem).
- il potenziale informativo contenuto nelle relazioni, cioè la possibilità di accedere ad informazioni altrimenti impossibili da ottenere. Coleman pensa che l’informazione costituisca una base importante per l’azione, ma che la sua acquisizione sia costosa;
- le norme e le sanzioni efficaci, che sono forme di capitale sociale in quanto prescrivono comportamenti socialmente utili e inibiscono azioni egoistiche. In alcuni casi le norme «sono internalizzate; in altri sono sostenute prevalentemente da ricompense esterne per le azioni disinteressate e dalla disapprovazione per le azioni egoiste» (ivi, 399);
- le relazioni di autorità, in termini di diritti di controllo sulle azioni degli individui trasferiti ad altri individui. Coleman (ivi, 400) spiega che «se l’attore A ha trasferito i diritti di controllo su alcune azioni a un altro attore B, allora B ha a propria disposizione capitale sociale, sotto forma di questi diritti di controllo»; e poi: «se diversi attori ha.amno trasferito a B diritti del genere, B dispone di una grande quantità di capitale sociale, che può essere concentratene* in determinate attività» […].
Per capire qual è il valore del capitale sociale è posossibile anche rifarsi ad una delle definizioni più citate negli studi sunll tema, quella di Putnam:
Per capitale sociale intendiamo la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi cjrlhe migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo (1993, 196).
Il sociologo americano finisce così per far coincidere il concetto di capitale sociale con quello di virtù civica:
«la differenza è che il capitale sociale richiama l’attenzione sul fatto che la virtù civica è molto più forte se incorporata in una fitta rete di relazioni sociali reciproche» (Putnam 2004, 14).
Egli ritiene che la presenza di capitale sociale produca «risultati socialmente desiderabili», in quanto permette di risolvere più facilmente i problemi collettivi, lubrifica gli ingranaggi che consentono alle comunità di «progredire senza intoppi», aumenta la consapevolezza -che i destini degli individui sono intrecciati tra loro, consente di . far confluire in maniera più efficiente le informazioni utili per gli scopi delle azioni dei soggetti e, infine, «opera attraverso processi psicologici e biologici che migliorano la vita degli individui» (ivi, 345 ss.).
Per la creazione di capitale sociale sono di fondamentale importanza le relazioni orizzontali, che portano alla creazione e assumono la forma di reti di impegno civico, cioè associazioni di quartiere, cori, cooperative, circoli sportivi, partiti di massa, etc. Tali soggetti sono, appunto,
«l’espressione di interazioni orizzontali e costituiscono una componente essenziale del capitale sociale» (id. 1993, 204): più essi sono presenti in una comunità, più i cittadini sono spinti a collaborare a vantaggio di tutti (Rossi e Boccacin 2011).
In una prospettiva in parte simile a quella di Putnam, Fukuyama (1996, 40) ritiene che il capitale sociale costituisca
«una risorsa che nasce dal prevalere della fiducia nella società o parte di essa», sia intrinseco alla cultura, alle regole morali e alle abitudini apprese e venga trasmesso dalla religione, dalla tradizione o dalle abitudini storiche. Esso è strettamente connesso ai problemi della cooperazione e ha a che fare con la «capacità delle persone di lavorare insieme per scopi comuni in gruppi e organizzazioni» (ivi, 23). La fiducia, per questo autore, è un’«aspettativa, che nasce all’interno di una comunità, di un comportamento prevedibile, corretto e cooperativo, basato su norme comunemente condivise, da parte dei suoi membri» (ivi, 40).
Oltre all’aspetto più generale e normativo, va sottolineato che il capitale sociale è un elemento contenuto nelle strutture sociali – comunità o reti – ed è risorsa per i soggetti che ne fanno parte. L’attenzione per tale caratteristica è ben presente nelle opere di Bourdieu e Nan Lin. Il primo ritiene che il capitale sociale sia un elemento di riproduzione delle disuguaglianze sociali. Il suo valore è da rintracciare nelle «credenziali», nel «credito» che deriva, per gli individui, dall’insieme delle risorse (attuali o potenziali) «legate al possesso di una rete durevole di relazioni più o meno istituzionalizzate d’interconoscenza e d’interriconoscimento o – in altri termini – all’appartenenza a un gruppo» (Bourdieu 1986, 248-9). Tale appartenenza fornisce ad ognuno dei membri il sostegno derivante dal capitale collettivo del gruppo stesso ed è una sorta di dote, comunque un vantaggio di alcune classi rispetto ad altre. Il capitale sociale è strettamente legato ad altre due forme di capitale, quello economico e quello culturale10, perché «lo scambio di mutuo riconoscimento presuppone un minimo di oggettiva omogeneità» (ivi, 249). In tale ottica, la «quantità» di capitale sociale posseduto da un soggetto «dipende dall’estensione della rete di connessione che egli può effettivamente mobilitare e dal volume di capitale (economico, culturale e simbolico) posseduto da ognuno di quelli con cui è connesso» (ibidem). Per il sociologo francese, dunque, gli individui usano le relazioni e il prestigio dei gruppi di appartenenza.
Anche Nan Lin (2001) pone l’attenzione sul carattere strumentale del capitale sociale che è, secondo la sua elaborazione, una risorsa presente nelle relazioni sociali, ma appropriabile dai singoli individui e utile per i loro scopi. I soggetti si legano ad altri per accedere alle loro risorse e accumulano capitale sociale in funzione della qualità dei contatti che si riescono a raggiungere. L’accesso al capitale sociale dipende principalmente da tre elementi: la posizione dell’individuo nella struttura gerarchica; la natura del legame con gli altri; la collocazione del contatto nella rete11.
Il fatto che il capitale sociale costituisca una sorta di patrimonio e un potenziale di facilitazione per gli individui non vuol dire che esso sia per forza buono, di segno positivo, utile alla collettività. Può infatti succedere che la rete di relazioni e di contatti di un individuo venga usata per scopi egoistici, al limite illegali o criminali. Putnam stesso ritiene che il capitale sociale possa avere effetti sia positivi, in termini di mutuo soccorso, cooperazione, fiducia, efficacia istituzionale, sia negativi, in termini di settarismo, etnocentrismo, corruzione. Egli (2004, 20 ss.) distingue due tipi di capitale sociale: quello di tipo bonding e quello di tipo bridging. Il primo è il prodotto di relazioni che «serrano», legano, escludono. E il capitale sociale che agisce come «super-colla sociale», fa tendere all’isolamento, si limita a rafforzare vincoli comunitari esistenti, assicura reciprocità specifica e mobilita la solidarietà in gruppi omogenei al loro interno. Il secondo, al contrario, è il prodotto di relazioni che si aprono e includono. Si tratta del capitale sociale che agisce come «lubrificante sociologico», permette di «guardare all’esterno», comprende persone di diverso livello sociale, «getta ponti», è migliore per allacciarsi ai vantaggi esterni e per la diffusione delle informazioni e può generare identità e reciprocità più ampie. E importante sottolineare che per Putnam queste due categorie non sono mutuamente esclusive: si tratta solo di «dimensioni su cui è possibile paragonare le diverse forme di capitale sociale» (ivi, 22)12.
Pierre Bourdieu, Le capital social
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