Traggo dalla voce “deismo” dell’Enciclopedia Treccani e del Dizionario storico della Svizzera questa efficace presentazione della religione naturale e della versione offertane da Rousseau.
Viene chiamata deismo, in senso stretto, quella corrente di pensiero fiorita tra il Sei e il Settecento in Inghilterra, iniziata con E. Herbert of Cherbury (1581-1648), detto “il padre del deismo”, e sviluppatasi con F. Toland (1670-1722), A. Collins (1676-1727), M. Tindal (1656-1733), T. Chubb (1679-1747), H. Bolingbroke (1698-1751) e altri.
I precedenti storici di questo movimento vanno indubbiamente ricercati nella filosofia religiosa del Rinascimento italiano, specie del Campanella, alla cui dottrina si riannoda per più rispetti quella herbertiana, mentre d’altra parte, mutati molti altri termini, un certo deismo si trova nella filosofia religiosa di Hume, di Voltaire, di Rousseau, di Lessing e Leibniz, e, in fondo, dello stesso Kant.
Caratteristica del deismo in senso stretto è la contrapposizione alle religioni positive di una religione “naturale”, fondata cioè su quel conato verso l’infinito che attraversa tutta la natura, come semplice oscura tendenza alla conservazione nell’essere, e che nell’uomo diventa luminosa consapevole aspirazione alla divinità (Campanella e Herbert). Una cosiffatta religione naturale da coloro che la propugnano viene considerata per definizione “razionale”, cioè conforme alle leggi della ragione, spontaneamente insite ovvero inculcate originariamente da Dio nell’anima umana, e che il corso dei secoli, con le varie dottrine e istituzioni umane – considerate senz’altro tutte come artificiose e fallaci – ha oscurato. Quindi la posizione essenzialmente antistorica del deismo, che vagheggia la restaurazione di una religione semplicissima, da esso con significativo arbitrio storico considerata come la religione originaria, e che si riduce per la maggior parte dei deisti a un cristianesimo spogliato di tutta la ricca fioritura dogmatica e rituale, e ridotto a pochi punti ritenuti essenziali: la fede in Dio e nell’immortalità dell’anima.
Anche quelli tra i deisti che dicono di voler conservare il cristianesimo, in realtà si sforzano d’identificarlo con la loro “religione naturale”, e Campanella sostiene che il cristianesimo è la religione perfetta in quanto coincide con le leggi della ragione, e il Tindal scrive la sua opera principale per dimostrare che il cristianesimo è antico quanto la creazione. Tutti o apertamente o implicitamente guardano con occhio critico ai miracoli, alla rivelazione, ai dogmi, e perciò stesso, anche quando non giungono al panteismo del Toland e si sforzano di restare entro l’ambito se non del cattolicesimo almeno del cristianesimo, sono in realtà fuori di tutte le religioni positive. Alle caratteristiche accennate bisogna aggiungere l’elemento morale, che anch’esso trova i suoi precedenti in quel sincretismo religioso e in quella autonomia della morale rispetto alla religione che si erano venuti delineando durante il Rinascimento italiano. I deisti sono convinti che l’essenziale della religione sia non già la fede dogmatica, ma l’adesione ad alcune verità morali fondamentali in cui gli uomini di tutte le fedi possono consentire, anzi, come i deisti opinano, hanno sempre consentito.
Sebbene i suoi adepti si richiamassero spesso a John Locke e al suo cristianesimo razionale e tollerante, essi divergevano dal suo pensiero per il carattere radicale del loro discorso. Equiparati agli atei dagli apologisti cristiani, i deisti non negavano l’esistenza di Dio, ma denunciavano con fermezza le presunte incoerenze e persino l’immoralità della Sacra Scrittura, considerata tutt’al più come una congerie di contraddizioni, se non addirittura come un imbroglio sfruttato con abilità dalle autorità ecclesiastiche. Essa veniva a questo modo spogliata da qualunque carattere sacro. Eppure, nonostante il suo carattere radicale e polemico, la riflessione deista sull’Antico e sul Nuovo Testamento contribuì allo sviluppo della critica biblica, in particolare per quanto riguarda l’accertamento delle componenti giudaiche e cristiane, la storia del canone e l’interpretazione delle profezie.
In Svizzera il dibattito attorno al deismo prese avvio nel XVIII sec., anche se già nell’ultimo quarto del XVII sec. i suoi oppositori ne denunciarono i pericoli. Alla discussione contribuirono più gli apologisti (primo fra tutti Albrecht von Haller), che insorsero contro un movimento sempre più diffuso in Europa (grande fu l’influenza di Voltaire), che non i deisti medesimi, dei quali difficilmente si possono reperire le tracce nella letteratura elvetica dell’epoca, fatta eccezione per Jakob Heinrich Meister. A questo
proposito è significativo il fatto che le Lettres sur le déisme, opera apologetica pubblicata nel 1756 da Jean Salchli, all’epoca suffraganeo presso l’Acc. di Losanna, presero di mira quasi esclusivamente il deismo inglese, pur riconoscendo che questa forma di pensiero era diventata “la Religione alla moda”. Inoltre, i due autori maggiormente caratterizzati dal pensiero deista, Marie Huber e Jean-Jacques Rousseau, trascorsero buona parte della propria vita all’estero. Le Lettres sur la religion essentielle à l’homme, di Marie Huber, pubblicate anonime nel 1738 ad Amsterdam, furono ben presto considerate di stampo deista. L’opera, polemica nei confronti della teologia cristiana sia ortodossa sia illuminata, propugnava una religione naturale limitata ad alcuni articoli fondamentali e largamente ispirata alla morale, spingendosi molto più in là del cristianesimo razionale caratteristico di buona parte del protestantesimo ginevrino e svizzero dell’epoca (Ortodossia protestante, Illuminismo). Rousseau dal canto suo assunse, in particolare nella prima parte della Professione di fede del vicario savoiardo, posizioni prossime al deismo ma tendenti a una concezione meccanicistica del mondo. Le sue opinioni religiose sfuggono tuttavia a ogni classificazione in quanto il suo credo deista si coniuga con nozioni quali la bontà di Dio o la Provvidenza.
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