Raccolta di testi per esplorare la natura del mito in relazione alla costitutiva incompletezza della natura umana (Vernant; Guidorizzi) e al suo uso politico. I testi di Levi-Strauss, Barthes, Escobar sono pensati per introdurre all’uso politico del mito e del simbolico.
Jean-Pierre Vernant, Il mito greco
Non sono soltanto racconti. Contengono un tesoro di pensieri,
forme linguistiche, fantasie cosmologiche, precetti morali, ecc.
che costituiscono il patrimonio comune dei greci dell’epoca preclassica.
Jacques Roubaud
Tratto da L’Univers, les Dieux, les Hommes (1999) trad. it. L’universo, gli dei, gli uomini, Torino, Einaudi, 2000.
Secondo Lévy-Strauss, un mito (μύθος) quale che sia la sua provenienza, si riconosce per la sua differenza dal racconto storico. La differenza con la narrazione storica è così ben marcata che in Grecia la historia (ἱστορία) si è formata contro il mito, come il resoconto esatto di fatti abbastanza vicini nel tempo perché testimini affidabili avessero potuto attestarli. Il mito si presenta invece come
un racconto venuto dalla notte dei tempi e che esisteva già prima che qualsiasi narratore iniziasse a raccontarlo [J.-P. Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini. Il racconto del mito, Torino, Einaudi, p. 5].
Il mito greco è un corpus di racconti arrivato a noi solo nel momento del declino, sotto forma di testi scritti che appartengono alle opere letterarie maggiori dell’epopea, della poesia, della tragedia, della storia e persino della filosofia, nelle quali, ad eccezione dell’Iliade, dell’Odissea e della Teogonia di Esiodo, compaiono dispersi, in modo frammentario, a volte allusivo. La condizione d’esistenza del mito è infatti l’oralità che permette alla polisemicità del racconto di svilupparsi e prendere forma in infinite variazioni ad ogni narrazione. Il racconto mitico presenta sempre varianti, versioni multiple.
Giulio Guidorizzi, Il mito
Tratto da Letteratura greca – L’età arcaica, Einaudi, Torino 1996, pp. 36-37.
Il mito non è un ornamento poetico (come diventerà in fasi successive della letteratura europea), ma, un elemento sostanziale per il funzionamento di una società tradizionale. In una società come quella greca di un’epoca arcaica, e come sono in generale le culture tribali, il mito contiene e trasmette il patrimonio di idee, tradizioni, istituzioni sociali e religiose, genealogie che costituiscono la cultura, nel senso lato del termine, di un popolo illetterato. Esso si può definire un «racconto tradizionale» trasmesso, in origine; oralmente (mito= “parola”, “racconto”). Un mito non è dunque inventato da un singolo poeta: questi lo trova già pronto nella memoria collettiva del suo popolo e lo impiega nel corpo della sua opera; ma poiché un mito prende forma solo quando viene raccontato e può essere raccontato ogni volta in modo diverso, ne deriva un labirinto di varianti che danno forme differenti allo stesso racconto.
Solitamente un mito narra un evento che si pensa accaduto in un lontano passato e compiuto da personaggi che assumono agli occhi dell’uditorio una statura più che umana (dèi, eroi); tuttavia, questo racconto non è considerato leggendario ma reale, anche se di una realtà diversa da quella quotidiana. In una civiltà illetterata il patrimonio dei miti funge infatti da serbatoio di sapienza e contribuisce a conservare l’identità di un popolo, attraverso racconti in cui ciascuno si riconosce e si identifica. Ad esempio, trasmette la storia sacra (ossia i racconti sulla nascita e le vicende degli dèi); motiva le origini di una scoperta o di un rituale (come il mito di Prometeo che spiega l’origine del fuoco; in questi casi si parla di mito «eziologico», vale a dire che spiega l’aitia, “causa”); più generalmente, il mito propone modelli di comportamento ai quali attenersi e trasmette il sistema di valori morali della civiltà. Pertanto, penetrare nel mondo mitico di un popolo tribale significa penetrare sino al cuore della sua civiltà.
Il mito è anche un modo di pensare: è frutto di un pensiero che si sviluppa non attraverso schemi logici e astratti ma per immagini. Si è detto, e la psicoanalisi l’ha ampiamente dimostrato – che il pensiero mitico non è caratteristico solo di una civiltà arcaica, ma sussiste in ogni individuo come schema profondo della mente. Il sogno, ad esempio, è un fenomeno che dimostra quanto stretto sia il legame tra la vita inconscia e l’attività mitica della psiche, poiché utilizza gli stessi elementi costitutivi del mito (i simboli, i rituali, le metafore), e lavora con lo stesso linguaggio visivo e immaginario (da cui la definizione secondo cui
il mito è il pensiero sognante di un popolo, mentre il sogno è il mito personale dell’individuo.
È soprattutto il pensiero di Carl Gustav Jung a collegare il sogno e il mito a una comune origine di archetipi simbolici che costituirebbero i modelli più profondi e universali della psiche umana; ma il legame tra sogno e mito è analizzato da tutte le scuole psicoanalitiche contemporanee, a partire da Freud. Questo non significa però che il mito sia un tipo primitivo di pensiero e che il pensiero mitico sia proprio di popolazioni che ancora non hanno imparato a ragionare in termini logici. Piuttosto, il pensiero mitico è complementare a quello logico-razionale che in una società illetterata viene attivato per rispondere a determinate necessità (appunto, quella di conservarne la cultura).
In un certo senso, si potrebbe dire che il mito è una specie di «filosofia primitiva». La cultura greca presenta, in effetti, uno sviluppo dal pensiero mitico a una prima elaborazione di carattere logico-filosofico: già nell’età arcaica si cominciava a dubitare della verità dei miti e a cercarne un’interpretazione razionale. Alcuni pensavano che i racconti sugli dèi fossero soltanto allegorie delle forze naturali, come il sole o il fuoco (così nel secolo VI a.C. Teagene di Reggio interpretava i miti omerici).
Esercitazione
1. Rileggi i testi di Vernant e Guidorizzi e individua le parole chiave, dandone una definizione sintetica;
2. Individua le tesi difese dagli autori sul mito e indica le argomentazioni a loro sostegno.
[Parte per il terzo liceo]
Claude Lévi-Strauss, Mito e significato
trad. it. Il Saggiatore, 2002, pp. 29-31.
La forma di pensiero dei popoli che definiamo, abitualmente ed erroneamente, « primitivi » — meglio sarebbe chiamarli popoli “privi di scrittura”, perché a mio parere è questo il vero fattore di discriminazione fra loro e noi — è stata interpretata in due modi diversi, secondo me egualmente sbagliati. Da un lato si è ritenuto che questa forma di pensiero fosse di qualità in certo senso più rozza, e il primo esempio che viene in mente a questo proposito nell’antropologia contemporanea è l’opera di Malinowski.
Chiarisco subito che ho il massimo rispetto per questo autore, lo considero un grandissimo antropologo e non sto affatto denigrando il suo contributo. Tuttavia Malinowski era convinto che il pensiero dei popoli da lui studiati, e in generale il pensiero di tutte le popolazioni prive di scrittura che costituiscono l’oggetto-principale dell’antropologia, fosse interamente condizionato dai bisogni primari dell’esistenza. Se sappiamo che un popolo, qualunque esso sia, è condizionato dalle nude necessità vitali — procurarsi i mezzi di sussistenza, soddisfare gli impulsi sessuali, eccetera -, possiamo anche spiegare le sue istituzioni sociali, le sue credenze, la sua mitologia e così via. Questa diffusissima concezione antropologica va generalmente sotto il nome di funzionalismo.
L’altra interpretazione afferma non tanto l’inferiorità di quel tipo di pensiero, quanto piuttosto la sua radicale diversità rispetto al nostro. Questa posizione è esemplificata dai lavori di Lévi-Bruhl, secondo il quale la fondamentale differenza tra il pensiero “primitivo” – metto sempre la parola « primitivo » fra virgolette – e quello moderno consiste nel fatto che il primo è completamente dominato dalle emozioni e dalle rappresentazioni mistiche. Quella di Malinowski è una concezione utilitaristica, questa è una concezione emozionale o affettiva; quanto a me ho cercato di sottolinere come in realtà il pensiero dei popoli primitivi sia, o possa essere in molti casi, disinteressato, – e questa è la differenza rispetto a Malinowski — e, dall’altra parte, intellettuale — è questa la differenza da Lévi Bruhl.
In Il totemismo oggi e in Il pensiero selvaggio, per esempio, ho cercato di mostrare come questi popoli, che siamo soliti considerare completamente asserviti alle necessità di non morire di fame e di mantenersi robusti solo per sopravvivere in condizioni materiali durissime, siano perfettamente capaci di pensiero disinteressato, siano cioè mossi dal bisogno o dal desiderio di capire il mondo intorno a loro, la natura e la società. Dall’altra parte, per raggiungere questo scopo, essi impiegano strumenti intellettuali, proprio come farebbero un filosofo e anche, in certa misura, uno scienziato.
Questa è la mia ipotesi di fondo.
Vorrei ora sgombrare il campo da un equivoco. Dire che un pensiero è disinteressato e di tipo intellettuale non significa dire che esso sia eguale al pensiero scientifico. È chiaro che in un certo senso ne è diverso, e in un altro senso gli è inferiore. È diverso perché il suo scopo è raggiungere, con mezzi il più scarsi possibile una comprensione generale dell’universo – e una comprensione non solo generale, ma anche totale. È cioè implicito in questo pensiero che, se non si comprende tutto, non si può spiegare niente. Ciò è in completa contraddizione con quanto fa il pensiero scientifico, che procede per gradi cercando di spiegare fenomeni molto limitati per poi passare a fenomeni d’altro tipo, e così via. Come diceva già Descartes, il pensiero scientifico mira a dividere il problema in tante parti, quant’è necessario perché esso venga risolto.
L’ambizione totalitaria della mente primitiva differisce quindi radicalmente dalle procedure del pensiero scientifico. Questa netta differenza consiste evidentemente nel fatto che tale ambizione non si realizza. Attraverso il pensiero scientifico possiamo acquisire una padronanza sulla natura — non mi soffermo su questo punto, che è abbastanza ovvio – mentre è chiaro che il mito non riesce a dare all’uomo un maggior potere materiale sull’ambiente. Gli dà invece – e ciò è molto importante – l’illusione di poter comprendere l’universo, e di comprenderlo naturalmente, effettivamente.
Esercitazione
1. Rileggi il testo ed individua le parole chiave, dandone una definizione sintetica;
2. Individua la tesi difesa dall’autore sul mito, indicando le argomentazioni a loro sostegno.
Roberto Escobar, La funzione politica del mito
«Non ho ancora vissuto al mondo un istante senza essere contenuto in questo o quel mito.
Tutto ha avuto sempre senso, anche la disperazione».
Elias Canetti, La provincia dell’uomo, Adelphi, 1987
Se qualcuno, ancora tentato di attribuire solo agli Altri la debolezza del pensiero simbolico, si chiedesse
in quale dimensione Noi abbiamo esperienza di storie narrate che valgono come modelli d’azione,
basterebbe suggerirgli di scrutare nell’ovvio che ci circonda e dentro il quale viviamo e pensiamo:
mai nessuno prima di noi ha conosciuto una trama di narrazioni e rinarrazioni
come quella tessuta dalla televisione, nostro aedo quotidiano.
Roberto Escobar, Metamorfosi della paura, Il Mulino, 1997
La verità, secondo Nietzsche, è un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete.
È qui che si pongono le condizioni di possibilità della “ragnatela”, e che se ne intuisce il senso funzionale. Riducendo entro la sua misura la capacità di fingere e di far la commedia, l’uomo si mette al sicuro da se stesso: al pericolo d’esser travolto dalle impressioni d’un istante oppone il controllo e la durata delle astrazioni; al caos immediato delle sensazioni sostituisce concetti mediati e depotenziati, per aggiogare a essi il carro della sua vita e delle sue passioni. Le metafore “impoverite”, ridotte a parole, concetti, verità, diventano schemi o programmi d’azione, modelli di comportamento e di stabilizzazione che rendono possibile qualcosa che non potrebbe mai riuscire sotto il dominio delle prime impressioni intuitive: costruire un ordine piramidale, suddiviso secondo caste e gradi, creare un nuovo mondo di leggi, di privilegi, di subordinazioni, di delimitazioni, che si contrapponga ormai all’altro mondo intuitivo delle prime impressioni come qualcosa di più solido, di più generale, di più noto, di più umano, e quindi come elemento regolatore e imperativo.
Residui di metafore, riflessi depotenziati di stimoli nervosi, ombre di “cose” evitate e aggirate: di questa materia è fatta la ragnatela di significati, il cielo concettuale che ogni popolo immagina e crea sopra di sé, per farsi guidare da dèi che esso stesso vi ha posto. […] Una ragnatela, in qualche modo, è anche il complesso ‘dei «fili che costituiscono […] l’aggrovigliata trama della umana esperienza», di cui scrive Ernst Cassirer [Saggio sull’uomo]. Mentre negli altri animali c’è connessione diretta tra il sistema recettivo, che trasmette gli stimoli esterni, e il sistema reattivo che consente di dare ad essi una risposta adeguata, nell’uomo, tra i due sistemi interviene la mediazione di un terzo: il sistema simbolico. Linguaggio, mito, arte, religione, sono la risposta umana, e appunto simbolica, agli stimoli che provengono dall’ambiente: una risposta che non è più diretta e immediata, ma invece artificialmente e culturalmente “allontanata” e “mediata” [cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche]
Da tale rovesciamento dell’ordine naturale non c’è ritorno: per continuare a esistere, l’uomo deve restare per così dire a colloquio con se stesso, con le parole, le immagini, i miti e i riti che egli stesso ha creato e che, dallo spazio della sua esperienza, hanno tratto un universo simbolico. Esiliatosi dalle “cose”, non vive in un mondo di puri fatti secondo i suoi bisogni e i suoi desideri più immediati. Vive, piuttosto, fra emozioni suscitate dall’immaginazione, fra paure e speranze, fra illusioni e disillusioni, fra fantasie e sogni. Paure, speranze, illusioni, disillusioni, fantasie, sogni: è di questa materia la ragnatela tessuta dall’animal symbolicum, come Cassirer chiama l’uomo? In ogni caso, la coerenza dei suoi fili fa del non-umano un mondo, rendendo abitabile l’inabitabile.
La ragnatela, ancora, è la metafora – un simbolo anch’essa – usata da Geertz [Interpretazioni di culture] per descrivere un animale che, essendo carente di modelli innati o istintivi di comportamento, ha bisogno di «fonti simboliche di illuminazione». Ossia, di modelli culturali che stabiliscano profondi, diffusi, e durevoli stati d’animo e motivazioni per mezzo della formulazione di concetti d’un ordine generale dell’esistenza. Essi sono fonti d’informazione come i geni. Solo che, diversamente dai geni – che nell’uomo tacciono – sono fonti
di informazione estrinseche nei cui termini si può plasmare la vita umana: meccanismi extrapersonali per la percezione, la comprensione, il giudizio e la manipolazione del mondo. I modelli culturali – religiosi, filosofici,*, estetici, scientifici, ideologici – sono «programmi»: essi forniscono un calco o uno schema per l’organizzazione di processi sociali e psicologici, proprio come i sistemi genetici forniscono uno schema simile per l’organizzazione dei processi organici […] Ibidem.
La cultura è dunque l’insieme o il sistema di tali modelli, cioè di strutture di significato socialmente stabilite e ininterrottamente interpretate e modificate. Poiché i modelli, a loro volta, sono sistemi di simboli, la cultura è un sistema di sistemi, una complessità o una “ragnatela” di significati, e il pensiero consiste in un traffico di simboli significanti:
oggetti che si trovano nell’esperienza (rituali e strumenti; idoli intagliati e pozze d’acqua; gesti, segni, immagini e suoni) sui quali gli uomini hanno impresso i loro significati […] Ibid.
Quest’imprimere segni e significati, questo “scrivere” nello spazio materiale e psicologico per differenziarlo, classificarlo, organizzarlo e modificarlo, è l’attività propria dell’animal symbolicum quella per cui egli trova un mondo pur dentro il deserto, sfuggendo al caos.
Per simbolo – così suona la prima parte della nostra definizione di lavoro, più interessata all’utile che al vero – s’intende dunque un oggetto, un atto, un avvenimento, una qualità o un rapporto che serva da veicolo per un concetto. O anche: una “cosa” che, significando quel che non è, significhi qualcosa a qualcuno, ma – ecco la seconda parte della definizione – solo in quanto sia inserita in un sistema di significati. I significati infatti non sono nei simboli, ma negli uomini, anzi nei gruppi. Il loro habitat è il cortile, il mercato, la piazza. Come sistema, essi esprimono in forma concentrata e abbreviata un punto di vista generale e sociale sull’esistenza e sul mondo.
Symbolon/diabolon
Se l’uomo è una macchina per fare dèi, è anche vero, e anzi è soprattutto vero che gli dèi sono macchine e artifici per fare dell’uomo un essere sociale, securizzato dall’ordine e nell’ordine, non più costretto a interrogarsi sui confini del mondo, sul valore e sulla legittimità delle regole. Protetto dalla e nella rigida regolarità di un sistema di metafore di cui ha dimenticato la natura illusoria, può misurare e suddividere il cielo che gli sta sopra: in ogni casella un dio, per ogni dio un principio, un criterio, una decisione resa possibile.
D’un simbolo e a maggior ragione d’un sistema simbolico, perciò, più che uno specifico significato o uno specifico sistema di significati conta la funzione: quella di creare l’unità nel molteplice che, per Cassirer, si trova al fondo della religione e del mito, della scienza e dell’arte; quella d’operare come il sistema delle analogie che, secondo Mary Douglas [Come pensano le istituzioni], legittimano e fondano l’istituzione e l’ordine sociale; quella d’essere un insieme di “fonti d’illuminazione” che consenta ai gruppi, e ai singoli in essi, di trovare la loro strada nel mondo, come scrive Geertz.
Il simbolico è dunque unità, convergenza: riduzione all’unità, costruzione d’una convergenza. Il contrario di symbolon, unione, è diabolon, scissione. L’alternativa al simbolico è il diabolico? O sono, il simbolico e il diabolico, le due facce della stessa realtà, come il dentro e il fuori, l’ordine e il disordine?
Chiacchiera e racconto, il potere di rassicurazione delle forme dossastiche
Là dove si chiacchiera il mondo già mi si stende davanti come un giardino
Dolce è che vi siano parole e suoni: non sono forse e suoni, arcobaleni e parvenze di ponti tra ciò che è separato dall’eternità?
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zaratustra
Narrare significa costruire il senso, ricondurre l’arbitrario al necessario, stendere ponti di parole sopra abissi in-significanti. Attorno al fuoco, fulcro sociale dei cacciatori di Cro-Magnon, o durante i banchetti dei re della Grecia arcaica, o ancora nel comando del capo, la cui parola sta all’origine delle cose, la narrazione intreccia metafore, percorsi, modelli dell’essere. Qual è il nome di questo narrare se non mito?
Roberto Escobar, Metamorfosi della paura
Il mito compie un lavoro d’abbattimento dell’assolutismo della realtà, che è lo stesso processo d’esonero gehleniano. Le sue storie – il cui nucleo tende a stabilizzarsi, nonostante una variabilità marginale marcata, vengono raccontate e tramandate «per scacciare qualcosa, il senso di precarietà dello scorrere del tempo innanzitutto e poi la paura che viene dal non sapere e dalla «mancanza di familiarità» con il mondo. Esse depotenziano l’assolutismo della realtà, distribuendone la violenza cieca in una molteplicità di forze in rapporto o in conflitto tra loro dall’inizio dei tempi (rapporto e conflitto sono il tema del racconto, appunto). Il vantaggio è che la precarietà e l’imprevedibilità del mondo e della vita nella narrazione diventano necessità, princìpi riconoscibili, riconducibili a qualcosa noto, codificato, regolato.
Le narrazioni mitiche costituiscono dunque la trama di quella ragnatela che gli uomini sovrappongono al divenire disordinato e “coinvolgente” dell’esperienza. Nel loro insieme, queste narrazioni tendono a produrre nella tradizione una dimensione affrancata dall’angoscia, ossia un mondo di storie che localizza la posizione dell’ascoltatore nel tempo in modo tale che il repertorio del mostruoso e dell’insopportabile decresce quanto più ci si avvicina a questa posizione.
Roland Barthes, Il mito, oggi
Tratto da Mythologies (1956), trad. it Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1994 [qui l’approfondimento di una rivista inglese].
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