Contemporaneamente alla fioritura della filosofia greca (Socrate, Platone) e indiana (Siddhartha Gautama, il Buddha), il VI° e V° secolo vede attivi in Cina Confucio (Kung Fuzí), fondatore del Ru Jia, la scuola dei letterati, Mòzî (Mo Tzu), caposcuola del moismo (Mo Chia), e Zhuāngzǐ (Chuang Tzu), il principale prosecutore della scuola daoista nata con Laozí (Lao Tzu).
A questa prima fase segue il cosiddetto periodo delle “cento scuole”, un’epoca di impressionante vivacità intellettuale che vede nascere, oltre alla scuola dello yin-yang – il cui testo fondamentale, l’I-Ching o Libro dei mutamenti, è da datare però al secondo o addirittura al terzo millennio a. C. -, la speculazione di Mencio (Mengzí), caposcuola dell’indirizzo spiritualista del Ru Jia, di Xunzí (Hsun Tzu), autore de L’arte della guerra ed espressione dell’opposta corrente materialista della scuola confuciana, e di Han Feizí, iniziatore del pensiero autoritario dei legisti (Fa Jia).
Indice
1. Confucio e il Ru Jia
2. Laozí e il Dao Jia
3. Han Feizí e i legisti (Fa Jia)
1. Confucio e il Ru Jia
Tutte le cose sono complete dentro di noi. Non c’è maggiore delizia che comprendere questo mediante l’educazione di se stessi.
Mencio (Mengzí) , VII, 1
Il maestro Kung (Khung Fu Tzu, latinizzato in Confucio), come fu sempre chiamato Khung Chhiu, era nato nel -552 (VI° a. C.) nel piccolo stato di Lu nell’odierno Shandong.
Più che un pensatore originale, Confucio fu, in primo luogo, un maestro di morale, interessato a sviluppare un codice etico capace di migliorare la vita associata degli uomini. Il tema centrale del suo insegnamento è stato infatti quello del completo sviluppo della personalità e dell’armonizzazione dei rapporti umani finalizzato al conseguimento del bene comune.
L’uno e l’altra si fondano per Confucio sulla realizzazione del jen, o sensibilità umana, e del yi, la rettitudine, concetti considerati dal Ru Chia come la meta principale della condotta di un uomo pienamente tale. Il yi, la rettitudine, corrisponde al “tu devi” kantiano; è un imperativo categorico che obbliga l’individuo a tenere un certo comportamento. Se si tenesse conto del solo yi, la morale confuciana sarebbe quindi assolutamente formalistica, ma lo jen, la sensibilità umana, arrichisce di contenuto l’obbligazione morale degli individui: l’essenza morale della doverosità confuciana consiste infatti nell’amare genuinamente gli altri, qualcosa che secondo Mencio è assolutamente intrinseco alla natura umana: tutti gli uomini, infatti, hanno un animo sensibile, ovvero, «un animo siffatto che non può sopportare di veder soffrire gli altri» (Mengzí, II°, 6). Sviluppare completamente la propria umanità significa così conoscere la propria natura, cioè «conoscere il cielo», visto che la natura umana partecipa della legge immanente di tutte le cose.
E’ stato notato già da Matteo Ricci, lo studioso gesuita che nel 1582 si recò per primo alla corte dell’imperatore Wonli, che il principio del jen non differisce significativamente dal precetto evangelico della fraternità e dell’amore per il prossimo. Dice infatti Mencio:
Io devo trattare i vecchi della mia famiglia come devono essere trattati ed estendere questo trattamento ai vecchi delle famiglie degli altri; devo trattare i giovani della mia famiglia come devono essere trattati ed estendere questo trattamento ai giovani delle famiglie altrui.
Così il yi, per Confucio, completa la sensibilità umana:
L’uomo di nobile sentire comprende la rettitudine, laddove l’uomo di basso sentire comprende il profitto.
E’ importante notare che con Confucio il termine junzí cessa di indicare la nobiltà ereditata, vale a dire la condizione aristocratica, per significare la «persona esemplare», cioè l’«individuo superiore» distinto dagli altri per la superiorità etica acquisita attraverso l’istruzione e la cultura – nel pensiero greco si può trovare l’equivalente nell’areté sosfista
Secondo Confucio, per avere una società armonica occorre portare a compimento la “rettifica dei nomi”, cioè lo sforzo di far concordare le cose con il nome che è stato loro attribuito. Ogni nome contiene infatti certe implicazioni – particolarmente nella cultura cinese nella quale ogni carattere (hanzì, carattere han) incorpora strati di sedimenti simbolici – che rappresentano l’essenza della classe di cose alle quali il nome in questione si applica. Tali cose, pertanto, dovrebbero corrispondere alla loro essenza ideale. Secondo Confucio, quindi, le cose sono intrecciate in relazioni naturali tra loro e comportano pertanto certe responsabilità e certi doveri. Le relazioni fondamentali sono cinque: padre/figlio, governante/suddito, marito/moglie; fratello maggiore/fratello minore, amico/amico e chi porta il nome di una di queste relazioni deve agire conformemente alle responsabilità che quel nome comporta.
Proprio per questa insistenza sulla natura originaria delle relazioni sociali, la filosofia confuciana è improntata a una visione organicistica e gerarchica della società che si ispirava al modello prefeudale dell’antico impero Zhou (si legga Chou) di cui il maestro voleva restaurare gli antichi valori. Una resistenza ancor maggiore alla differenziazione sociale introdotta dal regime feudale sarà espressa con forza ancor maggiore, come vedremo, anche nella visione antagonista di Laozí. Di questi valori incorporati nella tradizione, Confucio parla come del ta-tung, la Grande Pace che esemplifica perfettamente il suo ideale di correttezza umana e giustizia sociale:
Quando fu realizzato il grande dao, il mondo era uno stato comune, i governanti venivano eletti secondo la loro saggezza e la loro abilità, e prevalevano la fiducia reciproca e la pace. Perciò gli uomini non consideravano come genitori solo i loro genitori, né solo i loro figli come figli. I vecchi erano posti in grado di godere la vecchiaia, i giovani erano posti in grado di esplicare le loro capacità; i più giovani erano assistiti dai più anziani, e le vedove, gli orfani, gli storpi e i deformi privi d’aiuto trovavano chi se ne curava. Gli uomini avevano le occupazioni a loro adatte e le donne avevano le loro case. Se la gente non desiderava vedere le ricchezze inutilizzate, non doveva tenerle solo per sé e se aveva energia per lavorare, non doveva lavorare per il proprio profitto. Pertanto non vi erano banditi né ladroni, né astuzie né intrighi, e il risultato era che (di notte) non vi era bisogno di chiudere la porta della propria casa. Questo era il periodo del ta-tung, ossia la grande comunità.
In modo opposto alla visione sviluppata successivamente da Han Feizí e dai legisti (vedi paragrafo dedicato), Confucio difese l’idea che l’ordine sociale è instaurato dalla virtù del sovrano e che le leggi vi giocano un ruolo minore. Le pene e le sanzioni infatti sono il rimedio estremo e temporaneo alla mancanza di educazione e all’imperfetta assimilazione popolare della civiltà.
Guida il popolo con le leggi, controllandolo e regolandolo con la sferza dei castighi, e il popolo cercherà di non farsi mettere in prigione ma non avrà il senso dell’onore e del pudore. Guida il popolo mediante la virtù controllandolo e regolandolo con il lí (autodisciplina) e il popolo avrà il senso dell’onore e della riflessione.
Alla morte di Confucio (479 a. C.) il Ru chia si divise in numerose correnti ciascuna delle quali tendeva a sottolineare alcuni aspetti dell’insegnamento del maestro. La sua dottrina venne sviluppata in particolare da Mencio (Mengzí, 371-289 a.C.) e Xunzí (Hsun Tzu).
Alla base della dottrina di Mencio c’è la concezione dell’originaria bontà umana, cioè della naturale socievolezza e mitezza dell’uomo, e quella del Mandato Celeste che stabiliva, da un lato, la necessità di un saggio sovrano capace di dare unità alla vita sociale, ma anche la perdita del suo diritto a governare nel caso fosse venuto meno ai propri doveri.
Mencio assunse il popolo come misura di ogni cosa e sostenne la natura non divina ma meramente funzionale della monarchia. Sulla base di tale concezione affermò che «la rivoluzione può essere pienamente giustificata in caso di grave malgoverno e di oppressione politica» – si noterà che per arrivare a tale concezione, in Occidente si deve attendere il ‘500 con le prime elaborazioni dei calvinisti francesi. Secondo Mencio, il sovrano è responsabile delle condizioni del popolo, tanto più che la sua politica economica e fiscale influenza non soltanto a base materiale della vita del popolo, ma anche quella spirituale. Il filosofo riteneva infatti che solo dopo aver ottenuto la sicurezza materiale il popolo avrebbe potuto essere guidato al progresso morale.
Non per questo la filosofia di Mencio fu egualitaria: nella sua visione politica, al sovrano e agli intellettuali spettavano posti di comando e privilegi, mentre ai lavoratori manuali l’obbligo di mantenere i propri capi; ma anche sul piano morale, l’espressione della benevolenza, concetto cardinale del Ru chia, rimase sempre legata allo status del destinatario.
Diversamente da Mencio, per Xunzí la natura umana è malvagia e solo l’opera della civiltà, attraverso l’educazione, i riti (vale a dire il li, i costumi interiorizzati) e le leggi, ha il potere di riplasmarla. I desideri naturali, origine del comportamento malvagio, potevano essere controllati solo dalla morale che risultava così il diretto risultato dell’organizzazione sociale. Come si è visto, infatti, il punto d’appoggio della morale confuciana è il senso di vergogna, cioè l’interiorizzazione del comando e la sua sanzione sociale, mentre nessun valore etico è attribuito alle leggi come tali. Se il popolo è guidato da un sovrano virtuoso, quindi, evolverà verso una condizione umana superiore, mentre leggi e sanzioni avranno un effetto momentaneo ed esteriore e saranno efficaci solo con i «barbari», cioè i popoli meno evoluti e gli uomini non ancora giunti allo stato di junzí.
2. Laozí e il Dao Jia
Chao-chu chiese: «Che cos’è il Dao?»
Il maestro (Nan-Chuan) rispose: «La tua coscienza abituale è il Dao»
«Come si può tornare in accordo con esso?»
«Volendo essere d’accordo tu devii immediatamente»
«Ma senza intenzione, come si fa a conoscere il Dao?»
«Il Dao» – disse il maestro – «non appartiene né al conoscere né al non conoscere. Il conoscere è una falsa comprensione; il non conoscere è cieca ignoranza. Se tu veramente comprendi il Dao al di là del dubbio ciò è come il cielo vuoto. Perché trascinarsi tra il giusto e lo sbagliato?».
Wu-men Kuan – Raccolta di koan Zen (o Chan)
Il fondatore del Dao Chia, il taoismo, fu Laozí (Lao Tzu), maestro di cui si ignora quasi tutto, incluso il nome che significa infatti semplicemente «vecchio ragazzo», in ossequio alla leggenda che lo vuole nato con i capelli bianchi. Si ritiene comunque che Li Erh o Lao Tan, come si pensa si chiamasse il personaggio storico, sia nato nello stato di Henan nel VI° secolo a.C..e sia stato di poco più vecchio di Confucio che andò a trovarlo nel 517 a.C.. Di ciò che Laozí avrebbe detto al suo ospite, riferisce lo storico cinese Ssu-ma Chien (145-79 d. C.):
Li (Laozí) disse a K’ung (Confucio): Gli uomini dei quali tu parli sono morti, e le loro ossa si sono trasformate in polvere; sono soltanto le loro parole che sono rimaste. Inoltre, quando l’uomo superiore ne ha opportunità, egli sale in alto; ma quando il tempo gli è contrario, egli viene portato via dalla forza delle circostanze […]. Metti via la tua aria fiera e i molti desideri […] essi non ti sono di alcun vantaggio; – questo è tutto quello che io ho da dirti.
Dopo l’incontro Confucio avrebbe detto:
Io so come gli uccelli possano volare, i pesci nuotare, gli animali correre. Ma quel che corre può essere preso in trappola, quel che nuota può essere preso all’amo, quel che vola può essere colpito da una freccia. Ma qui c’è il drago. Io non posso dire come egli cavalchi il vento per mezzo delle nubi, e raggiunga il cielo. Oggi io ho visto Laozí, e posso solo paragonarlo al drago.
Secondo Su-ma Chien, sarebbe stato Laozí, il vecchio conservatore della biblioteca reale di Lo-yang, a comporre il Dao Dé Ching, il Libro della Via e della Virtù, quando, allontanandosi dalla corte sdegnato della sua corruzione, venne fermato dal guardiano del valico, Yin Hsi, che gli chiese di lasciare le sue parole per iscritto. Il testo giunto fino a noi ha poi subito alcuni rimaneggiamenti attribuiti dagli storici al periodo degli stati combattenti (403 – 256 a. C.).
Laozí predica il rifiuto di ogni forma di cristallizzazione dello spirito e il richiamo ad una purezza filosofica della mente intesa come capacità di conformarsi alla legge immanente della natura, il Dao. La dottrina daoista del wu-wei indica appunto l’azione conforme al corso spontaneo dell’essere, di cui Alan Watts indica la metafora nello scorrevole fluire dell’acqua, elemento passivo che tutto nutre e nulla si appropria; il più potente e il più in basso di tutti.
Proprio per la loro adesione a una dottrina che prescriveva la conformità ad una legge generale dell’universo, i taoisti furono critici implacabili dei confuciani che ricercavano incarichi ufficiali presso le corti feudali, mentre essi si ritiravano nella solitudine delle montagne, convinti com’erano dell’impossibilità di ricondurre all’ordine la società umana (siamo nel periodo degli stati combattenti, equivalente al feudalesimo occidentale) senza prima aver attinto una conoscenza superiore della natura.
I taoisti attaccavano, perciò, il “sapere”, ma si trattava appunto del sapere della scolastica confuciana, strettamente intrecciato ai riti e alle convenzioni della società feudale che i taoisti rifiutavano radicalmente (cfr. J. Needham, Scienza e civiltà in Cina, II, p. 42). Secondo i taoisti, infatti, il moralismo edificante del Ru Chia e l’autoritarismo tirannico dei legisti (Fa Chia), apparentemente in conflitto, erano in realtà due aspetti complementari della trasformazione feudale, gerarchica e ineguale, della società cinese tra l’unificazione e la dissoluzione dell’impero.
Taglia via la saggezza, getta via il sapere: il profitto del popolo sarà centuplicato.
Taglia via l’umanità, taglia via la giustizia: il popolo tornerà alla pietà filiale.
Taglia via l’abilità, getta via il profitto: non ci saranno più ladri né banditi.
Per queste tre cose la cultura non è sufficiente.
Abbi quindi qualcosa su cui fare affidamento.
Mostrati naturale, abbraccia la semplicità.
Abbi pochi interessi personali e pochi desideri.
Con lo studio ogni giorno si aumenta.
Con la via ogni giorno si diminuisce.
Si diminuisce sempre più, finché si arriva al non-fare.
Contro i confuciani, il Dao Dé Ching sostiene quindi che le regole e gli insegnamenti edificanti non hanno il potere di rendere buono l’uomo, perché finché esisteranno le regole ci sarà obbedienza e trasgressione, mai giustizia. Laozí propone di superare questo stato di malvagità per arrivare allo stadio etico dove si è giusti, senza leggi.
Alla concezione gerarchica di un governo dall’alto propria di confuciani e legisti il Dao Chia opponeva perciò l’autogoverno, il governo dall’interno.
Come si conquistarono i grandi fiumi e i mari la sovranità sui cento corsi d’acqua minori?
Con il merito di essere al di sotto di quelli, ecco come di conquistarono la sovranità.
Perciò il saggio, per sovrastare il popolo
Deve parlare come se gli fosse al di sotto,
Per governarlo
Deve porglisi di dietro.
Così quando sta sopra, il popolo non ha fardello,
Quando è alla testa, esso non sente danno.
Così ogni cosa sotto il cielo è contenta d’esser da lui guidata
E non trova la sua guida tediosa.
Il saggio non entra in competizione
E quindi nessuno compete con lui.
Needham fa notare in proposiito che
«era inevitabile che – i daoisti – fossero in opposizione alla società feudale, poiché l’arrendevolezza di cui erano convinti assertori era incompatibile con quel tipo di società; era un principio cucito su una società cooperativo-collettivistica della quale era veramente l’espressione poetica. Una simile società era esistita un tempo, nel primitivo collettivismo dei villaggi, anteriormente alla completa differenziazione in signori, preti e guerrieri determinatasi col proto-feudalesimo dell’età del bronzo; ne era forse rimasto qualche sprazzo ai margini della cultura cinese nei secoli immediatamente precedenti la nascita del pensiero daoista; e doveva tornare a esistere (benché i doaisti non potessero sapere che sarebbero passati millenni prima che l’umanità tornasse ai loro ideali). J. Needham, op.cit., pp. 71-72.
Riflettendo sulla tesi del rigetto daoista dell’organizzazione sociale feudale, Needham cita le ricerche antropologiche di Marcel Granet il quale sostiene che l’usanza del potlatch fu certamente di grande importanza per la società cinese antica:
«Secondo tale usanza, tutt’ora esistente presso alcune comunità tribali, il prestigio di un uomo di comando è direttamente proporzionale alla quantità di cibo o d’altre derrate che egli è in grado di distribuire complessivamente alla comunità in occasione di festività periodiche o stagionali».
In Cina, dunque, come in molte altre società tradizionali, il prestigio sociale, la “faccia” sono il risultato della rinuncia e dell’arrendevolezza: un tratto che secondo Needham divenne dominante nella cultura cinese e toccò le più alte vette espressive nei testi daoisti.
Contro l’ingenuità o la malafede dei cortigiani confuciani, accusati di sostenere la corruzione strutturale del regime feudale, Zhuāngzǐ scrive parole inequivocabili:
Non dimostrano coloro che volgarmente sono chiamati saggi, di non essere che dei grandi ladri? E non dimostrano dunque colore che sono considerati saggi di essere che i curatori degli interessi dei grandi ladri? […] Ecco uno che ruba una fbbia (per la sua cintura) egli è messo a morte per questo. Eccone un altro che ruba uno stato, egli ne diviene il principe. Ed è alle porte di principi che troviamo la benevolenza e la rettitudine (più vivamente professate), non è questo rubare benevolenza e rettitudine, saggezza e prudenza? Perciò essi incitano a diventare grandi ladri, a portar via i principati con la forza e a rubare benevolenza e rettitudine, con tutti i vantaggi derivanti dall’impiego degli stai, dei pesi, delle bilance, delle stadere, delle taglie dei sigilli […] Quindi, se si ponesse una fine alla «saggezza» e alla «prudenza» i grandi ladri cesserebbero di nascere […]. Zhuangzí, 10.
Si comprende a questo punto, il significato del cap. 18 del Dao Dé Ching (secondo Needham sistematicamente equivocato, come l’intero Dao Dé Ching, dai commentatori occidentali):
Fu quando il Grande Dao decadde
che «benevolenza» e «rettitudine» comparvero;
Fu quando sapere e saggezza apparvero
Che la Grande Menzogna ebbe inizio.
Non prima che i sei congiunti avessero perso la loro concordia
Si parlò di «pietà filiale»,
Non prima che i paesi e le famiglie fossero ignoranti e in lotta
Sentimmo parlare di «ministri leali».
Zhuāngzǐ chiarisce il punto di vista di Laozí indicando, infine, nel collettivismo primitivo il tipo di governo a cui i daoisti – ai quali i confuciani davano degli «irresponsabili eremiti» – guardavano:
(Anticamente) la gente aveva una natura costante, si tesseva i propri vestiti e coltivava la terra per mangiare. Questo era ciò che chiamiamo la Virtù della Vita Comune. Era unita, formando un sol gruppo (non divisa in classi differenti): questo era ciò che chiamiamo Libertà Naturale […]. All’epoca della perfetta virtù, gli uomini vivevano in comune con gli uccelli e gli animali e formavano una sola famiglia con tutte le creature – come potevano essi sapere di tali distinzioni come «principi» e «vassalli»? Pur vivendo senza «sapere» essi si attenevano alla (via della loro) virtù naturale. Questo è ciò che chiamiamo lo stato di Pura Semplicità. In quello stato la gente conservava la sua «natura costante». Ma quando comparvero gli «uomini della saggezza», servili e striscianti nell’imposizione della «benevolenza», che si facvevano strada a gomitate e camminavano in punta di piedi nell’imposizione forzosa della «rettitudine», allora gli uomini cominciarono ovunque ad essere sospettosi. Con stravaganti orchestre e gesticolanti cerimonie, gli uomini presero a separarsi gli uni dagli altri. La pura solidarietà del legno fu ridotta in pezzi e sminuzzata per farne vasi sacrificali. La bianca giada fu infranta e danneggiata per farne manici di coppe per le libagioni. Le virtù (del Dao) erano rifiutate in favore della «benevolenza» e della «rettitudine». Gli istinti naturali eranoabbandonati in favore delle cerimonie e della musica. I cinque colori erano mescolati per farne modelli ornamentali. Le cinque note erano mischiate per ricavarne i sei toni del diapason a fiato. Ora, il ridurre in pezzi e sminuzzare la pura solidarietà della materia grezza per ricavarne recipienti fu il delitto degli «abili artigiani»; e il danno arrecato alla virtù del Dao per imporre la «benevolenza» e la «rettitudine» fu la colpa dei «saggi».
Se il Ru Chia rappresentava il bersaglio polemico (e persino satirico) prediletto dei daoisti, non mancano nei loro scritti attacchi significativi ai legisti (vedi il paragrafo seguente) e ai loro metodi:
Per quanto riguarda i metodi di governo di Shen (Pu-Hai), Han (Feizí) e Shang, essi strappavano le cose con le radici, trascuravano le loro origini (cause, pén) e non indagavano veramente sul loro venire in essere. Perché agivano così intensificando le cinque punizioni con un’intensità contraria ai fondamenti della virtù del Dao, affilavano le punte delle armi e abbattevano la maggior parte della gente come fuscelli. Tutti soddisfatti pensavano di aver fatto ordine nel mondo. Ma ciò era come alimentare il fuoco o cercare di vuotare una sorgente perenne; piantare alberi di tzu attorno ai pozzi sicché i secchi non possano scorrere su e giù; o salici lungo i canali cosicché le imbarcazioni non possano transitarvi – entro tre mesi sono destinati ad essere abbattuti.
Perché commettere errori simili? Questi uomini selvaggi e potenti non si curavano affatto delle origini. Il Fiume (Giallo), benché abbia nove anse, sfocia sempre nel mare, perché ha una fonte inesauribile nelle montagne del Khun-lun. Le acque delle inondazioni di espandono per tutta la terra, ma se non piove per dieci giorni o per un mese esse s’inaridiscono perché non hanno sorgente (Huai Nanzí, 6).
In altre parole, i metodi draconiani dei legisti erano fondamentalmente contrari ai moventi principali del comportamento umano e per ciò stesso destinati a fallire.
3. Han Feizí e i legisti (Fa Jia)
Pene severe sono ciò che il popolo teme, punizioni pesanti ciò che il popolo odia. Conseguentemente, il saggio promulga ciò che il popolo teme allo scopo di impedire la pratica della malvagità e stabilisce ciò che esso odia allo sopo di prevenire azioni scellerate. Così lo stato è in pace e non si verifica alcuna violenza. Da ciò io so bene che alcuna benevolenza, rettitudine, amore e favore non meritano di essere adottati, mentre pene severe e punizioni pesanti possono mantenere l’ordine nello stato.
Han Feizí
Discepolo del confuciano Xunzí, Han Feizí (280-223 A. C.) utilizzò il principio della “rettificazione dei nomi” per elaborare una rigida dottrina dell’ordine sociale nella quale ogni componente avesse il posto a lei spettante. Han Feizí era convinto della natura originariamente malvagia dell’uomo e, contro Confucio, non credeva che la sola educazione potesse costituire una guida sufficiente alla condotta umana. Il suo pessimismo antropologico è quindi la premessa di un pensiero autoritario che affida alle leggi e alle sanzioni penali il compito di arginare la corruzione degli uomini.
Secondo i legisti, «il lí, quell’insieme di usi, costumi, cerimonie e compromessi regolati in modo paternalistico, secondo gli ideali confuciani, fosse insufficiente per un governo energico e autoritario. La loro parola d’ordine era pertanto fa, diritto positivo e soprattutto hsien ting fa, leggi fissate preventivamente, alle quali ognuno nello stato, dal sovrano stesso fino al più infimo schiavo pubblico doveva sottomettersi, soggetto alle più severe e crudeli sanzioni. Il principe legislatore doveva circondarsi di un’aurea di wei (maestà) e di shih (autorità, potere, influenza). J. Needham, op. cit., p- 242.
Per i legisti, dunque, la virtù non è bontà o benevolenza, ma obbedienza alla legge fissata dallo stato, quale che sia il suo contenuto – si può notare l’analogia con il pensiero hobbesiano. Il diritto legista, come si vede, si sviluppa in aperta polemica con l’etica confuciana, anche se le due scuole condivisero la visione meritocratica dell’accesso alle carriere pubbliche o mandarinato.
Con Han Feizí, un legista degno di menzione è Li Si, anch’egli discepolo di Xunzí (e mandante dell’avvelenamento dello stesso Han Feizí), che in qualità di primo ministro aiutò il suo sovrano, Ying Zheng della dinastia Qin, a portare a termine la gigantesca unificazione della Cina nel 246 a.C.. La sua politica, esemplare dell’approccio legista, è descritta efficamente in questo stralcio tratto dalla voce Storia della Cina di Wikipedia:
Con la sconfitta di Qi, nel 221 a.C. Ying Zheng realizzò infine l’unificazione della Cina (246 a.C.) e assunse il titolo di Qin Shi Huang Di (Primo Imperatore della Dinastia Qin). Questo atto fu una sfida alla tradizione perché fino ad allora i termini Huang e Di erano stati utilizzati esclusivamente per indicare i grandi imperatori della più remota antichità, che avevano dato origine alla civiltà. Ying Zheng si poneva così sul loro stesso piano, sottolineando il fatto che non aveva bisogno della tradizione per legittimare il proprio potere. Si accinse quindi a realizzare una serie di riforme, sotto il consiglio del primo ministro legista Li Si, che avrebbero lasciato un’impronta indelebile nella storia cinese.
L’antica aristocrazia venne esautorata, le famiglie nobili furono costrette a trasferirsi nella capitale Xianyang, l’intero territorio venne diviso in distretti raccolti in governatorati, tutte le unità di misura vennero unificate così come la moneta e la scrittura. Per favorire la comunicazione tra le diverse regioni venne imposto un unico scartamento assiale per i carri e fu costruita un’ampia rete stradale per un totale di circa 6.000 km.
Shi Huang Di produsse un rinforzamento delle difese settentrionali del paese innalzate per proteggere il territorio dalla incursioni dei cosiddetti barbari Hsiungnu. L’opera, secondo il grande storico cinese Sima Qian, venne affidata al generale Meng Tian e al suo esercito di 300.000 uomini. L’obiettivo imperiale doveva essere quello di collegare i vari pezzi di muraglia già esistenti ottenendo, come risultato, la Grande muraglia.
Affinché nessuno potesse dubitare della sua autorità invocando la tradizione, accolse la proposta di Li Si e nel 213 a.C. decretò che tutti i testi antichi fossero bruciati per cancellare il ricordo del passato, fatta eccezione per quelli di argomento scientifico e tecnico.I fattori che determinarono la caduta della dinastia furono numerosi, innanzitutto la frenesia con cui Shi Huang Di aveva attuato la sua politica e la spietatezza dei metodi punitivi da lui adottati, come il principio della responsabilità collettiva (se una persona commette un reato, tutto il suo clan d’appartenenza ne sarà colpevole). Migliaia di contadini erano stati costretti ad abbandonare i campi per andare a combattere o per partecipare ai lavori di costruzione della Muraglia, delle strade, dei canali e dei palazzi imperiali. Le realtà locali furono sconvolte anche a causa dell’unificazione della moneta e del sistema di scrittura.
[Tutte le citazioni sono tratte da Needham, Scienza e civiltà in Cina.]
Bibliografia
Fung Yu-Lan, Confucianesimo e taoismo, in Storia della filosofia orientale, a cura di Sarvepalli Radhakrishnan, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 705-805.
Lo Chia-Luen, Caratteristiche generali del pensiero cinese, in Storia della filosofia orientale, a cura di Sarvepalli Radhakrishnan, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 702-703.
Joseph Needham, Science and Civilization in China (1956) trad. it. Scienza e civiltà in Cina. Storia del pensiero scientifico, II, Torino, Einaudi, 1983.
Paolo Santangelo, Storia del pensiero cinese, Roma, Newton Compton, 1995.
Alan W. Watts, Tao: The Watercourse Way (1975), trad. it. Il Tao: la via dell’acqua che scorre, Roma, Ubaldini, 1975.
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