Articolo sulle caratteristiche della decisione individuale e di gruppo, tratto da Albertina Oliverio, Strategie della scelta. Introduzione alla teoria della decisione, Laterza, Roma-Bari, 2007.
Il 28 gennaio del 1986, lo shuttle Challenger decollò da Cape Canaveral in Florida ed esplose dopo appena un minuto di volo, provocando la morte di tutti e sette gli astronauti a bordo.
La tragedia fu vissuta in diretta da milioni di persone che stavano seguendo l’evento in televisione. Prima del disastro, il lancio della navetta spaziale era stato rimandato di alcuni giorni per le cattive condizioni atmosferiche. Inoltre, i tecnici avevano espresso un parere negativo al lancio anche per il giorno in cui il Challenger fu effettivamente fatto decollare, in quanto ritenevano che le condizioni non fossero sicure a causa di una temperatura dell’aria troppo bassa. Ciò nonostante, i vertici decisionali della NASA non tennero conto di questi pareri negativi e autorizzarono una partenza che si trasformò in una tragedia.
Alcuni esperti hanno cercato di spiegare lo sfortunato processo decisionale che è sfociato nel lancio del Challenger ricollegandolo ad un fenomeno noto nell’ambito della psicologia sociale come pensiero di gruppo (groupthink). Questo fenomeno si riferisce a situazioni in cui, come nel caso del Challenger, un gruppo di individui apparentemente ragionevoli e intelligenti prende decisioni che si rivelano cattive o irrazionali, decisioni che sono l’esito della pressione, esercitata sui singoli dal gruppo, a conformarsi e a garantire una lealtà nei confronti di valutazioni e scelte collettive.
Ogni individuo, cioè, introietta ciò che egli ritiene essere il punto di vista del gruppo del quale fa parte, e contribuisce in tal modo al realizzarsi di una situazione in cui il gruppo prende delle decisioni che ogni singolo membro isolato considererebbe insensate. Molti sono gli esempi di pensiero di gruppo sfociato in pessime decisioni che si possono trarre dalla storia, tra i quali il bombardamento di Pearl Harbor nella Seconda guerra mondiale, l’escalation della guerra del Vietnam e la fallita invasione della Baia dei Porci a Cuba negli anni Sessanta del secolo scorso, ordinata quasi all’unanimità dal gabinetto presidenziale di John F. Kennedy.
Tra le cause principali di questo fenomeno vi sono una forte coesione del gruppo e una sua chiusura nei confronti dell’esterno, nonché situazioni di forte stress o di pericolo, assenza di norme per valutare le alternative disponibili e presenza di un leader direttivo. Tra i sintomi, invece, si può innanzi tutto citare un’illusione di invulnerabilità condivisa dai membri del gruppo, che può farli cadere nella trappola dell’ottimismo irrealistico circa le conseguenze delle decisioni da assumere.
Poi, una forte convinzione nella moralità della causa perseguita dal gruppo, una condivisa illusione di unanimità e coerenza interna, una negazione di qualsiasi dissenso dal punto di vista della maggioranza anche attraverso forme di autocensura, una chiusura nei confronti di quanti sono esterni al gruppo, che spesso divengono vittime di stereotipizzazione ed emarginazione, nonché una preoccupazione a proteggere il gruppo e il suo leader da informazioni che possano contraddirli. Proprio perché coloro che sono in disaccordo vengono tenuti fuori o isolati dal gruppo, le decisioni che esso prende senza il confronto con punti di vista alternativi possono essere disastrose. Ad esempio, tornando al caso del Challenger, il gruppo di coloro che presero la decisione di far decollare la navetta era molto compatto e unito nelle proprie scelte, in quanto composto da individui che avevano lavorato assieme per anni, che erano diretti da due manager che supportavano fortemente il lancio, e che condividevano un forte spirito cameratesco che li rendeva estremamente ottimisti circa le proprie capacità decisionali (all’epoca la NASA aveva inoltre portato a termine con successo 55 missioni, cosa che contribuiva ad aumentare il senso di ottimismo e invulnerabilità).
Queste caratteristiche del gruppo rafforzarono la sua chiusura nei confronti di eventuali dissensi, al punto che non si tenne conto di quei tecnici esterni che avevano espresso parere negativo al lancio. Fenomeni come questo del pensiero di gruppo ci devono far riflettere su come nei processi decisionali che si sviluppano nell’ambito di un gruppo possano intervenire fattori diversi da quelli che riguardano le decisioni puramente individuali e come ciò possa avere degli effetti sugli esiti che ne scaturiscono.
I gruppi devono essere coinvolti nei processi decisionali? E se la risposta è positiva, quand’è che possono avere maggiore successo di un individuo da solo? In sostanza, due o più teste sono meglio di una? Malgrado il fatto che dal punto di vista teorico lo studio dei processi decisionali sia più sviluppato sul piano individuale che su quello collettivo, la nostra vita è ampiamente condizionata da decisioni prese da gruppi (comitati direttivi, gruppi di lavoro, giurie, commissioni parlamentari, commissioni d’esami, ecc.). I gruppi sono caratterizzati dal fatto che i membri che ne fanno parte interagiscono con una certa continuità per conseguire scopi comuni o per condurre specifiche attività ed ognuno dipende dall’altro. Una squadra, un gruppo di lavoro, un circolo culturale sono esempi di gruppi, ma lo sono anche le organizzazioni formali allargate come le istituzioni (scuola, aziende, industrie, apparato burocratico statale) nell’ambito delle quali non tutti i membri hanno interazioni dirette ma hanno le potenzialità per averle.
Vi sono alcune ragioni a favore della tesi che in alcune situazioni il processo decisionale di gruppo sia più accurato ed efficace di quello individuale. Innanzi tutto, generalmente rispetto ai singoli individui il gruppo è considerato più in grado di produrre idee, alternative e soluzioni nuove o originali in quanto può trarre vantaggio dalla condivisione di conoscenze, esperienze, capacità competenze di ogni suo membro. La produttività delle decisioni di un gruppo è infatti spesso considerata più elevata di quella delle scelte strettamente individuali in quanto frutto della somma degli sforzi di più soggetti. A ciò si aggiunga da un lato che una decisione di gruppo ottiene generalmente un consenso e una legittimazione più ampi rispetto a quelli che può riscuotere una decisione unilaterale presa da un singolo individuo, e dall’altro lato che alcuni studi mettono in luce come la partecipazione a processi decisionali di gruppo sembri contribuire all’aumento della soddisfazione, dell’autostima e dello sviluppo personali. Queste ed altre ragioni dovrebbero costituire uno stimolo a privilegiare sempre più i processi decisionali di gruppo nell’ambito di alcuni contesti come quelli delle organizzazioni e della politica.
Va comunque sottolineato che vi sono delle circostanze in cui è più opportuno che la decisione rimanga sul piano individuale, come ad esempio laddove l’urgenza renda necessario fare scelte rapide (i tempi decisionali di un gruppo sono generalmente più lunghi di quelli individuali), o in casi in cui la decisione dipenda dalla conoscenza detenuta da un’unica persona o assuma un carattere strettamente confidenziale non potendo essere divulgata.
Alcuni gruppi prendono poi decisioni migliori di altri, e ciò in base a molti fattori. Come il contesto fisico (rumore, temperatura, illuminazione, ecc.), anche le dimensioni di un gruppo possono ad esempio avere un impatto notevole sulla sua efficacia: quando un gruppo è troppo piccolo le sue capacità e conoscenze possono essere troppo esigue, mentre quando è troppo grande al suo interno possono emergere conflitti e sottogruppi in competizione. Un fattore importante è poi il «sentimento di appartenenza al gruppo». Consideriamo per un momento la celebre serie di studi condotta dal 1927 al 1932 da alcuni ricercatori diretti dallo psicologo e sociologo australiano Elton Mayo sui lavoratori delle officine Hawthorne della Western Electric Company di Chicago. L’obiettivo era quello di misurare l’effetto delle condizioni di lavoro sulla produttività degli operai. In un primo studio, sei operaie furono isolate in una «sala di prova» e messe a lavorare al montaggio dei relè nelle stesse condizioni in cui lavoravano nelle officine. In questa stanza era possibile misurare l’incidenza di alcuni fattori legati alla stanchezza e alla monotonia (numero e durata delle pause di riposo, orari, ecc.) che progressivamente furono fatti variare (riduzione dei tempi di lavoro, ecc.).
I ricercatori osservarono che queste modifiche esterne producevano un alimento della produttività delle operaie. Essi furono però sorpresi nel constatare che, quando le operaie venivano ricondotte alle loro condizioni di lavoro iniziali nelle officine, la produttività continuava ad aumentare. Questo risultato inatteso si spiegava alla luce del sentimento di appartenenza al gruppo: le operaie isolate nella sala prova erano state confrontate ad una organizzazione sociale di lavoro nuova, informale, che aveva permesso loro di scambiarsi opinioni sul proprio lavoro e di conoscersi meglio, cosa che aveva reso possibile la creazione di un gruppo con propri obiettivi e norme caratterizzato da un buon clima di coesione. Questo e gli altri studi nelle officine Hawthorne sostanzialmente permisero di comprendere come gli individui reagiscano alle condizioni materiali in cui lavorano e vivono non solo per come sono, ma anche, e soprattutto, per come le percepiscono; e che i fattori umani rivestono in tal senso un ruolo fondamentale.
Va infine detto che non sempre le decisioni prese dai gruppi sono migliori di quelle prese dai singoli in quanto essi sono esposti all’effetto, talvolta positivo ma per lo più negativo, di alcuni processi di influenza sociale e di gruppo.
Considerazioni conclusive (mie)
All’interno di un gruppo possono emergere dinamiche di cooperazione o di conflitto che incidono fortemente sulla vita del gruppo stesso. Di solito si crede che i gruppi ben compatti, dove esiste una forte solidarietà interna tra gli appartenenti, siano gruppi “vincenti”. In molti casi si osserva, in effetti, una correlazione tra coesione e rendimento, ma secondo le ricerche della psicologia sociale sembra che non sia tanto la coesione a favorire il rendimento ma, al contrario, che il rendimento favorisca la coesione, vale a dire che quando un gruppo vince si rinsalda (es: una squadra sportiva).
C’è da osservare, inoltre, che il conflitto all’interno del gruppo non sempre è negativo, può favorire cambiamenti positivi, la ricerca di nuove soluzioni ai problemi del gruppo e la ripresa della cooperazione.
Non sempre infatti un gruppo funziona bene o prende le decisioni migliori quando tutti sono d’accordo (ad esempio quando tutti sono d’accordo con il leader o quando il leader è così forte e carismatico – il carisma è una qualità particolare che si riconosce a capi particolarmente influenti e trascinatori – da condizionare le opinioni dei membri del gruppo): secondo recenti ricerche della psicologia sociale, un gruppo coeso (cioè unito) lavora bene e prende le decisioni migliori quando ha obiettivi semplici e lineari, quando invece gli obiettivi sono complessi (ad esempio nel caso delle decisioni prese da un capo di stato e dai suoi collaboratori, il disaccordo e l’eventuale conflitto giocano un ruolo positivo perché impediscono al gruppo di prendere decisioni senza aver valutato ogni aspetto, avvalendosi del contributo di tutti i punti di vista.
La presenza di yes-men, l’appiattimento sul pensiero unico e la crescita del conformismo nella società contemporanea sono quindi fonte di problemi e recentemente hanno fatto parlare gli studiosi di stupidità funzionale: il fenomeno grazie al quale l’errore prevale grazie all’assenza di dibattito e di senso critico, causando disastri. Ne sono esempi l’influenza dei teo-con sulla decisione di scatenare il secondo conflitto iracheno o, recentemente, l’adesione ideologica alle errate valutazioni del rapporto debito/crescita degli economisti americani Carmen Reinhart e Kennett Rogoff.
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