Fin dai tempi della prima riforma previdenziale, tra pensioni ed euro c’è sempre stato un rapporto molto stretto. Siamo entrati nell’euro (1992-1995) rinunciando a pensioni che garantissero a chi aveva lavorato tutta la vita di conservare lo stesso tenore di vita di cui aveva goduto in precedenza ed ora, a quanto pare, ci immoleremo per l’euro (senza peraltro sperare di salvare né la “casa comune” né la sua moneta) non solo lavorando più a lungo ma, soprattutto accettando che i lavoratori dipendenti percepiscano pensioni drammaticamente al di sotto della soglia di povertà relativa.
Prima della riforma Dini (1995) chi andava a riposo vedeva calcolata la sua pensione sulla media degli ultimi cinque anni di servizio (all’epoca, la parte economica dei contratti di lavoro veniva rinnovata ogni due anni, il che significava calcolare la pensione sugli ultimi 3 contratti di lavoro invece che sull’ultimo stipendio) perciò, di fatto, benché vedesse diminuire il suo reddito conservava sostanzialmente la propria capacità di spesa. Il seguente riepilogo è proposto da Repubblica.it:
Retributivo. Nel sistema retributivo la pensione si calcola in misura percentuale sulla media delle retribuzioni degli ultimi anni di lavoro. E’ il meccanismo più vantaggioso, ma è utilizzabile solo dai lavoratori che al 31 dicembre 1995 (termine fissato dalla riforma Dini) avevano già versato 18 anni di contributi.
Con la riforma Dini, dal 1 gennaio 1996 la pensione di calcola non sul salario, ma sulla contribuzione effettivamente versata: il nuovo sistema sgancia la pensione dal salario e non gli interessa quanto diventi poveri andando in pensione. Cito ancora da Repubblica.it:
Contributivo. L’importo si calcola solo in base all’ammontare dei contributi versati, al netto delle spese di gestione dell’istituto di previdenza. Viene applicato ai lavoratori assunti dal primo gennaio 1996 in poi.
Misto. E’ la via di mezzo fra gli altri due meccanismi ed interessa le persone che, al dicembre 1995, avevano versato meno di 18 anni di contributi. La loro pensione, fino a quell’anno, sarà calcolata con il retributivo, ma per gli anni che vanno dal 1996 in poi si applicherà il sistema contributivo.
Come si va in pensione adesso tra vecchiaia e anzianità
In Italia si può andare in pensione percorrendo due diverse strade, quella della vecchiaia e quella dell’anzianità (o a qualsiasi età purché siano stati versati 40 anni di contributi). Il requisito dell’età però, in entrambi i casi, non è fisso: dal 2013 varierà negli anni a seconda delle speranze di vita.
Vecchiaia. si ha diritto alla pensione di vecchiaia al raggiungimento di una età minima e dopo aver versato un periodo minimo di contributi (20 anni). Il requisito richiesto agli uomini è il compimento del 65esimo anno, per le donne il sistema è più articolato. Se lavorano nel pubblico impiego l’età minima, fino a dicembre 2011, è di 61 anni, ma a partire dal gennaio 2012 salirà, con un unico scalino, ai 65 anni. Se invece le donne lavorano nel settore privato, l’età ora è fissata a 60 anni, ma a partire dal 2014 aumenterà in modo graduale per raggiungere i 65 anni nel 2026.
Anzianità. l’accesso alle pensioni di anzianità passa attraverso il meccanismo delle “quote” (un numero cui si arriva sommando l’età anagrafica con quella contributiva). Fino al 31 dicembre 2012 i lavoratori dipendenti otterranno la pensione di anzianità con almeno 60 anni di età e al raggiungimento di quota 96 (per esempio 60 anni di età e 36 di contributi, oppure 62 anni di età e 34 di contributi). Dal primo gennaio 2013, la quota da raggiungere diventa 97 e l’età minima salirà a 61 anni. Diverso il caso dei lavoratori autonomi: fino al dicembre 2012 dovranno avere un’età minima di 61 anni e una quota pari a 97; dal gennaio 2013 dovranno avere 62 anni di età e raggiungere quota 98.
Speranze di vita. Ogni tre anni l’Istat certifica le speranze di vita degli italiani, se queste crescono aumentano automaticamente (per un periodo di uguale durata) anche i requisiti anagrafici richiesti per le persone di anzianità e vecchaia. Questo sistema entrerà in vigore dal primo gennaio 2013 e l’incremento sarà di tre mesi.
La riforma previdenziale secondo Elsa Fornero
L´articolo pubblicato qui in ampi stralci è stato scritto da Elsa Fornero, neoministro del Welfare, insieme a Flavia Coda Moscarola, su “Italianieuropei” pochi giorni prima di ricevere l´incarico ministeriale dal presidente Giorgio Napolitano. L´articolo è stato scritto da Elsa Fornero nella sua veste di docente di Economia all´Università di Torino e coordinatore scientifico del CeRP del Collegio Carlo Alberto. Flavia Coda Moscarola è ricercatrice presso il CeRP.
La recente riapertura del dibattito sulla necessità o meno di un nuovo intervento in materia previdenziale offre al Paese l’occasione – che questa volta, data la situazione di grave crisi in cui versa, sarebbe davvero un peccato farsi sfuggire – per lasciarsi alle spalle la logica degli interventi “spezzatino” e adottare finalmente un approccio più ragionato, coerente e rigoroso alla ridefinizione delle regole del principale istituto del Welfare State; un approccio che abbia se non le caratteristiche della “definitività”, almeno quelle dell’intervento strutturale.
E non dell’ennesimo aggiustamento di una transizione troppo lunga. Soprattutto quando si parla di pensioni è infatti necessario abbracciare un’ottica di lungo periodo. Le regole previdenziali influenzano direttamente o indirettamente molte delle decisioni fondamentali che gli individui prendono durante la loro vita, a partire dalla giovane età: quanto a lungo studiare, quale professione intraprendere, quale profilo di consumo e risparmio adottare, a che età ritirarsi dal mercato del lavoro.
Se le regole cambiano continuamente, diventa difficile fare piani ragionati per il futuro con chiare implicazioni sia sulla qualità della vita dei singoli cittadini, sia sulla crescita del sistema economico nel suo complesso. Inoltre, se si vuole che le regole vengano condivise – e non solo subite – queste devono essere eque: deve essere garantita parità di trattamento agli individui (la signora finge si dimenticare che “non c’è niente di più ingiusto che trattare in modo eguale i diversi” NDR); devono essere aboliti i privilegi. Se si intende effettuare una redistribuzione delle risorse, questa deve essere trasparente e deve avvenire dai più ricchi ai più poveri e non viceversa (tradotto: 1. toglieremo a tutti i lavoratori il “privilegio” costituzionalmente garantito del reddito sufficiente ad una vita dignitosa; 2. impoveriremo i più vecchi per renderli uguali ai giovani che abbiamo già provveduto a massacrare negli scorsi 20 anni).
Questi principi, che sembrano banali, sono stati spesso largamente disattesi, nel periodo preriforma, ma anche successivamente, sia con la riforma Amato (1992), sia con la riforma Dini (1995), in modo particolare con la scelta di tutelare i “diritti acquisiti” dei lavoratori meno giovani, scaricando invece sulle nuove generazioni l’onere dell’aggiustamento. E hanno continuato a essere disattesi nel periodo successivo, a ogni nuovo intervento sulla transizione.
Il metodo contributivo di calcolo delle pensioni, introdotto nel 1995 in sostituzione del precedente metodo retributivo, costituisce (a nostro avviso) il punto di partenza imprescindibile su cui basare le modifiche dell’attuale assetto. Considerando la transizione, e semplificando, i lavoratori possono essere suddivisi in tre tipologie: i “salvati” del 1995, esonerati dall’applicazione del contributivo grazie all’artificiosa demarcazione introdotta tra coloro che, al 31 dicembre 1995, avrebbero raggiunto almeno diciotto anni di anzianità e gli altri; i “parzialmente protetti” (anzianità inferiore a diciotto anni nel 1996), la cui pensione sarà calcolata secondo il pro-rata, ossia in base alla regola retributiva per l’anzianità maturata al 1995 e a quella contributiva per l’anzianità accumulata dal 1996; gli “indifesi”, ossia gli assunti dal 1996, la cui pensione sarà interamente contributiva.
Il metodo retributivo, applicato per intero ai “salvati” e in pro-rata ai “parzialmente protetti”, si caratterizza per uno scarso collegamento tra contributi versati e prestazioni ricevute. Ne risulta un “rendimento” (analogo a un tasso di interesse annuo applicato al monte contributivo) troppo generoso, (TRADOTTO: non vogliamo pagarvi nemmeno il 70/80% della media degli stipendi da fame che avete percepito negli ultimi 5 anni, cioè quanto avreste presso secondo i calcoli eseguiti con i parametri Dini) e cioè superiore a quello finanziariamente sostenibile, con conseguente sistematica violazione del criterio della sostenibilità e del principio dell’equità tra generazioni. Un sistema a ripartizione è, infatti, finanziariamente sostenibile quando restituisce al lavoratore, sotto forma di pensione, i contributi versati, capitalizzati a un tasso pari a quello di crescita dell’economia. Se il sistema è troppo generoso verso le generazioni attuali, accumula un debito implicito che ricadrà sulle generazioni giovani e su quelle future…
Una stima del regalo può essere ottenuta per mezzo di un indicatore della generosità dei sistemi pensionistici, denominato in gergo tecnico Present Value Ratio (PVR). Questo indicatore misura, al momento del pensionamento, il “valore attuale atteso” dei benefici pensionistici ai quali l’individuo ha diritto – la somma oggi equivalente al valore complessivo dei trasferimenti previdenziali di cui l’individuo godrebbe data l’attuale aspettativa media di vita – a fronte del “montante contributivo” versato – ossia il saldo attuale disponibile di un ipotetico conto corrente in cui l’individuo abbia depositato, senza mai ritirarli, i contributi previdenziali versati lungo la vita lavorativa. Fatto pari a 100 euro il montante, nelle nostre simulazioni, un valore del PVR superiore a 100 indica che il sistema remunera i contributi corrisposti nella vita attiva a un tasso di rendimento superiore a quello che il sistema “può permettersi”. Ciò comporta una redistribuzione di risorse (ossia “un regalo”) alle generazioni anziane da parte delle generazioni giovani presenti e future. La Tabella 1 mostra per l’appunto la generosità del metodo retributivo…
Sulle basi “oggettive” appena illustrate, riteniamo che una proposta di riforma coerente possa pertanto essere la seguente. Si tratterebbe di applicare, a partire dal 2012, il metodo contributivo pro-rata per tutti i lavoratori, rendendo subito effettive un’età minima di pensionamento pari a sessantatré anni (con il requisito dei vent’anni di anzianità oggi richiesto per le pensioni di vecchiaia) e una “fascia di flessibilità” che incoraggi il lavoratore a ritardare l’uscita fino ai sessantotto (settanta) anni, con un incremento di pensione che – secondo calcoli matematici, e non in base ad arbitrari criteri politici – tenga conto dei maggiori contributi versati e della maggiore età (TRADOTTO: per una sorta di giustizia divina, i miei coetanei e colleghi più anziani che all’epoca della Riforma Dini rinunciarono a scioperare perchè CGIL, CISL e UIL garantirono che “i diritti acquisiti non sarebbero stati toccati”, si vedranno trattati proprio come quei lavoratori che allora non difesero. Viene quasi da congratularsi con la Fornero per questa lezione di relazioni industriali impartita ai tanti inebetiti che ho conosciuto). I requisiti minimi e massimi sarebbero successivamente indicizzati alla longevità, così come già previsto dalla normativa vigente. Dovrebbero inoltre scomparire le “finestre”, cioè quei periodi (un anno per i lavoratori dipendenti e un anno e mezzo per i lavoratori autonomi) che si sommano oggi ai requisiti minimi di età/anzianità, senza peraltro aggiungere incrementi di pensione (insomma, tutti i lavoratori ancora in servizio andranno in pensione con il sistema misto, o pro-rata, per cui vedranno diminuire la propria pensione ogni anno in più che resteranno in servizio – perchè per ogni +1 aumenta proporzionalmente la quota accantonata con il contributivo che è inferiore al retributivo – perciò, come spiega sotto la futura ministra, verranno pensati meccanismi “premiali” che correggendo il meccanismo ci permetteranno di prendere la stessa pensione che avremmo preso con la Dini lavorando 10 anni in più: Thank You Mrs. Fornero).
Mentre l’estensione dell’età minima di accesso al pensionamento e l’abolizione della pensione di anzianità, riguardando tutti i lavoratori, avrebbero come effetto principale quello di determinare risparmi di spesa consistenti nel breve e medio periodo, permettendo, come auspicato, di allentare gli stringenti vincoli di bilancio; l’estensione pro-rata del contributivo avrebbe come effetto principale quello di avvicinare i trattamenti tra le categorie (cosa che fa anche l’innalzamento del requisito di età, ma in maniera meno rilevante), promuovendo una maggiore equità del sistema.
I lavoratori coinvolti nell’estensione del prorata non sarebbero molti. Infatti il provvedimento riguarderebbe unicamente i “salvati” oggi ancora attivi nel mercato del lavoro, ossia i lavoratori nati tra il 1950 e il 1962. A titolo esemplificativo, la Tabella 2 illustra il caso di un dipendente privato della categoria dei “salvati” nato nel 1958. Per ipotesi, egli aveva vent’anni di anzianità nel 1996, una dinamica retributiva del 2,5% l’anno e nel 2010 è arrivato a percepire una retribuzione di 30.000 euro. Supponendo che maturi quarant’anni di anzianità nel 2018, con le regole attuali potrebbe andare in pensione a sessantuno anni (inclusa la finestra).
La sua pensione ammonterebbe a 26.776 euro, con un “regalo” atteso nell’arco dell’intera vita pari al 43% dei contributi versati (162.000 euro). Applicando la nostra proposta, il pensionamento sarebbe posticipato al 2021, con una pensione superiore, pari a 28.999 euro, ma un “regalo” inferiore (il 33% dei contributi versati, ossia 146.000 euro), per effetto della più elevata età di pensionamento e del calcolo contributivo sugli ultimi anni.
Rispetto al mero innalzamento del requisito di età con regola retributiva invariata, la pensione erogata è solo lievemente più bassa: 28.999 euro verso i 29.523 euro. Gli anni in cui si applica il prorata, nell’esempio, sono infatti solo due. Si noti che, se venisse applicato il metodo contributivo all’intera vita lavorativa del soggetto – una misura davvero drastica, che peraltro nessuno propone – la sua pensione ammonterebbe a 21.869 euro e il “regalo” si annullerebbe.
La fissazione dell’età minima a sessantatré anni comporterebbe, tuttavia, la possibilità per gli uomini di anticipare di due anni il pensionamento rispetto all’età oggi prevista (65 anni) per la pensione di vecchiaia. Alcuni in effetti uscirebbero prima (con una pensione ridotta, ma con un regalo proporzionalmente maggiore); altri sfrutterebbero la fascia di flessibilità e continuerebbero oltre i 65 anni. La flessibilità nell’età di pensionamento è di fatto un’occasione per concedere, a quei lavoratori che si sentono ancora “produttivi”, di scegliere liberamente se e di quanto posticipare il momento del pensionamento.
Dal punto di vista aggregato, il nostro modello non consente una stima accurata dei risparmi. Ciononostante, i risparmi di spesa sarebbero tutt’altro che irrisori, potendo arrivare a qualche decina (3-4) di miliardi di euro nei primi 5-6 anni di effettiva applicazione del provvedimento. La caratteristica del contributivo di garantire un trattamento equo sia all’interno delle generazioni, sia tra generazioni diverse presenti e future ne costituisce un indubbio punto di forza aggiuntivo rispetto al fatto che si tratta di un metodo di calcolo che migliora la sostenibilità finanziaria del sistema.
Ovviamente, questo vale a condizione che la riforma in questione riguardi tutte le categorie di lavoratori alla stessa maniera, nessuna esclusa. In un momento in cui si è costretti a richiedere duri sacrifici alle famiglie con provvedimenti draconiani che colpiscono anche le fasce più deboli (e questo naturalmente non merita commenti da chi si accinge a governare “con equità”), non si può prescindere dall’abolizione delle ingiustificate posizioni di privilegio che perdurano per molte categorie difficilmente annoverabili tra i bisognosi, come i liberi professionisti con le loro casse e i politici con i loro vitalizi (notare che i politici hanno già votato una riforma che salva i “diritti acquisiti” di chi siede adesso in Parlamento e cancella quelli dei futuri deputati e senatori). È anche ovvio che una volta varato il provvedimento si potrebbero discutere, in modo trasparente e mirato, le uniche eccezioni ammissibili, ossia quelle nei confronti dei lavoratori sfortunati e non già di quelli privilegiati (e con questa rassicurazione in stile “capitalismo compassionevole” di bushiana memoria, possiamo stare tranquilli).
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