Per Marx il capitalismo è la struttura del dominio di una classe sull’altra. Nel Manifesto del Partito Comunista, il filosofo osserva infatti che il capitalismo ha abbattuto tutte le variopinte diversità dell’oppressione sociale, sostituendo ad esse la struttura di un mercato nel quale chi possiede i mezzi di produzione acquista lavoro offerto come merce.
I borghesi, proprietari, acquistano, quindi, tempo di vita, ore di lavoro, dai proletari che, privi dei mezzi di produzione del reddito, sono costretti a vendere il proprio tempo e la propria attività (nonché quella dei propri figli o prole) su questo mercato, per assicurarsi di che vivere. Il valore prodotto dai lavoratori è però maggiore di quello della loro retribuzione, in questa differenza Marx colloca perciò lo sfruttamento, inteso come lo spogliamento del lavoratore dei frutti del proprio lavoro da parte del capitalista.
La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.
Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.
La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l’Oriente dall’Occidente. […] Marx, Engels, Manifesto del Partito Comunista.
Se in Marx, il capitalista è semplicemente il profittatore dello sfruttamento, svolge una funzione essenzialmente parassitaria ai danni del lavoratore, per Sombart e Schumpeter, egli, invece, in quanto “imprenditore“, é l’agente di progresso della società che riassume la capacità di innovare, rischiare, intraprendere. La figura dell’imprenditore è trainante, per questi autori, perché egli, quale “uomo nuovo”, è capace di imprimere questo suo carattere all’intera società che quindi gli deve perciò il proprio rinnovamento e la propria modernizzazione.
La vera funzione dell’imprenditore consiste […] nel tradurre in pratica nuove combinazioni tecniche e commerciali, ovvero per dirla in termini più accessibili, nell’essere egli il protagonista del progresso economico [J. A. Schumpeter, L’imprenditore e la storia dell’impresa, a cura di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 80-81].
Per Schumpeter, quindi, lo sviluppo capitalistico è «un cambiamento qualitativo e discontinuo indotto dalle innovazioni». In Teoria dello sviluppo economico (19119) l’economista austriaco descrive la dinamica del capitalismo come una rincorsa tra innovatori ed imitatori. Lo sviluppo economico inizia quando un imprenditore spezza lo stato stazionario introducendo un’innovazione, che, per Schumpeter, è qualsiasi invenzione tecnica, nuova formula organizzativa, creazione di nuovi prodotti o di nuovi mercati, che fanno sì che si possa creare nuova ricchezza, che non solo copra i costi di produzione e gli ammortamenti, ma che crei profitto [per Schumpeter il profitto, compreso l’interesse bancario, può essere maggiore di zero solo in presenza di innovazioni]. L’innovatore è poi seguito da uno “sciame” di imitatori (che nella teoria di Schumpeter non sarebbero degli autentici imprenditori), che sono attratti dal profitto come le api dal nettare, ed entrano così nei settori nei quali si sono verificate le innovazioni e creati profitti, facendo sì che, a seguito dell’aumento del numero di imprese e quindi dell’offerta di beni, il prezzo di mercato diminuisca fino ad assorbire interamente il profitto a suo tempo generato dall’innovazione, riportando così l’economia e la società nello stato stazionario, finché una nuova innovazione non riinizia il ciclo dello sviluppo economico. Il profitto ha dunque una natura transitoria, poiché sussiste fin quando c’è innovazione, nel lasso di tempo che passa tra l’innovazione e l’imitazione.
La tesi di Schumpeter è quindi che l’imprenditore è fattore di sviluppo economico e civile in quanto innova. In questo modo l’economista reinterpreta l’idea settecentesca che il bene comune non è parte degli obiettivi intenzionali dell’imprenditore, ma piuttosto il risultato inintenzionale di azioni mosse da obiettivi o passioni individuali (la cosiddetta eterogenesi dei fini, che in economia è nota soprattutto come la metafora smithiana della “mano invisibile”).
Come ha sostenuto Weber, d’altra parte, l’imprenditore ricerca il profitto, ma non è mosso da bramosia di ricchezza. Il profitto puro che egli ricava dall’impresa è, infatti, per definizione, non consumato interamente, ma reinvestito nel suo ciclo produttivo. Il capitalista non sarebbe insomma tale se non accumulasse una parte del profitto, appunto, nel capitale.
C’è un’affinità interna tra l’ascesi (estraneità ascetica ai piaceri del mondo) e la partecipazione all’attività capitalistica (controllo di sé, disciplina interiore, razionalizzazione contro la dissipazione). In alcuni testi di Benjamin Franklin (Suggerimenti necessari a coloro che vorrebbero arricchirsi, 1736; Consigli a un giovane commerciante, 1748) traspare un pathos etico, un ethos che si esprime in quanto tale: il singolo è moralmente tenuto ad aumentare il proprio capitale non per concedersi alle piacevolezze della vita, ma perché questa è un’esigenza autonoma, un dovere di per sé, senza legami con il godimento dei piaceri del mondo. Anzi, l’impegno è guadagnare sempre più denaro alla condizione di evitare rigorosamente ogni piacere spontaneo. Ma soprattutto il «summum bonum» di quest’etica, il guadagno di denaro e di sempre più denaro, è così spoglio di ogni fine eudemonistico o semplicemente edonistico, è pensato in tanta purezza come scopo a se stesso, che di fronte alla felicità ed all’utilità del singolo individuo appare come qualche cosa di interamente trascendente e perfino di irrazionale (32). Il guadagno è considerato come scopo della vita dell’uomo, e non più come mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali. Questa inversione del rapporto naturale, che è addirittura priva di senso per il modo di sentire comune, è manifestamente un motivo fondamentale del capitalismo così come è estranea all’uomo non tocco dal suo soffio. Ma essa contiene al tempo stesso una serie di sentimenti, che sono in stretta connessione con talune concezioni religiose. Se infatti si domanda perché “gli uomini devono far denaro”, Beniamino Franklin nella sua autobiografia risponde, benché egli fosse un deista aconfessionale, con un versetto della Bibbia, e ricorda che il padre suo, severamente calvinista, da giovane gli aveva sempre impresso: «Se vedi un uomo prestante nella sua professione, è segno che egli può apparire dinanzi ai Re» (33).
Quest’idea peculiare del dovere professionale è caratteristica dell’”etica sociale” della civiltà capitalistica ed ha per essa un significato costitutivo. Il profitto capitalistico non deriva dall’avidità. Questa c’è sempre stata in ogni tempo anche quando il capitalismo non c’era (avidità del mandarino cinese, del patrizio dell’antica Roma, dell’agrario moderno). L’assoluta mancanza di scrupoli nell’affermazione del proprio interesse materiale pecuniario era una caratteristica specifica di paesi il cui sviluppo capitalistico-borghese era rimasto arretrato (p. 79). Coloro per cui l’auri sacra fames fu un impulso a cui si abbandonarono senza riserve, non furono affatto gli esponenti di quella mentalità da cui si è generato lo spirito capitalistico specificamente moderno come fenomeno di massa (p. 80). Lo spirito del capitalismo è uno stile di vita ben preciso, vincolato da norme e vestito dei panni di un’etica. Capacità di concentrazione del pensiero, contegno assolutamente centrale per cui ci si sente moralmente obbligati verso il lavoro, si trovano associati a uno spirito economico rigoroso, che calcola il compenso e il suo grado, e con un severo dominio di sé, con una temperanza e moderazione che accresce insolitamente l’efficienza. Qui il lavoro è sentito come fine a se stesso, come vocazione (Beruf) così come l’esige il capitalismo (p.86).
[…]
L’avversario, col quale ebbe a lottare in prima linea lo spirito che si presenti col carattere di un‘etica, fu quel modo di sentire e di condursi, che si può indicare colla parola «tradizionalismo». Anche qui ogni tentativo di una definizione «conclusiva» deve esser sospeso; ma chiariremo con un caso specifico ed anche ciò provvisoriamente quel che si intende con quella parola; e cominciando dal basso, cioè dagli operai. […] Il mietitore, uomo che per esempio per un marco per jugero aveva fino allora mietuto due jugeri e mezzo al giorno, dopo l’aumento del cottimo di 25 pfennig all’jugero, non mieté, come si sperava, data la possibilità di un alto guadagno, circa 3 jugeri al giorno per guadagnare così M. 3,75, come pur sarebbe stato possibile; ma due jugeri soltanto, poiché guadagnava del pari M. 2 e mezzo come fino allora, e, secondo la parola della Bibbia, si contentava del poco. Il maggior guadagno lo attirava meno del minor lavoro, non si chiedeva «quanto posso io guadagnare se do un massimo di lavoro», ma sibbene «quanto debbo lavorare per guadagnare quel salario ? M. 2,50 ? che io ho percepito finora e che copre i miei bisogni tradizionali». Questo è un esempio di quella condotta che deve essere definita «tradizionalismo»: l’uomo «per natura» non vuole guadagnare denaro e sempre più denaro, ma semplicemente vivere, vivere secondo le sue abitudini e guadagnare quel tanto che è a ciò necessario. Dappertutto là dove il capitalismo moderno iniziò la sua opera di aumento della produttività del lavoro umano mercé l’aumento della sua intensità, urtò nella resistenza indicibilmente ostinata di questo motivo fondamentale del lavoro economico precapitalistico, e vi urta ancor oggi tanto più, quanto più «arretrato» (da un punto di vista capitalistico) è il proletariato operaio, a cui si rivolge.
Treccani, Enciclopedia scienze sociali, voce “capitalismo”.
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