Irene Biemmi, Il sessismo nei libri delle elementari

by gabriella

La scuola italiana continua a tramandare modelli di mascolinità e femminilità rigidi e anacronistici. Lo documenta Irene Biemmi in Educazione sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari [Rosenberg & Sellier, 2018] di cui riporto uno stralcio della Postfazione. Tratto da Micromega.

 

Tutto cambia, ma non i libri di testo (Postfazione)

Se si prende in mano un libro a caso, può succedere che la constatazione non sia immediata. Non tutti i brani sono egualmente risibili, a una lettura rapida certe pagine sembrano accettabili… È solo leggendo con attenzione, rileggendo e ponendo in correlazione le varie pagine che il disegno pedagogico arcaico e regressivo si fa luce.

Umberto Eco, I pampini bugiardi

Nel 1972 Umberto Eco pubblica I pampini bugiardi. Indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari, l’anno successivo Elena Gianini Belotti dà alle stampe Dalla parte delle bambine (1973).

È passato quasi mezzo secolo dall’uscita di questi due libri che, da diverse angolature e con accenti differenti, hanno denunciato la miserrima qualità dei testi scolastici e dei libri per l’infanzia diffusi nell’Italia degli anni Settanta.

Libri edulcorati, anacronistici e conformisti, incapaci di rappresentare la complessità e la conflittualità dei cambiamenti sociali in atto in quegli anni febbrili. Libri pervasi da evidenti tracce di sessismo, razzismo e da un latente autoritarismo, che però risultano refrattari ad una lettura critica perché sono stati essi stessi la fonte di un immaginario – sessista, razzista, autoritario – che ha nutrito e permeato il substrato culturale in cui gli italiani sono cresciuti e si sono formati, e dal quale è dunque difficile prendere le distanze. Questa sorta di corto circuito attivato dai libri di testo, che li rende impermeabili al cambiamento, è descritto nitidamente da Umberto Eco, in un passo che merita di essere citato con ampiezza:

Alle soglie della loro vita culturale, iniziando l’esperienza difficile ed esaltante della lettura, i nostri figli si trovano a dover affrontare i libri di testo delle scuole elementari. Educati noi stessi su libri pressoché analoghi, con la memoria ancora affollata di ricordi necessariamente cari e tenerissimi, legati alle illustrazioni e alle frasi di quelle pagine, ci è difficile fare un processo al libro di lettura. E ci è difficile farlo perché probabilmente molti dei nostri crampi morali e intellettuali, delle nostre idee correnti più contorte e banali (e difficili a morire) nascono proprio da quella fonte. Allora la fiducia che proviamo, di istinto, per il libro di lettura, non è dovuta ai meriti di quest’ultimo, ma alle nostre debolezze, che i libri di lettura hanno creato e alimentato.

Fare un processo al libro di lettura implica uno sforzo di straniamento: richiede che si legga e rilegga una pagina in cui si diffondono idee che siamo abituati a considerare «normali» e «buone» e che ci chiediamo: ma è proprio così? condizionati come siamo dai nostri antichi libri di lettura, leggere i nuovi significa aver la capacità e il coraggio di dire: «il re è nudo». Un atto di chiarezza che, diversamente che nella fiaba di Andersen, il bambino non può fare. Dobbiamo dunque farlo noi. (Eco, 1972, p. 7)

Eppure gli adulti – insegnanti, genitori, autori e autrici dei libri di testo, editori scolastici – non sono assolutamente capaci di fare questo “sforzo di straniamento” e continuano a replicare all’infinito idee e rappresentazioni del mondo ritenute – appunto – “normali” e “buone”. Idee che tendono a convergere in un modello-unico che mette d’accordo scuola e famiglia, e che viene trasmesso senza soluzione di continuità alle nuove generazioni.

Scrive Elena Gianini Belotti: «Gli autori di libri per bambini si limitano puntualmente a offrire loro gli stessi modelli già proposti in precedenza dalla famiglia e dall’ambiente sociale. La letteratura infantile ha quindi puramente la funzione di conferma dei modelli già interiorizzati dai bambini. La trasmissione dei valori culturali diventa un potente coro senza voci dissenzienti» (1973, p. 106).

È passato mezzo secolo da quando Eco e Belotti hanno tratteggiato questo scenario a tinte fosche e nel frattempo qualcosa è cambiato, ma non quanto si sarebbe potuto sperare. Quando anni fa mi sono affacciata a questa area di studi, oggi variamente nominata come “Educazione di genere”, “Pedagogia di genere”, “Pedagogia della (o delle) differenze di genere” (Gamberi, Maio, Selmi, 2010; Leonelli, 2010), non potevo immaginare che puntando lo sguardo sui libri di testo avrei toccato un nervo scoperto del nostro sistema scolastico in relazione alla questione della parità. Il quadro che emerse dalla ricerca fu infatti decisamente sconfortante, e al tempo stesso sorprendente: chi poteva immaginare che agli inizi del Duemila i libri delle elementari veicolassero impunemente, e in maniera martellante, immagini di mamme congelate nel modello della casalinga anni Cinquanta e di papà capifamiglia, dai modi vagamente autoritari, dediti al lavoro e alla gestione economica della famiglia? Non avrei potuto prevederlo, a maggior ragione perché avevo deciso di analizzare libri pubblicati negli anni seguenti al progetto Polite, un progetto voluto e sopportato in maniera capillare dall’Associazione Italiana Editori, che – ipotizzavo – avrebbe apportato grandi rinnovamenti. Mi sbagliavo.

Sono state fatte varie ipotesi sulle ragioni di questo fallimento del Polite e una delle più accreditate è che il clima politico all’epoca non fosse favorevole e il contesto socio-culturale non fosse ancora “pronto” per comprendere e per supportare un progetto così innovativo. Da allora sono passati quindici anni (il Polite si è concluso nel 2002) e molte cose sono cambiate, ma non i nostri libri di testo. Da un recente studio di Corsini e Scierri (2016) emerge infatti che la rappresentazione dei generi non solo non è migliorata, ma è leggermente peggiorata.

Nei libri di lettura per la scuola primaria attualmente in uso ritroviamo, in maniera acuita, tutte le questioni già sollevate diversi anni fa dalla mia ricerca: i protagonisti maschili hanno una presenza schiacciante rispetto a quelli femminili (sono numericamente quasi il doppio) e la loro presenza aumenta ancor di più nel caso in cui la storia sia ambientata in spazi aperti, oppure nel passato o, ancora, nel caso dei racconti d’avventura; il mondo delle professioni è appannaggio degli uomini (nel campione di testi analizzati da Corsini e Scierri vengono conteggiate ben novantadue tipologie professionali per gli uomini e tredici per le donne, queste ultime riconducibili perlopiù ai lavori educativi e di cura); i bambini maschi hanno un’ampia possibilità di scelta dei giochi (videogame, costruzioni e altri giochi da montare, treno elettrico, biglie etc.) mentre per le bambine giocare con le bambole è ancora l’attività prevalente. E ancora, tra le attività preferite dei maschi troviamo “andare in bicicletta e suonare uno strumento musicale” mentre i passatempi prediletti dalle bambine risultano essere “raccontare storie e cucire/ricamare”.

[…] «Si deve quindi ritenere che, per accontentare la maggioranza media, per non suscitare dissensi, per non urtare suscettibilità, per piacere a tutti, si cerchi di mantenere il testo al livello dell’ovvietà, del qualunquismo, della acriticità, della idiozia rispettabile» (Eco, 1972, p. 10).

 

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