Le istituzioni sono complessi durevoli di valori e norme che definiscono e regolano, in modo indipendente dall’identità degli individui che ne fanno parte, i rapporti sociali ed i comportamenti reciproci di un determinato gruppo di soggetti la cui attività è volta a conseguire un fine socialmente rilevante.
Il matrimonio, ad esempio, definisce e regola, indipendentemente dall’identità degli sposi, da un lato, i rapporti tra i due coniugi e i loro comportamenti reciproci – come l’obbligo di fedeltà e di assistenza – dall’altro, i rapporti ed i comportamenti che gli altri devono tenere nei loro confronti. E’ un’istituzione con il fine sociale della cura dei componenti della famiglia – in una società cattolica, soprattutto dei figli.
Nella circostanza più comune, i complessi di norme e valori che chiamiamo «istituzioni» si servono di organizzazioni per raggiungere i loro scopi. È il caso della scuola, dell’ospedale, dell’impresa industriale e delle organizzazioni statali.
In questo caso, oltre che da valori, usi e norme, le istituzioni sono formate dal personale che con la sua attività dà corpo a tali valori, riproducendoli e imponendoli ai nuovi membri, e dalle risorse materiali necessarie allo svolgimento della loro attività. Ad esempio, la pubblica istruzione (istituzione) si serve della “scuola”, cioè di edifici scolastici, banchi, libri, finanziamenti, rapporti di lavoro, metodi, teorie, pratiche ..
Poiché le istituzioni svolgono funzioni socialmente rilevanti, la loro esistenza si regge sulla valutazione positiva e sul riconoscimento della loro utilità da parte della società, che fornisce loro legittimazione ideologica (cioè la diffusa convinzione che la loro esistenza sia giusta e necessaria), sostegno politico (la disponibilità a difenderle e sostenerne le ragioni da parte dei membri della società) e risorse economiche (finanziamenti al loro funzionamento).
Quando questa legittimazione si indebolisce o viene meno, le istituzioni entrano in crisi, condizione alla quale possono reagire irrigidendosi o accelerando un processo di cambiamento che può alterarne, più o meno radicalmente, l’identità. In ogni caso, il cambiamento delle istituzioni segue quello della società a cui appartengono. Basti pensare al tipo di scuola oggetto della corrosiva critica di The Wall (Inghilterra dei primi anni ’60) e confrontarlo con l’attuale condizione dell’istituzione, ad esempio con quella di una scuola italiana della metà degli anni ’90.
Ciascun individuo, fin dalla nascita, si trova dinanzi le istituzioni della sua società come una realtà precostituita, indipendente dagli individui che ne fanno parte, che ha la forza costrittiva di una realtà materiale.
Le istituzioni non sono però entità materiali – la scuola non si identifica con le scuole -, ma realtà simboliche, cioè realtà mentali fatte di simboli e segni che hanno senso solo per le persone che vivono al loro interno e ne condizionano fortemente i comportamenti. Esse hanno durata, permanenza e stabilità superiori alla durata della vita individuale, sì che possono rimanere pressoché immutate per secoli pur essendo state «impersonate» nel frattempo da molte generazioni differenti.
Legate come sono ai fenomeni di produzione e riproduzione sociale, le istituzioni sono strumenti di disciplinamento dei comportamenti, di cui stabiliscono modelli ai quali, in determinate circostanze, occorre conformarsi.
Nella visione di Michel Foucault, scuola, fabbrica, carcere, clinica ed altri luoghi di reclusione (enfermement) sono istituzioni disciplinari la cui azione non si esaurisce nel modellamento dei comportamenti, ma produce le stesse forme di soggettività corrispondenti (il professore, lo studente, il bidello, il preside).
Istituzioni totali sono, invece, dette quelle che assorbono e determinano l’intera esperienza di vita degli individui che ospitano, come le carceri, i lager, i manicomi, i monasteri, le case di riposo.
Il termine è stato coniato da Erwing Goffman per indicare la drammatica esperienza di alienazione e spersonalizzazione dei pazienti psichiatrici del Saint Elizabeth di Washington nel quale trascorse un anno in osservazione partecipante, documentandolo in Asylum (1961).
Roberto Escobar, Il valore d’ordine delle istituzioni
Il rapporto fra la protezione che l’istituzione garantisce ai singoli oltre l’angustia dell’adesso, e l’obbedienza che questi le prestano – in tale rapporto sta la percezione della sicurezza -, è avvertito dai singoli come valore d’ordine.
E, questo valore, lo stesso delle catene con cui Efesto, sgherro degli dèi, riafferma la durata dell’axis mundi contro la ribellione insecurizzante di Prometeo. Per l’eroe profanatore e fondatore che cerca nel caos nuovi significati e un ordine ulteriore, quelle catene sono una pena crudele.
Al contrario, per Epimeteo – per l’elemento epimeteico necessario negli uomini, effimeri che in un giorno tramontano -, quelle catene sono un valore, per quanto paradossale esso paia a chi si sforzi d’osservarlo per così dire da fuori, con stupore e talvolta con orrore.
Il valore d’ordine si alimenta del soddisfacimento che l’istituzione assicura, della prevedibilità dei comportamenti altrui che da essa deriva, e di quella delle sanzioni eventuali e degli eventuali riconoscimenti. Sullo sfondo di tale prevedibilità – e delle sue narrazioni, ideologie o miti in senso pieno che siano -, diventa virtualmente possibile ai singoli aprire la vita al futuro, investendo nel tempo così domesticato quel tanto o quel poco in cui, per ognuno, la vita consiste: interessi, affetti, passioni, speranze. Ed è proprio quest’investimento – l’investimento di ciò che si ha e si avrà e, ancor più, di ciò che si è e si sarà – a innalzare l’immagine di sé e del proprio futuro, la propria biografia, la mitologia personale, così come essa appare narrabile sulla base di ciò che, tanto o poco, in quell’ordine è stato investito.
Le istituzioni – avverte la Douglas – ci convincono a unirci alla loro narcisistica autocontemplazione. Ossia: all’apparenza del loro essere centro del mondo, e addirittura analoghe alla sua verità ed essenza. Nella sicurezza virtuale che nell’istituzione si mostra, si riflette la luce d’un sole che chiama a sé gli sguardi dei singoli, orientandoli. Da tale luce, dal sistema di ritualità e doverosità che definiscono lo spazio dell’istituzione individuandone un centro, s’irraggia un’uniforme norma di vita: nella somma di decisioni-già-prese che la costituiscono, ci sono modelli d’azione, progetti, e dunque biografie possibili.
Chi, prometeicamente, facesse intravedere altri modelli, altre prevedibilità, altri confini, otterrebbe di disorientare gli sguardi, di porne in dubbio il centro, e dunque di mettere in forse gli investimenti e con essi le biografie. Perciò, epimeteicamente, la proposta d’altri ordini, anche migliori, difficilmente è accolta. Che s’abbiano da perdere solo le catene: ecco un ottimo motivo perché a quelle stesse catene sia attribuito tutto il valore d’una vita. Così vuole il paradosso del valore d’ordine [Metamorfosi della paura, Il Mulino, 1997, pp. 137-138].
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